Le regole del biliardo applicate al PD

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Articolo uscito su Corriere Nazionale – Qui Firenze del 16 maggio 2013.

A leggere le interviste alla fu maggioranza bersaniana del PD viene da pensare che il segretario e candidato premier fosse stato scelto, candidato e sostenuto da un’assemblea di autoconovocati o da una loggia segreta più simile ai Monty Python che alla P2. Il primo fu D’Alema che definì a pochi giorni dal voto Bersani “uomo dell’800”. Tuttavia, come spesso gli capita, alla dura critica non seguì il completo abbandono; diversa fu la scelta della Bindi che si dimise dalla presidenza del partito perché non voleva più giustificare decisioni alle quali diceva di non prendere parte. Buon ultimo Veltroni di cui ieri abbiamo letto le anteprime del nuovo libro in cui dice che il PD avrebbe dovuto proporre un governo del presidente a guida Bonino. Tocca dar ragione al Fatto che ieri si chiedeva “ma non poteva dirlo prima?”. Domanda che vale anche per l’ex sindaco e attuale europarlamentare Domenici che in una intervista ad Allegranti nel fine settimana ammette di non aver votato Bersani, anche se non ci rivela se la sua preferenza sia andata a Tabacci, Puppato o Vendola. Una rivelazione a mesi di distanza che fa venire il legittimo sospetto che non ci sarebbe mai stata se al governo oggi ci fosse Bersani e non Letta. A tutti questi dirigenti in cerca di una nuova legittimazione e purificazione dei propri errori (anche se dubito che questa volta persino i militanti più fedeli gli crederanno) consiglio in vista del dibattito politico e congressuale del PD di rileggere le regole del biliardo, dove i punti valgono doppi se si dichiarano ma solo prima di tirare.

Tra Papi Silvio e Mamma DC

 

 

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 13 ottobre 2011

Tempi duri quelli del segretario PdL Angelino Alfano, l’uomo che più di altri dovrebbe mettere in crisi i sociologi dell’antiberlusconismo: bruttino (sia detto con rispetto), pochi capelli, accetto marcato e tempi del parlare non certo televisivi. Insomma tutto il contrario di quello che ti aspetteresti come delfino del berlusconismo; il che dimostra, ancora una volta, che Berlusconi è molto di più di quello che ci aspettiamo da lui o della caricatura che i suoi nemici di professione ne hanno fatto in questi anni, quasi a sorta di polizza della di lui vita politica.

Ma Alfano se è figlio (politicamente s’intende) di Berlusconi ha però come mamma la buona e vecchia DC dalla cui storia e affiliazione egli proviene. E per giunta dalla DC siciliana di cui era segretario giovanile ad Agrigento. Dunque ci immaginiamo la difficoltà del delfino a barcamenarsi tra la fedeltà a Silvio, che oltre ogni pronostico lo ha nominato erede, e quel movimento di ex che tra Pdl, Pd e terzo polo punta a rimischiare il campo e definire un nuovo soggetto per il dopo Berlusconi.

Un nuovo soggetto a forte vocazione centrista a cui paiono lavorare tanti ex della prima repubblica: dai democristiani Scajola e Formigoni, ai socialisti Sacconi e Brunetta per il Pdl, il sempreverde Casini per il terzo polo e il democristiano di sinistra Fioroni sul lato PD. Spettatori interessati della partita Tremonti e Veltroni (il quale ha capito probabilmente che l’attuale assetto e la sopravvivenza del PD non prevedrebbe un suo ruolo da protagonista all’interno dello stesso) e grande vecchio dell’operazione Beppe Pisanu.

Fantapolitica probabilmente ma forse un’ipotesi di lavoro sulla quale si giocano le molte ambizioni dei tanti che si sentono pronti a raccogliere la sfida del dopo-Berlusconi.

Il modello Bersani-Fassino

Da Il Nuovo Corriere di Firenze del 26 maggio 2011.

Il Bersani di Maurizio Crozza esordirebbe con “Ragassi non siam mica qui a dare il verde alle persiane”, sintetizzando in una battuta l’attitudine, tutta emiliana, del segretario PD di semplificare con un modo di dire le complessità della politica italiana. Una modalità di rappresentarlo che piace allo stesso Bersani che infatti usa maniere “crozzesche” sulla sua pagine facebook  o nelle sue partecipazioni televisive, soprattutto dopo il successo alle ultime elezioni amministrative.

Segno di un buonumore che il segretario si è conquistato. Perché dietro il successo del PD molto merito è anche del passo tranquillo, dell’attenzione rivolta al lavoro quotidiano, all’organizzazione che il segretario ha imposto con la sua direzione. Un modello di successo che già aveva, ai tempi dei DS, portato fortuna a quel partito (che era anche quello di Bersani) e al suo segretario di allora, Piero Fassino.

Fu Fassino infatti che raccolse i cocci della segreteria Veltroni, scappato prima della sconfitta nazionale a fare il sindaco di Roma perché diceva (come lo prendeva in giro Guzzanti) “non lo voleva fare nessuno”, e con basso profilo, testardamente e tenacemente rimise in carreggiata i DS e li riportò a vincere tutte le elezioni amministrative e regionali sino al “pareggio/vittoria” del 2006.

Anche a Bersani è toccato un partito da ricostruire dopo la cura (più intensa questa volta) di Walter Veltroni e anche lui si è approcciato col medesimo basso profilo e lo sguardo rivolto primariamente all’organizzazione. Le analogie però finiscono qui. Fassino aveva come obiettivo quello di far rinascere i DS però all’interno di un percorso segnato, definito e rassicurante. Il partito democratico era un progetto all’orizzonte e il capace neo sindaco di Torino era ben cosciente che quando questo progetto sarebbe passato in una fase creativa sarebbe toccato ad altri il compito di realizzarlo. Un raro esempio di senso dei propri limiti che premia ancor di più l’uomo prima che il politico.

Il compito di Bersani era (e resta) ben più arduo e la ricostruzione organizzativa ed elettorale del PD è quasi più un prerequisito che un fine. Per questo il risultato delle amministrative e dei prossimi ballottaggi non è che una tappa in un percorso più lungo e arduo che deve ancora definire programma, alleanze e leadership. Insomma verrebbe da dire che Bersani ha funzionato sinora  malgrado Bersani, ha vinto nel modo concreto, quotidiano, di intendere il partito e la politica,  nell’affrontare la sfida elettorale scegliendo temi e toni del confronto , mentre la sua “strategia” , a partire dalla larga alleanza col terzo polo, veniva smentita dal voto