Il lungo rapporto tra Socialisti e Stato liberale

La Fondazione dei socialisti francesi, la Fondation Jean Jaurès, ha pubblicato nello scorso agosto un piccolo libriccino a cura di Mathieu Fulla e Marc Lazar, che estrae e riassume un’opera imponente da loro curata, sul rapporto dei socialisti e socialdemocratici europei con le istituzioni statali dei rispettivi paesi.

Il rapporto tra socialisti europei e lo Stato è mutato profondamente nel corso del tempo. Da nemico da abbattere in quanto struttura del potere borghese e del capitale, sia attraverso moti rivoluzionari che all’interno dei poteri locali o delle forme di lavoro cooperativo.

Via via però che il movimento socialista si radicava, passando dai comuni ai Parlamenti, il rapporto con lo Stato si modifica, il nemico si identifica con le strutture repressive del potere (polizia e esercito), mentre si inizia a teorizzare che la struttura capitalistica si può modificare attraverso lo Stato stesso o che le condizioni per il processo rivoluzionario possono essere favorite da politiche di riforma attuate all’interno delle istituzioni liberali.

Non che le forme insurrezionaliste o localiste vengano meno ma o finiscono in minoranza o danno vita a scissioni.

Con lo scoppio della prima guerra mondiale queste tensioni esplodono e i residui dell’internazionalismo vanno in frantumi, nel dopoguerra le tensioni rivoluzionarie con la “competizione” coi comunisti prima e la lotta al fascismo poi radicheranno e ancoreranno ancor di più i socialisti (per la prima volta al governo in molti paesi) allo Stato; ma sarà col secondo dopoguerra che la coincidenza dei socialisti con lo Stato, da “occupare” per riformare avrà la sua epoca d’oro. Sarà anche in quegli anni che la base elettorale dei vari partiti socialisti e socialdemocratici europei si modificherà: perdendo molti consensi nella classe operaria (che si rivolgerà molto spesso ai partiti comunisti) e guadagnandone moltissimi tra i dipendenti pubblici fino a diventare, in molti casi, il partito di riferimento delle varie funzioni pubbliche.

Questo rapporto va  in crisi, ci raccontano i due autori, verso la fine degli anni settanta dove il paradigma neoliberale, rappresentato dai governi Tatcher e Reagan, ha finito per influenzare profondamente i socialisti europei fino a far diventare questi gli esecutori, negli anni ’90, della teoria dello stato “debole”, mero regolatore dei mercati e fornitore sussidiario di servizi non proficui.

Sono gli anni di Blair, Shröder, D’Alema e Jospin, gli anni in cui il sistema di welfare state su cui si è fondato il compromesso democratico europeo, si è costruita la ricchezza del continente e si sono sviluppate le nostre società, viene frantumato nella speranza di un mercato finalmente libero e globale.

Una stagione che, però, per i partiti socialisti ha coinciso anche con l’inizio della fine poiché, questa la tesi del libro, i socialisti hanno di fatto segato il ramo su cui erano seduti, andando a colpire proprio quell’elettorato fatto di pubblici dipendenti che, colpito e deluso, si è rifugiato molto spesso nella destra (anche in conseguenza della scomparsa di un’offerta politica di sinistra comunista credibile dopo la fine della guerra fredda). Tutto questo senza che ci fosse un ricambio elettorale da parte dei “ceti medi riflessivi” per dirla con le parole di Richard Florida, sociologo allora molto in voga.

Però, questa la tenue speranza instillata dal libro, dopo la crisi del 2008, crisi che di fatto non è ancora finita e si lega a quella attuale legata anche alla pandemia, il paradigma neoliberale è andato (o diciamo più scetticamente può andare) in crisi e quindi si potrebbe aprire uno spazio nuovo, per il pubblico in quanto tale e dunque per i socialisti.

