La curiosità come metodo politico

Di Riccardo Conti sono stato orgogliosamente “nipotino indisciplinato” e non è dunque facile scriverne a meno di due anni della sua prematura scomparsa. Tuttavia la pubblicazione, a cura della sezione Toscana dell’INU, del numero monografico di Urbanistica e Dossier a lui dedicato merita di cacciare indietro il magone e provare a ragionare su Riccardo Conti nel suo fare urbanistica, che è poi anche il titolo della pubblicazione.

Il volume raccoglie scritti di chi con Riccardo condivise una stagione amministrativa e riformista, come la chiamava lui, irripetibile.  Intanto per il metodo, un incontro di sapienti e di politici, così inimmaginabile nella stagione dei “professoroni”, dell’inesperienza come valore, dell’università della vita. Erano anni in cui i Direttori generali dei vari assessorati della Regione Toscana non avrebbero sfigurato nelle cattedre dei migliori atenei del Paese e in cui, noi capi di gabinetto, temevamo il maglio del CTP del giovedì molto più della scure della giunta politica del lunedì. Nel volume c’è appunto il racconto di Mauro Grassi che ci fu rubato dalla Cultura proprio per approdare all’assessorato di Riccardo e con lui coordinare una squadra formidabile che avrebbe disegnato una Toscana capace non solo di preservarsi ma di svilupparsi.

Riccardo, cresciuto con la cultura onnivora di quelli per cui studiare era la prima forma di riscatto, declinava lo sviluppo territoriale come sviluppo economico, si ostinava a non vedere la terra che era stata della Galileo, del Pignone e della Piaggio a un’eterna Disneyland che consumava il suo passato o nella trasformazione in un Chiantishire fatto di vincoli ad ossimorum. La sua idea di progresso passava dalla città lineare da Firenze al mare, nell’alta capacità che univa Livorno a Rotterdam. C’era in lui un forse ingenuo sviluppismo, un mito di progresso che certo prevaleva su un ambientalismo da salotto, sull’immobilismo progressista che vedeva in una fabbrica di caravan un nemico di classe.

La Toscana di Riccardo era vigne a giropoggio, come aveva letto in Emilio Sereni, ma anche l’Arno Valley il cui poster era appeso nella sua stanza di vicepresidente della Provincia. Lo sguardo dritto e fiero nel futuro non lo abbandonava mai, ma era un futuro fatto sì di rispetto ambientale ma non certo di immobilismo luddista. A Riccardo piaceva il progresso e sognava riforme per sviluppare. Era felice la crescita per lui, mai il suo contrario.

Certo non fu semplice lavorare con Riccardo, rapportarsi con lui come ricorda il nostro Gianni Biagi anch’egli autore di uno scritto della monografia sui rapporti, talvolta burrascosi tra i piani regionali e quello comunale a cui forse un eccesso di critica da parte della Regione contribuì a far allungare il dibattito fino a che il vento che soffiava da Rignano ne decise la fine, più consona alla stagione nuova che rappresentava.

Ma il metodo di Riccardo era un metodo curioso, pedagogico. Intergenerazionale. Quanti giovani devono a Riccardo occasioni di confronto e crescita, opportunità di incarichi, tutti meritati, quanto meno per la qualità di quelli che ci sono succeduti. Ed ecco che è così bello leggere le pagine di Chiara Agnoletti, anche lei cresciuta alla scuola dei nipotini di Riccardo, mai geloso e sempre pronto a sorreggere anche quelli più riottosi di noi.

Quella stagione siamo certi non tornerà più e magari è meglio così, ma riappropriarsi di quel metodo, di quella curiosità, della mazzetta dei giornali esagerata sempre sotto il braccio di Riccardo, sarebbe oggi più che mai una necessità dell’agire politico.

“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” campeggiava in effige all’Ordine Nuovo gramsciano e Riccardo ne seguì fino all’ultimo il comando. Ricordarlo oggi continuando a studiare è il modo migliore per occuparsi del territorio, anche ferito, che ci circonda.

Articolo uscisto su Cultura Commestibile n. 298 del 2 marzo 2019.

