Il migliore investimento.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 aprile 2012.

Senza smettere per un secondo di essere garantisti (per di più conoscendo le precedenti inchieste di alcuni dei PM di questa vicenda) la storia dell’inchiesta relativa al tesoriere della Lega Nord, come quella precedente sul tesoriere della Margherita, riportano prepotentemente in auge il tema del finanziamento pubblico ai partiti politici.

Cancellato con un referendum radicale del 1993 è tuttavia risorto immediatamente sotto il falso appellativo di rimborso elettorale. Perché falso? Perché l’importo rimborsato è del tutto incongruente con le cifre realmente spese (o meglio dichiarate in sede di rendiconto) dalle formazioni politiche durante le campagne elettorali. Naturalmente in eccesso. Calcolano i radicali che, dal 1994, a fronte di circa 2 miliardi di Euro versati ai partiti siano stati rendicontati come spese elettorali poco meno di 700 milioni. Difficile pensare che con una redditività tale e una legislazione in materia, diciamo lasca, possano non essere avvenute qualunque tipo di operazioni, senza nemmeno dover ipotizzare illeciti penali o amministrativi. Da operazioni immobiliari al famoso fondo d’Investimento tanzanese in cui investiva proprio la Lega Nord.

Un sistema che, anche quando (unico e lodevole caso) come il PD si facciano certificare i bilanci da revisori esterni, lascia perplessi per le modalità del rimborso forfettario e soprattutto per l’entità di tali rimborsi. Personalmente non sono contrario di principio ad un finanziamento pubblico dei partiti a patto che sia commisurato alla reale rispondenza della forza elettorale dello stesso, sia modesto e inserito in un sistema di trasparenza totale di bilancio e di rispondenza di criteri di democrazia interna che consentano agli iscritti un reale controllo della struttura (amministrativa e politica) del partito. Insomma se ti vuoi fare il partito personale, in cui la segreteria è un affare fra te, i tuoi familiari e i tuoi famigli, i soldi li spendi per fatti tuoi; fai pure ma nemmeno un Euro dallo Stato.

Naturalmente, anche in questo caso, non mancano i procastinatori e gli agitatori. I primi, come Casini, alle prime avvisaglie del caso Lusi avevano promesso un intervento parlamentare in materia che, naturalmente, ancora non c’è stato; i secondi, alla Di Pietro, hanno promesso un referendum ed una raccolta immediata di firme che, come prevede la legge, significherebbe raccogliere (di qui ad ottobre) firme buone per il macero.

Ad ottobre quando le firme saranno invece buone, i soliti radicali promettono una mobilitazione referendaria proprio sul tema che però, siccome costa denari e fatica, permette sin da oggi da chi volesse impegnarsi in questa battaglia, di lasciare la propria disponibilità sul sito www.radicali.it

Il tatticismo di D’Alema e la debolezza del referendum.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 settembre 2011.

A differenza di molti amministratori e dirigenti locali del PD, Bersani e il suo gruppo dirigente sono apparsi e appaiono tiepidi rispetto alla raccolta firme per il referendum contro il porcellum.  Considerazioni di ordine pratico e di convenienza politica innanzitutto ma anche una certa difficoltà nel governare l’ennesimo esito imprevedibile. La cosa si potrebbe risolvere come spiega il solito D’Alema con la l’ennesima visione tattica del “grimaldello” per smuovere la maggioranza ad approvare una nuova legge elettorale, dimenticandosi che ogni volta che si è mosso così (cioè praticamente sempre) l’esito è stato molto diverso dalle aspettative e quasi mai favorevole alla sua parte: bicamerale e caduta del primo governo Prodi per tutte.

Se invece, come pare fare il più prudente Bersani, ci si ferma un attimo a ragionare sulla lettera del referendum si capisce che, come già era avvenuto per il quesito sull’acqua, si parla di pere e si scrive di mele. Il refendum infatti prevedrebbe l’abrogazione dell’intera legge elettorale e, secondo gli auspici dei promotori, questo riporterebbe in vita la precedente legge elettorale il cosiddetto Mattatellum. Un’interpretazione che, mi sia concesso, appare piuttosto sperticata e che rischia di far sì che la consulta non accetti nemmeno il quesito referendario, rendendo vani gli sforzi dei promotori e paradossalmente rafforzando il porcellum.

L’argomento portato dai promotori che la consulta terrà conto della percezione negativa che i cittadini hanno dell’attuale legge elettorale, ci pare ottima al bancone del bar ma un pochino più debole in un dibattimento di fronte alla Corte Costituzionale.