Una speranza che il libro, non sviluppa come è inevitabile che sia per un’opera storica, ma che appare davvero difficile immaginare con gli attuali gruppi dirigenti, ci sia concesso di dire, che guidano ciò che rimane del socialismo europeo. Non tanto per le qualità dei singoli, che certamente molti di loro possiedono, ma per l’assenza di un quadro di riferimenti, di pensieri lunghi, non necessariamente nati all’interno del campo socialista (in fondo Keynes, sulle cui idee molti socialismi democratici hanno prosperato, era un liberale). Tuttavia, se le istanze e i bisogni di giustizia sociale e di progresso degli ultimi sono oggi più necessari che mai, occorre a chi ancora socialista si dice e si crede, interrogarsi su come alimentare tale fiaccola. Partire, come nel caso di questo libro, da ciò che si è stati può essere un buon inizio.

Articolo apparso su Culturacommestibile n. 426 del 4 dicembre 2021

Neanche il riformismo è un pranzo di gala

I rivoluzionari del XX secolo venivano spronati dalla propaganda dei partiti afferenti alla III internazionale ad essere due volte migliori dei capitalisti che si proponevano di abbattere. La tesi era che l’avanguardia rivoluzionaria avrebbe, col proprio esempio, fatto prendere coscienza al proletariato fino al suo riscatto.

Qui in Italia i gruppi che diedero vita a Livorno al PCdI si affermarono intorno a due riviste, il Soviet di Bordiga e l’Ordine Nuovo dei “torinesi” Gramsci, Togliatti, Tasca, Terracini e altri. Due riviste di cultura, in cui, soprattutto sull’Ordine Nuovo, i temi dell’organizzazione del nuovo stato sovietico e socialista erano trattati e approfonditi ben oltre lo slogan “faremo come in Russia”. Anzi è proprio in quegli anni che nasce la necessità di uno specifico italiano nella costruzione del socialismo, che poi Gramsci approfondirà nei Quaderni e Togliatti svilupperà, certo anche tatticamente, nella via italiana al socialismo del secondo dopoguerra.

Studiare, confrontarsi, migliorarsi era la regola. D’altra parte Angelo Tasca, per convincere un giovane e timido Antonio Gramsci ad unirsi alle loro riunioni gli fece dono di un volume di Guerra e Pace con la seguente dedica “Al compagno di studi, oggi, al mio compagno di battaglia, spero, domani”; mentre il motto che campeggiava in prima pagina de L’Ordine Nuovo era “istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”.

Un imprinting che ha segnato fortemente non solo il PCI ma più in generale tutto il movimento operaio e progressista italiano. Basti pensare ai sindaci del dopoguerra, quella generazione fatta anche di operai come Fabiani a Firenze, quella in cui “la maestà del popolo governava” come scrisse Neruda nei versi dedicati proprio al primo cittadino di Firenze, che si misurarono con uno Stato in cui le persistenze e le continuità con il regime liberale ma soprattutto fascista erano fortissime e invasive oltre ogni immaginazione. Eppure passo dopo passo modificarono le cose e governarono, come dopo di loro la generazione di amministratori della seconda metà degli anni settanta, che ancor di più scardinarono a livello amministrativo un Paese già profondamente cambiato culturalmente e socialmente. Lo cambiarono in presenza e in reazione ad un attacco allo Stato che proveniva sia dai teorici della rivoluzione che da quelli della reazione, facendo prevalere un senso delle istituzioni di cui gioverà il paese nei momenti bui e confusi dei primi novanta culminati però con la deviazione, purtroppo ampia e tragica, della degenerazione giustizialista e l’avvio della stagione del populismo in politica.

Vi è dunque un portato storico, una prassi, comune alla sinistra ma anche ben presente nella tradizione democratica cristiana (la maggior parte dei dirigenti storici della DC proveniva da cattedre universitarie) di coincidenza di cultura e impegno politico, di consapevolezza che il cambiamento per esser tale avrebbe dovuto sempre confrontarsi con resistenze anche tecnico amministrative.