Troppo poco e troppo tardi. Una lettura del manifesto Calenda

Non c’è dubbio che Carlo Calenda sia stato capace di costruirsi un ruolo e una visibilità da personaggio politico nazionale in un tempo relativamente breve, così come indubbie sono le capacità di comunicazione e dialettiche dell’ex ministro. In pochissimo tempo Calenda è diventato, forse insieme al solo Minniti, il volto pubblico del governo Gentiloni: infaticabile sui social non si è risparmiato nel dialogo coi cittadini e nelle polemiche molto spesso con esponenti del PD, Michele Emiliano su tutti. Iscrittosi, direttamente alla Direzione del Partito, al PD dopo la batosta elettorale ne è in breve diventato uno degli esponenti più in vista del partito in disfacimento ponendosi come alternativa renziente al renzismo diroccato (e per ciò inviso a Renzi e ai suoi accoliti). Da questa posizione ha iniziato a maturare pose da padre fondatore e, con indubbio merito e capacità, iniziato a proporre ricette che mercoledì scorso hanno dato vita a una specie di manifesto programmatico pubblicato su il Foglio.

Torneremo poi sulla scelta della testata, partiamo invece dai contenuti. Il manifesto dopo una non breve analisi delle colpe dei progressisti nel tentare di governare la prima globalizzazione e nel configurare un plausibile scenario, lacrime e sangue, di fine del lavoro tradizionale (scenario che ça va sans dire vedrebbe l’Italia messa peggio di quasi tutti i Paesi occidentali) ne evidenzia il rischio, da noi passato ormai dalla potenza all’essere, di una crisi profonda, forse irreversibile, della democrazia liberale. Per impedire del tutto questo scenario, ci dice Calenda, occorre andare oltre la rappresentanza di classe e dunque al “semplice” campo progressista dando vita ad una Alleanza repubblicana.

Tuttavia quello di Calenda non è un cartello elettorale o un fronte di resistenza temporaneo ma un vero e proprio patto politico che si fonda su una comunanza di alcuni temi, a sua scelta verrebbe da dire. Vediamo quali: in primis la sicurezza economica, intesa come adesione all’Euro e al sistema europeo, proseguendo con il “piano Minniti” per fermare gli sbarchi e proteggendo gli sconfitti rafforzando strumenti come il reddito di inclusione.

Naturalmente senza dimenticare i “vincenti”, garantendo loro infrastrutture materiali e immateriali, formazione e competitività, passando poi dal ribadire l’Europa come idea guida e dal combattere l’analfabetismo funzionale.

Tutte cose buone e giuste sia chiaro, difficile per chi non si dichiari oggi sovranista e populista non dirsi d’accordo; tuttavia col limite di presentare un minimo comun denominatore per un cartello elettorale e non certo un programma di governo per una alleanza all’altezza delle premesse di difendere la democrazia come l’abbiamo conosciuta nell’occidente da settant’anni a questa parte.

Se la socialdemocrazia ha fallito nella sua elaborazione degli anni ’90 del XX secolo nel pensare di poter governare la globalizzazione come tutti ormai tendono a dire (anche se il dibattito forse avrebbe bisogno di altro respiro, o almeno di un setaccio che non gettasse Amartya Sen insieme a Tony Blair), pensare di rifondare un pensiero progressista su questi punti ha il fiato corto prima ancora di mettersi in marcia.

Certo nemmeno Marx è partito da il Capitale ma qui manca l’accuratezza e la pesantezza almeno dei grundgrisse, il terreno utopico che è in grado di dare la dimensione del sogno, del riscatto se non per sé almeno per la nostra prole. E se non ripartiamo dal riscatto a partire dagli ultimi (ché chiamarli sconfitti come li chiama Calenda non da’ proprio un’idea di ottimismo), da una idea di speranza, come si può pensare di sconfiggere l’egemonia culturale della paura che oggi ha fatto trovare casa agli ultimi, insegnando a questi a odiare quelli ancora più ultimi?

Questo sui contenuti, ma che dire sulla proposta politica che traspare dal manifesto di Calenda? Che cultura politica rappresenta l’ex ministro? Ecco a mio avviso siamo di fronte a un riformismo elitario, espressione ennesima della borghesia illuminata, intellettuale e colta. Quella classe che di volta in volta ha dato vita a felici famiglie politiche e negli ultimi anni si è presentata come il volto tecnico della politica.

Ecco su questo occorrerà forse aprire una parentesi. E’ talmente introiettata in noi la cultura della politica come degenerazione, almeno dalla nefasta stagione apertasi nel 1992, che larga parte dei gruppi dirigenti del Paese ha visto con piacere e rassicurazione l’idea che siano dei tecnici a guidarci, senza comprendere che la tecnica andava sì invocata e ricercata ma non nella capacità di essere bravi direttori generali, ma nel formare tecnicalità della politica, che non sarà un’arte forse ma è di certo mestiere, inteso qui nel senso arcaico e artigiano del termine.