Certo nella cautela del PD gioca anche un non digerito amore per il proporzionale e una storia seppur recente che ha visto quel partito deliberare all’unanimità per il doppio turno alla francese, tentare l’accordo con Casini sul modello tedesco, far dichiarare al segretario la preferenza per quello ungherese e avere propri dirigenti nei comitati referendari sia per il ritorno al mattatellum che in quello per il ritorno al proporzionale. Tuttavia, per una volta, la prudenza del pd potrebbe tornargli utile non costringendolo in un angolo quando (e se) la corte dovesse non accogliere il quesito.

 

Le vie dell’acqua di Vendola e Renzi

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 30 giugno 2010.

In Puglia la remunerazione del capitale investito del 7% è un costo: quello che pagheremo ogni anno fino al 2018 sul bond in sterline pari al 6,92%”. A parlare è Fabiano Amati, assessore alle Opere Pubbliche della Regione Puglia commentando le decisioni dell’assemblea dell’Acquedotto Pugliese.  Scopriamo così che l’Acquedotto Pugliese, totalmente pubblico, paga di interessi sul prestito (invero preso dalla giunta Fitto di centrodestra) praticamente la stessa cifra (il 6,92%) della remunerazione garantita ai soggetti industriali privati (il 7%) che investivano, prima del referendum, in altre società di gestione delle acque.  Morale della favola? Nonostante la massiccia vittoria del sì al quesito sull’eliminazione della remunerazione del capitale non si prevede, né in Puglia né altrove, alcuna diminuzione delle tariffe. Anche perché, l’alternativa per restituire i soldi o alle banche che li hanno prestati o alle società che li hanno investiti è o l’aumento impositivo o l’aumento del debito pubblico. Dunque nemmeno Vendola, che tanto si è speso nella narrazione del ritorno all’acqua pubblica, si sogna di abbassare le tariffe. Tariffe che ha invece, negli ultimi anni, innalzato del 18% ed ha anzi appena approvato un piano di investimenti da 674 milioni di Euro che porterà l’indebitamento complessivo dell’acquedotto pugliese da 219 a 402 milioni di Euro, sui quali naturalmente,  pagherà gli interessi. Almeno dal punto di vista economico la gestione pubblica rispetto a quella privata non pare portare significativi miglioramenti per il cittadino/utente visto anche che l’utile di esercizio dell’Acquedotto Pugliese, di quest’anno, 37 milioni, andrà nelle casse degli azionisti (pubblici).

Singolare poi la giustificazione di Vendola a chi chiedeva perché non avesse detto queste cose durante la campagna referendaria: “nessuno me lo ha chiesto”. Un narratore a richiesta dunque, un po’ come i cantastorie siciliani che a seconda della piazza in cui si esibivano davano più enfasi nei loro “cunti” alla battaglia tra paladini o alla storia  d’amore tra questi e le belle principesse.

Una soluzione alternativa per la ripubblicizzazione dell’acqua arriva invece dal sindaco di Firenze Matteo Renzi. Una holding dei servizi che si quoti in borsa e con il capitale raccolto ricompri le quote di Acea in Publiacqua.  Il progetto, bisogna ammetterlo, può avere un senso:  un’unica avvertenza non è una cosa immediata.  Il sindaco ha parlato di sei mesi per la creazione della holding finanziaria, un tempo non impossibile per la nascita della holding stessa, che però è ben lungi dalla sua possibile quotazione in borsa visto che i requisiti della CONSOB richiedono almeno 3 anni di bilanci oltre al fatto che l’attivo e i ricavi non devono essere per la maggior parte rappresentati da partecipazioni in altre società.

Nel frattempo, si spera, il Parlamento avrà legiferato per superare il vuoto normativo derivante dal referendum e evitare così che le nostre amministrazioni continuino ad affogare in un (carissimo) bicchier d’acqua.

Perchè sì perchè NO

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 giugno 2011

In un Paese normale domenica e lunedì saremmo chiamati a votare per abrogare o meno quattro norme specifiche e dunque impedire, nel caso, la messa in moto di un processo che porti al nucleare civile, una norma di salvaguardia giudiziale per alcune cariche politiche, la non rimuneratività degli investimenti nel campo della gestione idrica e il ritorno alle aziende municipalizzate di servizi.

In Italia invece siamo convinti di andare a votare contro Berlusconi e per salvaguardare l’acqua pubblica. Il primo tema è l’ennesimo omaggio al totalitario motto “il fine giustifica i mezzi” per cui nulla ha senso in quanto tale ma per l’effetto che può produrre; mentre la seconda è una mistificazione frutto di una campagna di comunicazione, di certo efficace, da parte dei promotori del referendum.