Oggi, la banalizzazione della narrazione pare aver sottovalutato se non dimenticato questo, cruciale, aspetto. Non è un problema di sola comunicazione. O meglio, la comunicazione è l’epifenomeno di un modo di pensare e agire. Dietro alla banalizzazione degli oppositori (non tanto quelli politici ma quelli che siedono nei gangli del potere) in gufi, rosiconi e professoroni, non risiede soltanto un impeto da “rivoluzione culturale” maoista, ma una profonda sottovalutazione del loro potere o, molto più probabilmente, una terribile sopravvalutazione del proprio potere come classe politica.

Della stagione del primo renzismo, in attesa di capire se ve ne sarà un secondo, sul piano delle realizzazioni materiali del proprio riformismo, così tanto sbandierato, molto rimarrà come un incompiuto. Non tanto perché l’esito referendario ha interrotto l’esperienza del governo Renzi, ma perché molte delle riforme hanno cozzato con la verifica tecnico amministrativa di altri organi dello Stato.

La riforma della pubblica amministrazione, bocciata in parti consistenti dalla Consulta, la legge elettorale che ha subito medesima sorte, buon ultimo il TAR che ha censurato la Riforma dei Beni Culturali del ministro Franceschini. A questo possiamo aggiungere gli errori, marchiani e palesi, del nuovo Codice degli Appalti, che hanno generato numerosi rilievi del Consiglio di Stato.

Rilievi che hanno a loro volta dato avvio alla figuraccia della riforma (a parere di chi scrive sacrosanta) dei poteri abnormi dell’ANAC approvata dal Consiglio dei Ministri all’insaputa del consiglio stesso.

Errori che sono stati quasi sempre imputati alla irruenza e alla fretta riformatrice della passata stagione del governo o, dagli stessi protagonisti, a nemici esterni, spesso identificati come parrucconi dell’ancient regime.

Probabilmente c’è del vero nella seconda affermazione e a leggere, uno dietro all’altro, i tre cognomi della giudice che ha formulato la sentenza del TAR sulla riforma Franceschini, questa tesi si può pure rafforzare, se ci è concessa un po’ di ironia.

Tuttavia proprio se questa tesi fosse vera, ancora di più emergerebbe il limite politico di quella stagione di governo. Sottovalutare il proprio avversario è infatti molto spesso il primo passo verso una sconfitta certa. Anche la risposta “la prossima volta cambieremo prima il TAR del resto” ha più un valore propagandistico che reale.

Perché il punto anche se si decide di cambiare il TAR (anzi soprattutto se si decide di cambiare il TAR) è cambiarlo bene, in modo formalmente e sostanzialmente perfetto, a meno che non si intenda cambiarlo attraverso un sovvertimento violento dell’ordine costituito.

Ecco dunque che all’approssimarsi dell’ennesima campagna elettorale in cui il segretario del PD, continuerà con la litania delle prossime riforme che metterà in campo qualora dovesse tornare a Palazzo Chigi, la differenza potrà farla soltanto se si soffermerà sul fatto che, al netto degli argomenti scelti, le prossime riforme si impegnerà a farle bene.

Certo questo impone di scegliere i capaci al posto di fedeli, cosa che finora è parsa più difficile dello scrivere le riforme correttamente.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 220 del 3 giugno 2017

Due olive (greche)