Siamo dunque arrivati al punto che non ci sogneremo mai di far riparare il nostro impianto elettrico di casa da un pescivendolo ma non ci poniamo il problema che chi ci governa abbia o meno il mestiere di governare tra le sue capacità; stupendoci poi se questa sfiducia nelle elites si trasla poi nei confronti degli scienziati e dei medici.

Insomma il tecnico di per sé non è salvifico e pure Calenda rischia la fine di Monti e Dini, pur non augurandogliela. Sì perché il suo è un liberalismo temperato da un po’ (invero poca) di socialdemocrazia e molto paternalismo: un partito d’azione senza il dirigismo, con meno dottrina sociale e qualche riflessione utopistica in meno.

Culture politiche che in questo paese mai hanno saputo raggiungere un popolo come invece avrebbe bisogno la sinistra oggi dove la sua estinzione non è tema da escludere a priori. Invece vedo in Calenda il ripetersi di vecchi errori, di quello che un tempo avremmo chiamato il problema del rapporto con le masse, escluso quasi a priori da queste culture politiche in virtù di una fede deterministica nella capacità del popolo di comprendere che chi sa lo guiderà al meglio. Paternalismo per l’appunto.

Infine, in questo solco, un’ultima riflessione sul mezzo scelto. Come è noto il mezzo non è mai neutro ma quasi sempre predefinisce e determina il fine. Se il tema è ridare speranza, agibilità e voti al popolo di sinistra, far pubblicare il proprio manifesto su il Foglio (sia detto da affezionato lettore seppur orfano della direzione di Giuliano Ferrara) quanto meno non rappresenta un inizio brillante.

Il rischio, riassumendo, è che si avesse l’ambizione di cambiare il mondo e ci si accorga che al massimo si potrà ambire ad un patto elettorale con Forza Italia. Il patto degli sconfitti peraltro; non proprio un augurio di buon lavoro.

Articolo apparso sul numero 269 del 30 giugno 2018 di CulturaCommestibile.

L’occasione sprecata della Legge Fiano

Se la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzione pare che lo sia diventata anche quella dell’antifascismo militante; perché sicuramente parte da buone, se non buonissime, intenzioni la cosiddetta Legge Fiano, che ha per oggetto la repressione della propaganda del regime fascista e nazifascista. Dunque nessuna critica, anzi, all’intenzione e nemmeno si può argomentare, come han fatto alcuni esponenti pentastellati, che il dibattito sia fuori luogo e fuori tempo. La spavalderia di alcune organizzazioni che si rifanno in maniera manifesta al fascismo è ormai evidente ed allarmante, tanto da giustificare, a parere di chi scrive, l’adozione delle norme già presenti nel codice vigente, la cosiddetta Legge Scelba, e nella Costituzione alla XII norma transitoria, imponendone lo scioglimento.

Dunque il momento appariva più che propizio per definire meglio una questione che è stata, sin dalle origini, spinosissima e che tale sempre resterà per la natura propria del tipo di reati che si vorrebbe punire.

La distinzione tra l’essere fascisti e il fare apologia di fascismo infatti (come prevede la normativa attuale senza che il testo attuale modifichi lo stato delle cose), rende (e ha reso storicamente) la questione complessa. Al giudice non bastava e non basta che uno si professi fascista per condannarlo ma l’accusato deve mettere in pratica atti o pensieri che ne configurino un’adesione apologetica. Il che apre un capitolo piuttosto ampio sui reati di opinione, cioè quel tipo di reati che di solito sostanziano più un regime totalitario che una democrazia.

Quindi in quella distinzione così aleatoria e di difficile interpretazione (essere fascisti o fare apologia di fascismo)  tanto dibattito storico e giurisprudenziale si è prodotto, anche in virtù di una sostanziale continuità dello Stato fascista nell’amministrazione della giustizia dopo la II guerra mondiale.

Un dibattito inevitabile poiché fa parte delle contraddizioni proprie di un regime democratico, a cui va aggiunto il momento storico in cui fu scritta la carta costituzionale. I costituenti stessi videro che la norma apriva un problema enorme perché, di fatto, entrava in contraddizione con i principi fondamentali della carta stessa, e ne decisero l’inserimento non nel corpo principale della carta ma nelle norme transitorie.

Furono forse ottimisti nel pensare che, morti i protagonisti coevi del ventennio, nessuno avrebbe avuto in mente di riproporre un movimento politico che aveva devastato il Paese e la sua coscienza.

