Il pane della domenica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 1 marzo 2012.

Da buon liberale quando ho sentito Monti affermare che, col suo governo, i fornai avrebbero potuto fare il pane di domenica sono sobbalzato. Ma perché, mi son chiesto, lo Stato si impiccia se il mio fornaio ha voglia di svegliarsi alle 4 anche di sabato per farmi avere la pagnotta calda anche per il desco domenicale (facendomela pagare tra l’altro non poco)?  Poi però, un altro pensiero mi è sovvenuto: ma io sono anni che compro il pane fresco la domenica!

Così mi sono messo a capire se il mio fornaio di fiducia stesse attuando una forma di disobbedienza civile liberale o se agisse nel rispetto della normativa e ho scoperto che era buona la seconda. Infatti la Regione Toscana nel maggio dello scorso anno, con apposita legge (la 18 del 2011) ha disciplinato il settore della pianificazione e ha concesso, all’art. 4, ai comuni la potestà di far aprire o meno i fornai di domenica.

Certo la formula dell’articolo è un po’ complessa e consente ai comuni l’apertura “per rilevanti esigenze di servizi alla collettività” che, evidentemente, i comuni non interpretano come carestie o sommosse, ma con la semplice volontà dell’esercente di offrire un servizio anche alla domenica, interpretazione che finora non ha fatto sobbalzare sulla sedia la Regione.

La data del provvedimento non è banale. Erano vive, nel maggio scorso, le polemiche tra Rossi e Renzi sulle aperture festive e domenicali e le prese di posizioni di sindacati e cooperazione sul tema. Polemiche riprese e rinfocolate dal presidente della Regione e dagli stessi sindacati, compreso ricorso alla Corte Costituzionale, proprio sul tema delle aperture degli esercizi commerciali varate dal governo Monti. Aperture che contrastano coi diritti dei lavoratori se vendono alimentari o vestiti, mentre servono la causa del popolo se producono il pane per le masse?

La domanda allora sorge spontanea ci sono orwellianamente esercizi commerciali un po’ più esercizi di altri?

Il riscatto del lavoro

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 maggio 2011.

Siamo davvero certi che il tema del lavoro, della sua rappresentanza e del suo rapporto con la sinistra sia tutto riassumibile nelle polemiche di questi giorni? O che la maggiore manifestazione simbolica di attenzione da parte dei sindacati confederali nei confronti dei giovani possa essere il “concertone” del primo maggio?

E il grande dibattito sull’organizzazione del lavoro scaturito dagli accordi di Melfi e Mirafiori dov’è finito? Ci è bastata l’ipocrita dichiarazione finale in cui si diceva che la FIAT fa storia a sé, buona per giustificare sia chi ha firmato gli accordi, sia chi non li ha firmati e pure Confindustria abbandonata da FIAT. Eppure una generazione intera che passa dall’incertezza di un lavoro all’altro, che non ha idea di come pianificare il proprio futuro si aspetterebbe altro.

Altro anche da una discussione ideologica sulle aperture nei dì di festa, volutamente provocatoria in chi la propone (altrimenti si sarebbero scelte sia festività religiose che civili) e nelle argomentazioni di chi la difende in una città sì e in 10 no.

Servirebbe, chiederemmo noi trentenni, qualcosa di più anche del successivo strascico su chi guadagna di più tra politici e sindacalisti, interessandoci molto di più quanto poco guadagniamo noi lavoratori rispetto ai nostri coetanei europei.

Ci piacerebbe che a questo si sostituisse un dibattito sugli ammortizzatori sociali, sull’indennità di disoccupazione e sui contributi silenti che lo Stato si intasca anche se non riusciremo a maturare una pensione. Ma anche sul sostituto d’imposta che obbliga gli imprenditori a fare un lavoro che non è loro, aumentando i costi e diminuendo la competitività, della tassazione che fa si che le imprese spesso lavorino fino ad agosto per lo Stato e da settembre per sé, oppure sulle trattenute sindacali, chiedendo che non sia una volta per tutte, ma come ogni adesione a qualsiasi altra associazione sia su base annuale e volontaria. Magari servirebbe a inserire anche un po’ di competitività e di attenzione verso i propri iscritti.

E ci piacerebbe non sentire più da importanti imprenditori, che dovrebbero assumere incarichi associativi a Firenze tra breve, che il motivo del nanismo delle nostre imprese è dovuto all’articolo 18, quando invece ha molto più a che fare col modello dinastico/familiare della nostra imprenditoria e con un sistema che, in alto, ha favorito i soliti pochi uccidendo (con mezzi più o meno leciti) chiunque provasse a farsi grande.

E infine ci piacerebbe che si ragionasse in termini di occupazione e costruzione di profitto quando un gruppo internazionale acquista una nostra impresa, invece di dare l’impressione di discutere di italianità più in termine di poltrone e di interessi per i grandi manager e di chiedere di difendere la proprietà italiana sempre con soldi pubblici quasi mai con investimenti privati. Magari scopriremmo che il gruppo francese che acquisterà Parmalat consuma più latte italiano di quanto ne consumi oggi Parmalat stessa.

Insomma ci piacerebbe che, nei negozi aperti per il primo maggio, si fosse potuto parlare di lavoro e prospettive piuttosto che dell’ennesimo muro contro muro.