La banalità del maligno

La poderosa biografia che Peter Longerich – ben 890 pagine – ha dedicato a Joseph Goebbels è un tutto fuorché un mattone noioso. La minuziosa ricostruzione della vita del ministro della propaganda del Reich è, innanzitutto, un viaggio per comprendere come, un piccolo borghese con evidenti insicurezze al limite del patologico, è potuto diventare, insieme an accozzaglia non meno disturbata, uno dei padroni della Germania. Un viaggio nella mente di Goebbels che però non è un trattato di psichiatria ma un libro di storia con un imponente apparato critico ed una adeguata bibliografia. Certo è che la gioventù di Goebbles, complice anche la pressoché totale assenza di fonti, è indagata dall’autore molto più sui probabili processi psicologici che lo muovono che sulla semplice ricostruzione dei fatti. Per l’autore i complessi di inferiorità, fisica ma soprattutto sociale, sono la molla che spingono il neo laureato, scrittore fallito, a intraprendere la via della politica. Una strada che lo porta a trovare la sua guida, il suo idolo, in Adolf Hitler. Goebbels, questa la tesi, è sempre stato alla ricerca di un redentore – della sua posizione sociale, delle sue aspirazioni intellettuali che finisce per identificare in quelle dell’intera nazione tedesca – provando a immaginarsi egli stesso in tale posizione, per poi abbandonarsi alla figura di Hitler che riuscirà a mitizzare con la sua propaganda proprio perché lui per primo, lo considererà indispensabile.

Un processo di ricerca dell’approvazione del Fuhrer che segnerà e determinerà la vita privata del ministro della propaganda che, dopo una gioventù sentimentalmente tormentata, finirà per sposare Magda e con la quale instaurerà un ménage di cui Hitler sarà parte integrante e nel quale il dittatore finirà per prendere le decisioni significative (matrimonio, possibile divorzio) e che sosterrà anche economicamente.

Una simbiosi così profonda e perversa che porterà al tragico epilogo finale in cui i Goebbles, compresi i sei bambini, si toglieranno la vita dopo che Hitler avrà posto fine alla propria esistenza.

Ma la biografia, soprattutto dalla nascita del Goebbles politico sino alla tragica fine è una preziosa ricostruzione storica in cui si racconta dall’interno l’ascesa del nazismo, le lotte di potere, la frantumazione e il conflitto tra i gerarchi per finire con la condotta di guerra. Utilizzando i voluminosi diari del Ministro della propaganda, altro segno del suo egotismo, Longerich riesce a ricostruire e demolire l’immagine di potenza di Goebbles mostrandoci come almeno prima della fase finale del regime, Hitler giocasse con lui come il gatto col topo, lo escludesse dalle decisioni importanti convincendolo però del suo, successivo, ruolo fondamentale. O di come Goebbles provasse a sistematizzare posizioni autonome – la visione sociale del nazismo, il no all’alleanza con i conservatori per andare al governo, la sopravvivenza delle SA o la guerra totale – che venivano demolite dal Fuhrer facendo diventare il Ministro il più fervente sostenitore delle tesi a lui, fino a quel momento, opposte.

C’è poi Goebbles convinto antisemita nella suo progressivo passaggio da un antisemitismo borghese ad una ferocia non solo comunicativa indescrivibile; tuttavia cosciente che quegli atti, quelli della soluzione finale, significavano anche l’impossibilità per i nazisti e la Germania di tornare indietro, di salvarsi in qualche modo. Oppure il Goebbles che prova a imporre la propria idea di cultura nazionalsocialista finendo poi per ammettere, seppur nel solo privato dei diari, il fallimento nel creare una letteratura, un teatro, una musica e soprattutto, un cinema rispondente al regime.