Dunque l’iniziativa dell’Onorevole Fiano appare meritoria e persino necessaria, quello che preoccupa però è l’esito. Perché il testo licenziato non porta luce né individua criteri di definizione della propaganda nazifascista da punire ma anzi allarga tale fattispecie tanto da poter ipotizzare una scarsissima applicabilità della norma. Intanto il testo non abroga e modifica le disposizioni vigenti ma vi si aggiunge, aumentando le fattispecie di reato dall’apologia alla propaganda. Ma in cosa si sostanza tale propaganda? “anche solo [nella] produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli […] chiaramente riferibili [al partito fascista e al partito nazionalsocialista]”.

Una casistica così generica da rendere impossibile determinare il fatto ma altamente opinabile l’esito del giudizio (e dunque arbitrario il diritto stesso): perché se l’intento è vietare il manganello con la faccia del Duce, come ci si comporterà con la libreria antiquaria che tra le opere in vendita ha, a carissimo prezzo, il vademecum del perfetto fascista di Longanesi?

Il tema del limitare le libertà di espressione del pensiero è tema sensibile, tocca nervi scoperti della storia del Paese e rappresenta uno dei punti più delicati dell’essere una democrazia finalmente compiuta. Per questa era da augurarsi che una siffatta norma fosse accompagnata da una riflessione compiuta, da un dibattito storico e filosofico, almeno da una frase dolorosa e necessaria sui limiti della libertà.

Invece ancora una volta si sono preferiti i talk show ai convegni, il facile consenso allo studio e al dubbio, la semplificazione becera al governo della complessità. Auguriamoci solo che questo clima, fertile per regimi non certo democratici, non favorisca una drammatica eterogenesi dei fini.

 

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.230 del 16 settembre 2017

Neanche il riformismo è un pranzo di gala

I rivoluzionari del XX secolo venivano spronati dalla propaganda dei partiti afferenti alla III internazionale ad essere due volte migliori dei capitalisti che si proponevano di abbattere. La tesi era che l’avanguardia rivoluzionaria avrebbe, col proprio esempio, fatto prendere coscienza al proletariato fino al suo riscatto.

Qui in Italia i gruppi che diedero vita a Livorno al PCdI si affermarono intorno a due riviste, il Soviet di Bordiga e l’Ordine Nuovo dei “torinesi” Gramsci, Togliatti, Tasca, Terracini e altri. Due riviste di cultura, in cui, soprattutto sull’Ordine Nuovo, i temi dell’organizzazione del nuovo stato sovietico e socialista erano trattati e approfonditi ben oltre lo slogan “faremo come in Russia”. Anzi è proprio in quegli anni che nasce la necessità di uno specifico italiano nella costruzione del socialismo, che poi Gramsci approfondirà nei Quaderni e Togliatti svilupperà, certo anche tatticamente, nella via italiana al socialismo del secondo dopoguerra.

Studiare, confrontarsi, migliorarsi era la regola. D’altra parte Angelo Tasca, per convincere un giovane e timido Antonio Gramsci ad unirsi alle loro riunioni gli fece dono di un volume di Guerra e Pace con la seguente dedica “Al compagno di studi, oggi, al mio compagno di battaglia, spero, domani”; mentre il motto che campeggiava in prima pagina de L’Ordine Nuovo era “istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”.

Un imprinting che ha segnato fortemente non solo il PCI ma più in generale tutto il movimento operaio e progressista italiano. Basti pensare ai sindaci del dopoguerra, quella generazione fatta anche di operai come Fabiani a Firenze, quella in cui “la maestà del popolo governava” come scrisse Neruda nei versi dedicati proprio al primo cittadino di Firenze, che si misurarono con uno Stato in cui le persistenze e le continuità con il regime liberale ma soprattutto fascista erano fortissime e invasive oltre ogni immaginazione. Eppure passo dopo passo modificarono le cose e governarono, come dopo di loro la generazione di amministratori della seconda metà degli anni settanta, che ancor di più scardinarono a livello amministrativo un Paese già profondamente cambiato culturalmente e socialmente. Lo cambiarono in presenza e in reazione ad un attacco allo Stato che proveniva sia dai teorici della rivoluzione che da quelli della reazione, facendo prevalere un senso delle istituzioni di cui gioverà il paese nei momenti bui e confusi dei primi novanta culminati però con la deviazione, purtroppo ampia e tragica, della degenerazione giustizialista e l’avvio della stagione del populismo in politica.

