Bisogna saper perdere

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 8 marzo 2012.

Tra le tante canzoni di Lucio Dalla ricordate dopo la sua scomparsa, una, è stata considerata molto poco: Bisogna saper perdere, cantata al festival di Sanremo del 1967 con i Rokes. Canzone che, evidentemente, non sta nelle playlist degli esponenti siciliani di SEL e IDV.

Infatti dopo l’esito delle primarie di Palermo prima Claudio Fava, poi Leoluca Orlando e infine la stessa Rita Borsellino tutto hanno fatto tranne che dimostrare di saper accettare un esito di una competizione elettorale che, fin dalla sua genesi, presentava tutti quegli elementi che portano oggi a dire che non è possibile dichiarare Ferrandelli vincitore.

Perché che le primarie siano molto più facili da “manipolare” o che non presentino elementi di garanzia pari a quelli delle elezioni regolari non è una cosa che si impari nella notte tra domenica e lunedì. E che Palermo sia città dalle evidenti opacità non è affare che si scopre solo ora, anzi il buon Orlando su questo ci ha costruito tre quarti della sua carriera politica.

Dunque appaiono pretestuosi, ineleganti e politicamente devastanti gli appelli e i ricorsi contro il voto di domenica( a cui naturalmente non si fanno mancare una bella inchiesta della procura palermitana di cui difficilmente si riesce a capire le ipotesi di reato);  e qualcosa di simile ad un suicidio politico l’ipotesi di Orlando di candidarsi comunque contro il vincitore delle primarie di domenica scorsa.

Un regalo incredibile per il centrodestra che rischia di portare a casa la città dopo gli anni di malgoverno dell’attuale amministrazione e che pagherà anche l’incolpevole (solo in questa fase della vicenda) PD.

Certo anche il vincitore delle primarie ci mette del suo a farsi non amare se nelle prime interviste post primarie si dice contento per poter “agguantare” la poltrona di Cammarata.

Perchè sì perchè NO

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 giugno 2011

In un Paese normale domenica e lunedì saremmo chiamati a votare per abrogare o meno quattro norme specifiche e dunque impedire, nel caso, la messa in moto di un processo che porti al nucleare civile, una norma di salvaguardia giudiziale per alcune cariche politiche, la non rimuneratività degli investimenti nel campo della gestione idrica e il ritorno alle aziende municipalizzate di servizi.

In Italia invece siamo convinti di andare a votare contro Berlusconi e per salvaguardare l’acqua pubblica. Il primo tema è l’ennesimo omaggio al totalitario motto “il fine giustifica i mezzi” per cui nulla ha senso in quanto tale ma per l’effetto che può produrre; mentre la seconda è una mistificazione frutto di una campagna di comunicazione, di certo efficace, da parte dei promotori del referendum.

Sul primo tema si spiegano le posizioni dell’IdV e del PD, pronti a cavalcare l’esito referendario in un possibile uno-due con le amministrative per mettere in crisi, definitiva, l’esecutivo. Solo questo può spiegare il ripensamento (visto che non è dato conoscere un eventuale esito condiviso di un dibattito interno ai due partiti sui temi del servizi pubblici) rispetto alle politiche attuate quando erano forza nazionale sullo stesso tema o su quelle locali anche qui in Toscana.

Quattro sì, poi, è molto più semplice da far capire che dover differenziare il messaggio, col rischio che uno non capisca, preferisca andare al mare e non contribuisca alla spallata. Eppure ci si dovrebbe aspettare di più da amministratori che sinora hanno detto e fatto tutt’altro soprattutto in tema di servizi pubblici locali.

Infatti il quesito sulla cosiddetta acqua pubblica non riguarda la sola gestione del servizio idrico ma tutti i servizi pubblici che tornerebbero secondo lo spirito con cui è proposto il quesito, in caso di vittoria del sì, completamente pubblici non nella proprietà (salvaguardata già oggi) ma nella gestione. Un cambio di rotta che, pur non volendolo giudicare, forse andrebbe giustificato da parte di chi ha votato norme opposte a quanto si prefigge di votare domenica prossima.

Cambiare idea non solo è legittimo ma spesso salutare, farci conoscere il perché sarebbe però altrettanto importante, spiegarci come si intende procedere per quanto riguarda le proprie competenze in tal senso sarebbe altrettanto doveroso, farci capire poi come si concilia “meno costi della politica” e ritorno al pubblico anche. Si badi bene non è automatico che il ritorno al pubblico debba per forza significare un aumento dei costi della politica o della lottizzazione dei consigli di amministrazione, tuttavia siccome spesso questo è accaduto sarebbe necessario, nel momento in cui si cambia rotta spiegare quali elementi si metteranno in campo per garantire l’efficienza e l’efficacia del servizio pubblico.

Il ritorno al pubblico comporterà, qui da noi,  il ritorno anche al localismo, all’impresa di ambito comunale? Oppure la strategia del dimensionamento di imprese di servizi pubblici per far fronte ad investimenti consistenti proseguirà in forma diversa? Lo chiedo perché sinora nel (poco) dibattito pubblico sul tema gli stessi che ci invitano a votare sì ci assicuravano che l’investimento privato era l’unico sistema possibile per risolvere questo problema.

Una proposta la avanza il governatore Enrico Rossi, battagliero in posa pannelliana con un cartello indicante i suoi 4 sì sul proprio profilo facebook: quella dell’azionariato popolare. Come questo si concili coi suoi sì ai quesiti non lo spiega però. L’azionariato popolare è un intervento privato, che dunque va bene se a farlo sono in molti ma va male se a farlo sono in pochi. Altro punto previsto da Rossi è la rimunerazione dell’investimento “diffuso” a tassi di poco superiori a quelli bancari. Ammesso che si trovino soggetti disposti ad investire con guadagni di poco superiori allo 0 la proposta di Rossi prevede, ci par di capire, una redditività certa dell’investimento, da attuare presumiamo attraverso la tariffazione e dunque l’opposto di quanto afferma votando sì al secondo quesito referendario.

E’ probabile che lo spirito con cui molti pensano alla fase successiva di una eventuale vittoria dei sì sarà quello di un ridisegno dei servizi pubblici che non precluderà affatto i privati nella gestione ma li limiterà fortemente e renderà i loro investimenti più difficili e meno remunerativi. Di fatto quindi tutt’altro del messaggio “l’acqua bene pubblico” veicolato in questi giorni e sul quale viene chiesto il voto. Non sarebbe la prima volta che un esito referendario verrebbe tradito, è già successo sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla responsabilità civile dei magistrati. Dubito però che sarebbe la strada giusta per riavvicinare i cittadini con la politica (come dicono di voler fare tutti) e per ridare fiducia all’istituto referendario che infatti da venti anni non raggiunge mai il quorum.

Infine siamo sicuri che il vuoto normativo che succederebbe inevitabilmente al referendum sarebbe colmato nella direzione in cui sperano? Dubito che l’attuale maggioranza di governo sia capace di legiferare in alcun senso; ma un’eventuale maggioranza di centrosinistra riuscirebbe a mettere mano al tema superando le posizioni della sinistra di Vendola che già nei precedenti governi hanno impedito riforme in questo settore?