Ne esce il ritratto di un uomo debole, tutt’altro che infallibile e onnipotente, incapace di una propria autonomia di pensiero, concentrato anche mentre tutto intorno rovina a ottenere l’approvazione del mondo e del suo capo. Una visione molto diversa da quella che il ministro era riuscito a conservare, nonostante il disastro finale, e che ci restituisce un altro pezzetto, non certo il più piccolo, della banalità del male e dei maligni.

Peter Longerich, Goebbles. Una biografia, Einaudi, 2016. Traduzione di Valentina Tortelli.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 519 del 3 febbraio 2024

Tra Roma e Mosca, le tante sfaccettature dei comunisti italiani

Il percorso del Partito Comunista Italiano dalla sua nascita a Livorno nel 1921 fino alla sua fine nel 1991 ha sempre rappresentato un unicum di difficile collocazione nella storia del comunismo mondiale. Anche se questa “diversità” è stata fortemente narrata dal gruppo dirigente di quel partito, soprattutto a partire da secondo dopoguerra e nella fase di ricerca del “compromesso storico”, è indubbio che molti caratteri originali abbiano attraversato la storia del PCI.  

Questo vale anche (e forse soprattutto) nel campo delle relazioni internazionali ed in particolare nel rapporto con Mosca che Silvio Pons indaga in un bel volume “i comunisti italiani e gli altri”. Il lavoro di Pons parte dalle origini per mostrare i caratteri prima di ammirazione per quello che accade in Russia dal 1917, da parte sia del gruppo torinese dell’Ordine Nuovo di Gramsci e Togliatti, che da quello napoletano di Bordiga; per passare poi agli anni del fascismo, del gruppo dirigente a Mosca che sopravvive meglio di altri esuli, l’esperienza allineata a Mosca della guerra di Spagna e poi il ritorno in Italia dopo il 25 luglio del 1943. A partire da allora le differenze con Mosca si ampliano non tanto nella scelta della svolta di Salerno (processi analoghi di partecipazione dei comunisti ai governi di unità nazionale avvennero infatti anche in Francia e Belgio in ossequio ad una linea decisa e condivisa da Stalin) ma nella costruzione del partito massa a partire dallo statuto uscito dal congresso di Firenze che vedeva cadere la “pregiudiziale” marxista per aderire al PCI. Un modello organizzativo che, per gli italiani, rappresenta anche una garanzia di indipendenza (in potenza anche economica) da Mosca.

Posizioni, quelle italiane, che portarono poi alla reprimenda che Jugoslavi e Polacchi inflissero agli italiani prima di finire, i primi, a rappresentare la maggiore eresia del comunismo europeo. Un’eresia con la quale il PCI non chiuse mai i rapporti ma che anzi usò per affermare la propria autonomia da Mosca e per affermare una propria politica estera nei confronti dei movimenti di liberazione coloniale che si andavano sviluppando.

Certo nel rapporto travagliato tra Botteghe Oscure e Mosca mai si arrivò alla rottura, mai si sconfessò del tutto la patria del socialismo. Anzi si appoggiò convintamente l’invasione Ungherese del ’56, mentre la sconfessione di quella Ceca del 1968 non comportò mai un’abiura del socialismo reale. Anche Berlinguer che fu il più netto a prendere le distanze da Mosca, ipotizzava una terza via tra socialdemocrazia e soviet ma senza sconfessare il valore della rivoluzione. Questa aveva perso la spinta propulsiva ma non era da tutta da buttare e il gruppo dirigente italiano continuava a proporsi non in rottura con l’esperienza russa ma come portatore di un contributo, primariamente intellettuale, alla riforma del socialismo reale. A partire dall’inserimento di processi democratici e del riconoscimento del dissenso.

Un ruolo da guide intellettuali che l’ultima fase sovietica, quella di Gorbacev, riconoscerà al PCI ma che non avrà modo di svilupparsi (ammesso e non concesso che vi fossero spazi di riforma in un tale sistema) per il rapido crollo dello spazio delle democrazie popolari e dell’URSS stessa.