Vi è dunque un portato storico, una prassi, comune alla sinistra ma anche ben presente nella tradizione democratica cristiana (la maggior parte dei dirigenti storici della DC proveniva da cattedre universitarie) di coincidenza di cultura e impegno politico, di consapevolezza che il cambiamento per esser tale avrebbe dovuto sempre confrontarsi con resistenze anche tecnico amministrative.

Oggi, la banalizzazione della narrazione pare aver sottovalutato se non dimenticato questo, cruciale, aspetto. Non è un problema di sola comunicazione. O meglio, la comunicazione è l’epifenomeno di un modo di pensare e agire. Dietro alla banalizzazione degli oppositori (non tanto quelli politici ma quelli che siedono nei gangli del potere) in gufi, rosiconi e professoroni, non risiede soltanto un impeto da “rivoluzione culturale” maoista, ma una profonda sottovalutazione del loro potere o, molto più probabilmente, una terribile sopravvalutazione del proprio potere come classe politica.

Della stagione del primo renzismo, in attesa di capire se ve ne sarà un secondo, sul piano delle realizzazioni materiali del proprio riformismo, così tanto sbandierato, molto rimarrà come un incompiuto. Non tanto perché l’esito referendario ha interrotto l’esperienza del governo Renzi, ma perché molte delle riforme hanno cozzato con la verifica tecnico amministrativa di altri organi dello Stato.

La riforma della pubblica amministrazione, bocciata in parti consistenti dalla Consulta, la legge elettorale che ha subito medesima sorte, buon ultimo il TAR che ha censurato la Riforma dei Beni Culturali del ministro Franceschini. A questo possiamo aggiungere gli errori, marchiani e palesi, del nuovo Codice degli Appalti, che hanno generato numerosi rilievi del Consiglio di Stato.

Rilievi che hanno a loro volta dato avvio alla figuraccia della riforma (a parere di chi scrive sacrosanta) dei poteri abnormi dell’ANAC approvata dal Consiglio dei Ministri all’insaputa del consiglio stesso.

Errori che sono stati quasi sempre imputati alla irruenza e alla fretta riformatrice della passata stagione del governo o, dagli stessi protagonisti, a nemici esterni, spesso identificati come parrucconi dell’ancient regime.

Probabilmente c’è del vero nella seconda affermazione e a leggere, uno dietro all’altro, i tre cognomi della giudice che ha formulato la sentenza del TAR sulla riforma Franceschini, questa tesi si può pure rafforzare, se ci è concessa un po’ di ironia.

Tuttavia proprio se questa tesi fosse vera, ancora di più emergerebbe il limite politico di quella stagione di governo. Sottovalutare il proprio avversario è infatti molto spesso il primo passo verso una sconfitta certa. Anche la risposta “la prossima volta cambieremo prima il TAR del resto” ha più un valore propagandistico che reale.

Perché il punto anche se si decide di cambiare il TAR (anzi soprattutto se si decide di cambiare il TAR) è cambiarlo bene, in modo formalmente e sostanzialmente perfetto, a meno che non si intenda cambiarlo attraverso un sovvertimento violento dell’ordine costituito.

Ecco dunque che all’approssimarsi dell’ennesima campagna elettorale in cui il segretario del PD, continuerà con la litania delle prossime riforme che metterà in campo qualora dovesse tornare a Palazzo Chigi, la differenza potrà farla soltanto se si soffermerà sul fatto che, al netto degli argomenti scelti, le prossime riforme si impegnerà a farle bene.

Certo questo impone di scegliere i capaci al posto di fedeli, cosa che finora è parsa più difficile dello scrivere le riforme correttamente.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 220 del 3 giugno 2017

Lo spazio a sinistra

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Molto probabilmente avrei potuto esimermi dall’analisi del voto del primo turno delle amministrative, ma visto che gli amici de l’argine sono così carini da ospitarmi ho provato a trovare un punto di vista diverso. Se vi va lo trovate qui

la costituzione più evocata del mondo

beautiful_lab_20_anni_di_centrosinistra_in_5_minutiArticolo apparso il 23 maggio 2013 su Corriere Nazionale – Qui Firenze

