Le vie dell’acqua di Vendola e Renzi

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 30 giugno 2010.

In Puglia la remunerazione del capitale investito del 7% è un costo: quello che pagheremo ogni anno fino al 2018 sul bond in sterline pari al 6,92%”. A parlare è Fabiano Amati, assessore alle Opere Pubbliche della Regione Puglia commentando le decisioni dell’assemblea dell’Acquedotto Pugliese.  Scopriamo così che l’Acquedotto Pugliese, totalmente pubblico, paga di interessi sul prestito (invero preso dalla giunta Fitto di centrodestra) praticamente la stessa cifra (il 6,92%) della remunerazione garantita ai soggetti industriali privati (il 7%) che investivano, prima del referendum, in altre società di gestione delle acque.  Morale della favola? Nonostante la massiccia vittoria del sì al quesito sull’eliminazione della remunerazione del capitale non si prevede, né in Puglia né altrove, alcuna diminuzione delle tariffe. Anche perché, l’alternativa per restituire i soldi o alle banche che li hanno prestati o alle società che li hanno investiti è o l’aumento impositivo o l’aumento del debito pubblico. Dunque nemmeno Vendola, che tanto si è speso nella narrazione del ritorno all’acqua pubblica, si sogna di abbassare le tariffe. Tariffe che ha invece, negli ultimi anni, innalzato del 18% ed ha anzi appena approvato un piano di investimenti da 674 milioni di Euro che porterà l’indebitamento complessivo dell’acquedotto pugliese da 219 a 402 milioni di Euro, sui quali naturalmente,  pagherà gli interessi. Almeno dal punto di vista economico la gestione pubblica rispetto a quella privata non pare portare significativi miglioramenti per il cittadino/utente visto anche che l’utile di esercizio dell’Acquedotto Pugliese, di quest’anno, 37 milioni, andrà nelle casse degli azionisti (pubblici).

Singolare poi la giustificazione di Vendola a chi chiedeva perché non avesse detto queste cose durante la campagna referendaria: “nessuno me lo ha chiesto”. Un narratore a richiesta dunque, un po’ come i cantastorie siciliani che a seconda della piazza in cui si esibivano davano più enfasi nei loro “cunti” alla battaglia tra paladini o alla storia  d’amore tra questi e le belle principesse.

Una soluzione alternativa per la ripubblicizzazione dell’acqua arriva invece dal sindaco di Firenze Matteo Renzi. Una holding dei servizi che si quoti in borsa e con il capitale raccolto ricompri le quote di Acea in Publiacqua.  Il progetto, bisogna ammetterlo, può avere un senso:  un’unica avvertenza non è una cosa immediata.  Il sindaco ha parlato di sei mesi per la creazione della holding finanziaria, un tempo non impossibile per la nascita della holding stessa, che però è ben lungi dalla sua possibile quotazione in borsa visto che i requisiti della CONSOB richiedono almeno 3 anni di bilanci oltre al fatto che l’attivo e i ricavi non devono essere per la maggior parte rappresentati da partecipazioni in altre società.

Nel frattempo, si spera, il Parlamento avrà legiferato per superare il vuoto normativo derivante dal referendum e evitare così che le nostre amministrazioni continuino ad affogare in un (carissimo) bicchier d’acqua.

La narrazione politica e l’italiano

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 giugno 2011.

Le parole, ripeteva ossessivo Nanni Moretti in Palombella Rossa, sono importanti. Lo sarebbero ancora di più se il tema politico viene spostato dall’azione alla narrazione, come accade in questi tempi.

Uno spostamento che se da un lato riesce a mobilitare la fantasia e la passione della gente spesso consente anche di creare una cortina fumogena sull’operato di governo dei nostri amministratori che dovremmo aver eletto per fare le cose e non per appassionarci la sera davanti a un fuoco.

Ma se i tempi richiedono narrazioni, soffermiamoci su queste e cerchiamo di fissare alcune basilari regole a questa modalità dell’agire politico. Intanto sia richiesto ai narratori di esprimersi in italiano corretto., di non indulgere nel dialetto, nelle parole straniere (e nel caso le si voglia usare almeno le si pronuncino correttamente) o nei paroloni soprattutto se messi a caso. Infine di non stravolgere il senso delle parole che si usano.

Capiamo che così facendo molta parte degli attuali narratori politici sarebbe di fatto esclusa dal certamen linguistico elettorale a meno di non ricominciare la propria carriera scolastica spesso dalle elementari.

Anche il campione della narrazione Nichi Vendola non sopravviverebbe a tale paletti. Come dimenticare il suo discorso al congresso di Firenze infarcito di termini come “ultroneo”, “superfetazione”, messi qui e là nel discorso forse come omaggio, visto il luogo, al conte Mascetti di monicelliana memoria.

Oppure il comiziaccio alla Eltsin di lunedì pomerigigo in piazza del Duomo in cui narrava di una Milano espugnata, facendo probabilmente rivoltare nelle tombe quelli che per liberarla davvero ci han rimesso le penne. Oppure le dichiarazioni sempre del dopo vittoria di Pisapia in cui ha parlato di un atto di disobbedienza civile nel voto dei milanesi e dei napoletani. Peccato però che di scioperi della fame ne sia in corso solo uno, quello di Marco Pannella (verboso narratore ma di altra razza e qualità) e di molti detenuti nelle carceri, non si siano viste autodenunce per non pagare l’ecopass, marce nonviolente, sit-in a bloccare i tram e tutte quelle modalità che definiscono la disubbidenza civile e che sono costate, negli anni e nel mondo, anche la vita a molti manifestanti.

Il bravo Pisapia se ne è infatti subito smarcato ribadendo un’ulteriore e fondamentale legge del narratore politico: prima di parlare, ascoltare.

Alla fine della rieducazione linguistica non so se avremo politici migliori ma almeno avremo narratori più interessanti ed educati.