Tutto questo è raccontato nel libro di Pons con rigore e seppur privilegiando il punto di vista degli italiani, senza dimenticare i ritardi, le incoerenze e gli errori che tutti i gruppi dirigenti comunisti nazionali incontrarono. Il quadro che emerge è quello di un’assoluta continuità, almeno dal 1945 in poi, di una certa “furbizia” e di un’alta considerazione della propria elaborazione intellettuale da cui derivava un’alterità che, fino alla deriva morale dell’ultimo Berlinguer, era ancorata ad un disegno politico concreto che fu capace, sul piano interno, di orientare anche la politica estera italiana e di dialogare con i governi democristiani favorendo la politica del paese nel mediterraneo e nel medio oriente.

Infine il PCI fu, a partire da Berlinguer, capace di cambiare idea rispetto alla Comunità economica europea andando oltre la propaganda e la visione critica moscovita, immaginando Bruxelles come uno spazio tra i due blocchi e capace di dialogare con il cosiddetto terzo mondo in modo autonomo rispetto a Washington e Mosca. Un percorso che con l’eurocomunismo, il riconoscimento del valore dell’atlantismo e la fine della spinta propulsiva rende maggiormente coerenza al percorso del compromesso storico e della ricerca della partecipazione al governo del PCI, facendo apparire, aldilà dei giudizi su quell’esperienza, parte di un percorso politico coerente di ricerca di una via democratica al socialismo.

Una via che fu largamente incompleta, non capita dalle socialdemocrazie europee, non solo dal PSI italiano comprensibilmente preoccupato della competizione elettorale del PCI, ma nel caso dell’SPD o dei partiti scandinavi limitato dalla pregiudiziale anticomunista.

In definitiva il libro di Pons rende giustizia ad un percorso complesso e aiuta a comprendere le tante complessità e contraddizioni di un partito che fu di massa ma con a capo un élite intellettuale e consapevole.

Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel modo del novecento, Einaudi 2021.

Articolo uscito su Cultura Commestibile, n. 467 del 45 novembre 2021

La libertà di obbedire al capoufficio.

C’è correlazione tra le procedure insegnate nelle scuole di management e il nazismo? A dirla così si potrebbe pensare che l’ultimo libro di Johann Chapoutot viri verso un genere prolifico ma non proprio rigoroso: quello del nazismo esoterico e delle teorie complottiste che vogliono l’occidente del secondo dopoguerra pieno di nazisti alla dottor Stranamore.

Una sensazione, purtroppo, alimentata dalla scelta dell’editore italiano, Einaudi, di far diventare il titolo originale del libro il sottotitolo dell’edizione italiana e di puntare su un titolo ed una frase-domanda retorica in copertina, acchiappalettori.

Tuttavia, si sa, che ogni mito si appoggia alla realtà ed è in fondo di una specie di Dottor Stranamore che nel libro di parla. Reinhard Höhn fu giurista, professore universitario e generale delle SS durante il nazismo e poi direttore di un’accademia per manager nel dopoguerra. Una struttura in cui passarono i principali quadri della potenza economica tedesca e si formarono 600.000 manager.

Chapouchot, dopo averci raccontato come i professori di dirtto tedesco diedero fondamento alla barbarie nazista ne La legge del sangue (Einaudi, 2016), riparte da una di quelle figure, Höhn per l’appunto, e ce lo mostra trasformarsi, senza mai rinnegarsi, nel dopoguerra democratico in un giustificatore del nuovo modello liberale e capitalista.

Una continuità che viene indagata a fondo e forse un po’ troppo apoditticamente dall’autore, che liquida l’abbandono delle idee razziste, dell’antisemitismo e della conquista dello spazio vitale all’est, da parte di Höhn, con troppa leggerezza, considerandole quasi accessorie all’idea di organizzazione dello Stato e dell’economia. È evidente che linee di continuità esistono e l’autore le indaga a fondo, pur tuttavia, lo stesso Chapoutot è costretto ad ammettere che questa continuità è precedente al Reich nazista e affonda le radici da un lato nel darwinismo sociale del tardo ottocento e dall’altra dagli studi sull’organizzazione d’impresa dei primi del novecento.