Insomma la “costituzione più bella del mondo”, quella da difendere alle belle conferenze del professor Ro-do-tà, risulta essere uno dei testi più evocati e meno letti del Paese. Era già accaduto con l’articolo 11 il cui secondo comma non troverete mai stampato sulle magliette in vendita alle grandi manifestazioni di piazza; accade ora con l’articolo 49 in cui si parla di partiti. Già perché nel Paese che ha visto Lusi, Belsito, batman, i diamanti della lega, case intestate a figli di leader, partiti personali, partiti che han fatto un congresso in 10 anni, partiti che non ne hanno fatti affatto; ti aspetteresti che un disegno di legge per regolarne la vita e la prassi democratica non fosse accolto come una norma liberticida. Magari si potrebbe discutere sul merito della proposta Zanda Finocchiaro; del fatto che non regoli il finanziamento pubblico, preveda le primarie come metodo di selezione per tutti e altre storture che lo rendono un testo non certo perfetto. Da qui però ad evocare il tentativo Scelba per mettere fuori legge PCI e MSI (anche se il dibattito storico non ha mai chiarito se Scelba avesse davvero questa intenzione) pare esagerato. Che del progetto si lamenti il demiurgo di un movimento che non ha mai fatto mistero di considerare il parlamento, e più in generale la democrazia, come una tappa di passaggio verso il (proprio) mondo perfetto e che governa senza alcun contrappeso democratico il proprio movimento passi; che la faccenda diventi l’ennesima spaccatura interna del PD appare francamente noioso. Se a questo aggiungiamo che la maggior parte delle critiche arrivino da una parte del partito che ha chiesto primarie aperte anche per la scelta dell’ortolano e che ha costruito larga parte della propria fortuna sul tema del rinnovamento della politica renderebbe la cosa anche divertente, non fosse che ci saremmo anche scocciati della solita polemica pronta ad essere sostituita dal nuovo tema di domani.

Le regole del biliardo applicate al PD

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Articolo uscito su Corriere Nazionale – Qui Firenze del 16 maggio 2013.

A leggere le interviste alla fu maggioranza bersaniana del PD viene da pensare che il segretario e candidato premier fosse stato scelto, candidato e sostenuto da un’assemblea di autoconovocati o da una loggia segreta più simile ai Monty Python che alla P2. Il primo fu D’Alema che definì a pochi giorni dal voto Bersani “uomo dell’800”. Tuttavia, come spesso gli capita, alla dura critica non seguì il completo abbandono; diversa fu la scelta della Bindi che si dimise dalla presidenza del partito perché non voleva più giustificare decisioni alle quali diceva di non prendere parte. Buon ultimo Veltroni di cui ieri abbiamo letto le anteprime del nuovo libro in cui dice che il PD avrebbe dovuto proporre un governo del presidente a guida Bonino. Tocca dar ragione al Fatto che ieri si chiedeva “ma non poteva dirlo prima?”. Domanda che vale anche per l’ex sindaco e attuale europarlamentare Domenici che in una intervista ad Allegranti nel fine settimana ammette di non aver votato Bersani, anche se non ci rivela se la sua preferenza sia andata a Tabacci, Puppato o Vendola. Una rivelazione a mesi di distanza che fa venire il legittimo sospetto che non ci sarebbe mai stata se al governo oggi ci fosse Bersani e non Letta. A tutti questi dirigenti in cerca di una nuova legittimazione e purificazione dei propri errori (anche se dubito che questa volta persino i militanti più fedeli gli crederanno) consiglio in vista del dibattito politico e congressuale del PD di rileggere le regole del biliardo, dove i punti valgono doppi se si dichiarano ma solo prima di tirare.

Perché il PD di Barca potrebbe non dispiacere a Renzi

barca e il sol dell'avvenire

Articolo apparso su Corriere Nazionale – Qui Firenze il 10 maggio 2013.

Con il pubblico che lunedì sera affollava il teatro Puccini per ascoltare Fabrizio Barca si sarebbe tranquillamente potuta convocare la direzione degli ultimi Ds fiorentini se non dell’ultimo PCI; sicuramente del PDS. Un pubblico ancora confuso dalla non vittoria elettorale, dal crollo di Bersani e dal governo Letta. Si trattasse di aderenti al PD o a SEL emergeva un bisogno, sintetizzato dal padrone di casa Sergio Staino, di un partito compiutamente di sinistra. Come questo si concili con quanto scritto e affermato dallo stesso Barca anche lunedì sera, non è molto chiaro. Barca infatti, molto onestamente, non ha mai dichiarato né di voler cambiare la natura del PD né proposto la nascita di un soggetto a sinistra confluendo magari nell’ennesimo cantiere proposto da Vendola. Quello che si propone Barca è di fornire un contributo al PD per definirne meglio la propria identità o almeno l’identità della sua componente di sinistra. In questo senso la collaborazione con Renzi, da parte di Barca, non appare episodica o tattica ma si basa sulla convivenza di tre grandi famiglie politiche nel rinnovato PD (i socialcomunisti, i liberaldemocratici, la sinistra democristiana). Il grande rischio di tale ipotesi, almeno a parere di chi scrive, è la cristallizzazione delle famiglie politiche, impedendone di fatto il superamento e la nascita di un soggetto politico veramente nuovo, e una divisione dei compiti in cui le famiglie democristiana e liberal democratica governano il Paese e le Istituzioni mentre la tradizione socialcomunista il partito. Un film già visto in questi anni che non ha portato benissimo alla componente di sinistra del PD.