Sul primo tema si spiegano le posizioni dell’IdV e del PD, pronti a cavalcare l’esito referendario in un possibile uno-due con le amministrative per mettere in crisi, definitiva, l’esecutivo. Solo questo può spiegare il ripensamento (visto che non è dato conoscere un eventuale esito condiviso di un dibattito interno ai due partiti sui temi del servizi pubblici) rispetto alle politiche attuate quando erano forza nazionale sullo stesso tema o su quelle locali anche qui in Toscana.

Quattro sì, poi, è molto più semplice da far capire che dover differenziare il messaggio, col rischio che uno non capisca, preferisca andare al mare e non contribuisca alla spallata. Eppure ci si dovrebbe aspettare di più da amministratori che sinora hanno detto e fatto tutt’altro soprattutto in tema di servizi pubblici locali.

Infatti il quesito sulla cosiddetta acqua pubblica non riguarda la sola gestione del servizio idrico ma tutti i servizi pubblici che tornerebbero secondo lo spirito con cui è proposto il quesito, in caso di vittoria del sì, completamente pubblici non nella proprietà (salvaguardata già oggi) ma nella gestione. Un cambio di rotta che, pur non volendolo giudicare, forse andrebbe giustificato da parte di chi ha votato norme opposte a quanto si prefigge di votare domenica prossima.

Cambiare idea non solo è legittimo ma spesso salutare, farci conoscere il perché sarebbe però altrettanto importante, spiegarci come si intende procedere per quanto riguarda le proprie competenze in tal senso sarebbe altrettanto doveroso, farci capire poi come si concilia “meno costi della politica” e ritorno al pubblico anche. Si badi bene non è automatico che il ritorno al pubblico debba per forza significare un aumento dei costi della politica o della lottizzazione dei consigli di amministrazione, tuttavia siccome spesso questo è accaduto sarebbe necessario, nel momento in cui si cambia rotta spiegare quali elementi si metteranno in campo per garantire l’efficienza e l’efficacia del servizio pubblico.

Il ritorno al pubblico comporterà, qui da noi,  il ritorno anche al localismo, all’impresa di ambito comunale? Oppure la strategia del dimensionamento di imprese di servizi pubblici per far fronte ad investimenti consistenti proseguirà in forma diversa? Lo chiedo perché sinora nel (poco) dibattito pubblico sul tema gli stessi che ci invitano a votare sì ci assicuravano che l’investimento privato era l’unico sistema possibile per risolvere questo problema.

Una proposta la avanza il governatore Enrico Rossi, battagliero in posa pannelliana con un cartello indicante i suoi 4 sì sul proprio profilo facebook: quella dell’azionariato popolare. Come questo si concili coi suoi sì ai quesiti non lo spiega però. L’azionariato popolare è un intervento privato, che dunque va bene se a farlo sono in molti ma va male se a farlo sono in pochi. Altro punto previsto da Rossi è la rimunerazione dell’investimento “diffuso” a tassi di poco superiori a quelli bancari. Ammesso che si trovino soggetti disposti ad investire con guadagni di poco superiori allo 0 la proposta di Rossi prevede, ci par di capire, una redditività certa dell’investimento, da attuare presumiamo attraverso la tariffazione e dunque l’opposto di quanto afferma votando sì al secondo quesito referendario.

E’ probabile che lo spirito con cui molti pensano alla fase successiva di una eventuale vittoria dei sì sarà quello di un ridisegno dei servizi pubblici che non precluderà affatto i privati nella gestione ma li limiterà fortemente e renderà i loro investimenti più difficili e meno remunerativi. Di fatto quindi tutt’altro del messaggio “l’acqua bene pubblico” veicolato in questi giorni e sul quale viene chiesto il voto. Non sarebbe la prima volta che un esito referendario verrebbe tradito, è già successo sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla responsabilità civile dei magistrati. Dubito però che sarebbe la strada giusta per riavvicinare i cittadini con la politica (come dicono di voler fare tutti) e per ridare fiducia all’istituto referendario che infatti da venti anni non raggiunge mai il quorum.

Infine siamo sicuri che il vuoto normativo che succederebbe inevitabilmente al referendum sarebbe colmato nella direzione in cui sperano? Dubito che l’attuale maggioranza di governo sia capace di legiferare in alcun senso; ma un’eventuale maggioranza di centrosinistra riuscirebbe a mettere mano al tema superando le posizioni della sinistra di Vendola che già nei precedenti governi hanno impedito riforme in questo settore?