Non è nemmeno riscontrabile una specificità nazista nell’accogliere queste teorie come dimostra lo stesso caso di Höhn che si trova a suo agio sia sotto il regime che sotto la repubblica federale.

Dunque la specificità del volume sta, a mio avviso, in altro; nell’indagine del nazismo come rottura del positivismo e nel capitolo in cui, in continuità con La legge del Sangue, dimostra come Hitler intenda superare lo Stato, entità che imbastardisce il sangue germanico, eredità di latini e giudei, per mettere al centro la razza da cui discende la comunità. Una rottura dello stereotipo dell’iperburocratizzazione del nazismo che, ci spiega invece l’autore, è figlia non dello statalismo ma dal moltiplicarsi di agenzie, potentati, feudi, ognuno intento a inseguire lo scopo della purezza della razza e della comunità germanica.

Non fa eccezione il governo dell’economia del Reich, che è per giunta fin da subito, economia di guerra prima votata al riarmo e poi a soddisfare il conflitto. Eppure l’autore ci mostra come questa economia (ed in fondo il regime tutto) pur basandosi sull’eliminazione anche fisica dell’altro, del non allineato, cercasse per la maggioranza dei suoi cittadini di costruire un consenso, financo un’adorazione per l’unico Reich, l’unico popolo, l’unico Führer.

Su questo l’organizzazione economica nazista differisce poco dalle altre organizzazioni capitaliste coeve. Il manager è dotato di autonomia e libertà non verso le scelte ma sul modo di realizzarle, libero di obbedire dunque. Responsabile dei propri insuccessi (veri e presunti) come nella Russia stalinista. Ma l’operaio come l’impiegato devono aver modo di riposarsi e tornare ad essere produttivi; dunque il regime ne organizza il tempo libero come nei dopolavoro fascisti e infine deve poter sognare che il bene che sta producendo potrà essere suo. Un modello che si identifica fin dal nome, per esempio, della Volkswagen la vetturetta per tutti proprio come la Ford Model T sarebbe stata l’auto costruita da quelli che la producevano.

Vi è dunque sì una continuità ma a dispetto di quello che l’autore sottintende è più propria del modello industriale, di cui il nazismo può essere considerata la più efferata delle varianti, che dell’ordine della razza e del sangue. Vista così stupisce meno la capacità di Höhn di ricostruirsi un destino nella Germania democratica di cui farà parte. Il management per obiettivi non fu infatti prerogativa del solo miracolo economico tedesco e non fu la “scoperta” del passato nazista di Höhn a farlo tramontare, casomai (come giustamente nota anche l’autore) fu la sua versione più ridotta, flessibile e meno invasiva teorizzata negli Stati Uniti, a decretarne la fine.

In questo sì il peso della sovrastruttura degli ex nazisti può aver giocato un ruolo di appesantimento e di minor capacità di adattamento alle mutate forme di produrre che, a partire dagli anni ’70, cambiarono l’organizzazione del lavoro almeno nel mondo occidentale.

Vi è poi infine un salto logico difficilmente giustificabile in Chapoutot quando nell’ultimo capitolo, liquidato Höhn e decretato storicamente il fallimento del suo modello, l’autore tende a fare un parallelo tra l’attuale alienazione del lavoro e le teorie del moderno capitalismo.

Alienazioni che sono del tutto evidenti e forse persino più marcate, probabilmente perché difettano di un contromodello culturale e sociale, che negli anni del miracolo economico ma che stentiamo a vedere come discendenti da una elaborazione giuridica che giustificava un regime assassino e genocida.

Come direbbe un caro amico: il problema è il capitalismo casomai, non Höhn.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 396 del 10 aprile 2021.