Tutt’altro che brevi cenni sull’universo (i 60 giorni che inchiodarono la Repubblica).

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Siccome sono un po’ di giorni che i miei dieci lettori mi fanno troppi complimenti per quello che dico nella sintesi dei 140 caratteri di twitter, sento l’urgenza di fare arrabbiare un po’ tutti mettendo giù qualche nota sparsa sulla situazione politica e sugli ultimi estenuanti 60 giorni delle istituzioni politiche italiane. Nessuna pretesa di esaustività, anzi, né di una logica tra, e in, quello che scrivo. Giusto un po’ di pensieri sparsi da offrire e facilissimi ad essere smentiti persino nei prossimi minuti. Un’unica avvertenza di metodo, soprattutto a me stesso, nessun interesse al contingente, sia esso il governo, il destino di questo o quello o gli appuntamenti interni alla vita dei partiti, ma solo temi generali come si compete ad uno spettatore interessato.

1)      La generazione playstation. Ho sempre pensato che la fila fosse sinonimo di civiltà; si trattasse di prendere un autobus, fare un prelievo al bancomat, progredire all’interno di una organizzazione sociale. Oggi invece, anche a causa di un paio di generazioni messe a tappo dell’intera società italiana (i meccanismi di cooptazione non hanno saputo adeguarsi all’allungamento della vita), è diventato di moda saltare la coda e fare vanto della propria inesperienza, almeno in politica. Così non ci sogneremo mai di farci difendere in un processo penale in cui rischiamo la galera dall’ultimo dei praticanti di uno studio legale, abbiamo invece affidato buona parte della vita dei partiti e delle istituzioni a degnissime persone, spesso brave e preparate, che però hanno iniziato la loro esperienza politica un minuto prima (talvolta persino un minuto dopo) essere elette. Il fatto che tutto questo lo si sia ammantato di merito, intendendo per merito le capacità extrapolitiche che indubbiamente molti di questi nuovi protagonisti hanno, ai miei occhi risulta come aggravante. Così abbiamo oggi in molte istituzioni e partiti politici una generazione che non ha mai giocato davvero a calcio pensando che fosse sufficiente essere dei campioni alla playstation. Da qui una sottovalutazione delle prassi, delle liturgie istituzionali (la cui conoscenza è indispensabile se le si vuole sovvertire) che porta a innocue goliardate come votare Mascetti alla Presidenza della Repubblica (atto apparentemente innocuo ma significativo del clima da gita scolastica) o al pensare che male non farà dare un po’ di schede contro Prodi giusto per vedere l’effetto che fa. Solo che poi, mancando mestiere e regia, finisce che le schede sono troppe e tutto crolla.

2)      Questione Morale o questione politica. Passi trent’anni a dirti la parte sana e migliore del Paese e finisce che non solo ci credi ma condisci ogni dissenso dal tuo bene comune come tradimento o crimine. Ci riflettevo ieri sera quando un giovane, evidentemente non anagraficamente figlio delle tradizioni politiche novecentesche, ha detto “noi siamo il PD buono”. Allora mi è tornato in mente Natta (che mi pare Guido Vitiello giorni fa ha ritrovato su facebook) che criticava l’intervista di Berlinguer sulla questione morale. Diceva Natta che Berlinguer aveva commesso un tragico errore nell’avere posto non una questione politica ma una questione morale. Oggi possiamo dire che aveva ragione e che il clima di odio (sì odio) che si avverte nella società prima che nei gruppi dirigenti è la dimostrazione che la spaccatura nel Paese non è tra linee politiche ma tra linee morali, il bene e il male (sia chiaro analogo discorso vale a parti invertite dove anche larga parte del popolo di destra odia la sinistra). Occorrerebbe che la politica abbandonasse il campo immediatamente e non impostasse campagne elettorali involontariamente orwelliane (l’Italia migliore) e lasciasse alla cultura e persino alle religioni il compito di pacificare il Paese. Dovremmo impegnarci a farci almeno un amico (virtuale o reale) della parte avversa e conoscendolo vedere che ci somiglia molto più di quanto ci divida la scelta politica. Occorrerebbe anche rivalutare Natta, se non politicamente almeno culturalmente. Un operazione che la trasformazione in santino di Enrico Berlinguer ha sinora impedito. Penso e spero che a partire da quell’articolo che citavo presto qui o su qualche rivista possa proporvi una rilettura di Natta e della sua “diversità”.

3)      Un partito in Barca. Ho letto il documento di Barca. Occorrerà tornarci e discuterne approfonditamente. Conto di farlo da queste parti appena avrò un po’ di tempo per scrivere seriamente. La prima impressione è quella intanto di un metodo nuovo, seppur antico. Non ci si è limitati a una brochure colorata o una infografica ma si è scritto un saggio di 55 pagine con note e bibliografia. C’è fatica e c’è rispetto in siffatta maniera. Sul piano dei contenuti però la prima cosa che salta all’occhio è il tentativo, non proprio modernissimo, di coniugare Gramsci con Amartya Sen. Mi verrebbe da dire si accomodi. Sono circa venti anni che ci hanno (abbiamo se mi passate l’immodestia) provato. Ogni volta però il limite è stato di prendere in Gramsci le parti relative all’organizzazione e al partito e in Sen le parti economiche. Forse occorrerebbe prendere la lettura della società di Gramsci e il concetto di politica che deriva dalla declinazione di Libertà di Sen perché l’esperimento abbia buoni frutti.

4)      Divergenze tra me e il compagno Pannella. Criticare Marco Pannella non è mai operazione semplice, non tanto per la sua grande storia ma per la sua capacità spesso divinatoria di leggere la politica e la società italiana (una volta magari riusciti a dipanare qualcuno dei mille rivoli della sua oratoria). Però sulle sue critiche al presidente Napolitano mi spiace ma (per quel che conta) non sono d’accordo. Pannella parte dal condivisibile punto che Bonino sarebbe stata meglio di Napolitano e ne addita responsabilità anche allo stesso Napolitano. Certo il Presidente ha fatto un (grandissimo) discorso di (auto)investitura molto assolutorio verso se stesso e come lui ha inteso e agito la sua carica istituzionale nel primo settennato. Quello che però contesto a Pannella è una tendenza egualmente assolutoria nei confronti del suo partito (o della sua galassia). Ok il regime, ok la partitocrazia imperante ma forse causa dell’annientamento elettorale dei radicali è anche un gruppo dirigente tra i più immobili che il partito ha avuto nella sua lunga e gloriosa storia. Perché la partitocrazia e il regime sono ovunque ma in Puglia le firme le raccolgono nel nord no. Sia chiaro stiamo parlando di persone serie, preparate e con una passione e un impegno smisurati, tuttavia non capaci, a mio avviso, di essere nuovi, innovatori, come sempre sono stati i radicali. E non c’entra nulla la storiella di Pannella che mangia i suoi figli, Pannella quando dissente semplicemente si ferma e come ogni stella intorno alla quale ruotano sistemi solari, quando si bloccano i corpi celesti collassano su sé stessi. Credo che per il bene dei radicali (e dunque dell’intero Paese) una nuova fase politica di quel soggetto sia necessaria, aldilà delle figure e delle persone che la incarneranno.

5)      Avanti il gran Partito. Collegandomi con quanto scritto sopra l’ultimo punto lo dedico al PSI di Nencini. Nel marasma generale quel partito mi è apparso, almeno nel centrosinistra, la forza politica che meglio esce da questi 60 giorni di delirio. Una posizione coerente sul Presidente della Repubblica, nessun tradimento dell’alleanza e dei suoi leader e una posizione chiara sul governo. Certo, direte, è facile farlo quando non si è determinanti ma anche avere coscienza dei propri limiti è grande pregio per una politica in cui abbiamo visto partiti del 3% pretendere propri esponenti alla guida delle istituzioni, dettare linee di governo e pontificare sempre e comunque. Certo non dimentico che Nencini è quello dell’accordo in cassaforte con Manciulli o quello che mentre faceva le manifestazioni contro la riforma della legge elettorale per le europee perché estrometteva i piccoli partiti, contemporaneamente votava la riforma del “cinghialum” toscano che provocava lo stesso effetto. Tuttavia in questa fase, per me, si è ben mosso e la sua proposta di rimettere in piedi un ragionamento sulla sinistra laica e socialista mi pare una  vecchia novità necessaria non per dar vita all’ennesimo partitino ma perché quelle tradizioni non siano assenti da questo (speriamo non infinito) dibattito.