mario-gomez

Devo premettere che a differenza dei tanti (troppi) tifosi da social network io, sulla vicenda greca, ho poche certezze; tuttavia a me stupisce una cosa in questa faccenda: ci si indigna per anni per l’Europa che si occupa dell’acqua delle mozzarelle (cit.) e si invoca un’Europa che faccia politica, poi quando la fa (anche se quella politica non ci piace) come in questo caso, si dice che è un Europa di tecnocrati. Quella di questi giorni è politica; nemmeno nazionale, anzi. Quello che si è coalizzato intorno alla posizione tedesca è una specie di internazionale della destra europea (a cui non si accoda praticamente solo la destra italiana, non a caso). Questa idea della Germania che conquista la Grecia, oltre che assurda (che vuoi che se ne faccia la Germania di un’economia che esporta solo olio d’oliva o di una società elettrica che vale meno di quella di Brema) è pericolosa perché riporta il discorso all’ottocento, mentre qui siamo ben oltre. Quella di queste ore è un’Europa politica. Se non ci piace occorre batterla sulla politica, non piccarsi sui tedeschi brutti e cattivi. Qui si avverte la drammatica scomparsa del socialismo. La nostra sconfitta. Che però è mica cosa di oggi. Dopo la stagione del tentativo di addomesticamento del capitalismo globale (Blair, Jospin, Schroeder) siamo al nulla, alla subalternità di pensiero. A Fassina (per dirne uno) che indica nel Papa l’unica sinistra. Ci siamo dimenticati dei rapporti di forza (lo scriveva Gianpasquale Santomassimo su facebook l’altro giorno anche se immagino lui si riferisse più alla sinistra alla Tsipras), dell’analisi dei fatti, del concetto di egemonia. Oggi i fatti dicono che il continente Europeo è a maggioranza (culturale prima che politica) alla forze della destra liberal/liberista o mercatista (secondo le vostre preferenze lessicali), che non esiste un modello economico, sociale, culturale alternativo al cosiddetto rigore. Confondere questa egemonia con la mancanza di strutture democratiche dell’Unione è come guardare il classico dito. Certo che non esistono strutture democratiche in Europa, ma non perché i plutocrati brutti e cattivi non le hanno volute, è così perché i cittadini (laddove su queste cose si è votato analogamente a quanto accaduto con il voto al referendum greco) hanno fatto fallire quel (seppur timido) progetto, magari anche perché non è stato mai reso un progetto popolare. Una volta persa quella battaglia (della cui sconfitta molta responsabilità pesa su SPD e soprattutto socialisti francesi) non si è messo in campo niente per riprendere la lotta in altre forme. Dire oggi che serve più Europa è come dire per tutta la scorsa stagione che serviva un attaccante alla Fiorentina che la mettesse dentro. Era vero ma non serviva a molto.

 

Se non basta far piangere i ricchi (ammesso che piangano).

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 dicembre 2011.

Anche i ricchi piangono, a leggere le cronache di questi giorni sulla manovra Monti, pare essere un mantra consolatorio di una parte, non proprio piccola, del PD e del centrosinistra tutto. Un riflesso pavloviano di una certa sinistra, non soltanto italiana, che fece affermare diversi anni fa al leader socialdemocratico Olof Palme che il nemico da combattere non era la ricchezza ma la povertà.
Se questo rimane vero, forse il tema da affrontare con maggiore urgenza, per la sinistra italiana, dovrebbe essere quello non solo di come garantire ordine e funzionamento delle casse pubbliche, ma come si immettono elementi di redistribuzione del reddito e di eguaglianza (declinabile sia in termini di diritti che di opportunità) sia in termini generazionali che anche, vista la situazione, immediati di ripresa economica e riavvio di una società (non solo economicamente) bloccata.
E il fatto di non essere all’opposizione, ma neanche al governo, forse dovrebbe essere vista come una possibilità, da parte dei dirigenti del PD, per farsi venire qualche idea nuova, provare a portare a sintesi le posizioni (e le relative politiche) che convivono in quel partito.
Un po’ come provano a fare i laburisti inglesi di fronte a un report pubblicato nei giorni scorsi dal think thank di Peter Mandelson, blairiano di ferro e dunque “nemico” dell’attuale segretario Milliband.  Di fronte a un documento in cui si parla apertamente di riduzione delle tasse e di appropriarsi della politica fiscale dei conservatori non si è risposto sprezzantemente che si trattava di idee di una sparuta minoranza né, d’altro canto gli estensori del rapporto, si sono limitati a chiedere le dimissioni di Ed Balls, il responsabile economico del partito. No, si sono seduti intorno ad un tavolo e ne hanno discusso, intanto a porte chiuse. Tutto il contrario della prassi nostrana dove ci si parla spesso per comunicati stampa e soprattutto si sfiora la buccia delle cose senza mai andare al merito e ci si riempie spesso la bocca di slogan o modelli esterofili di cui neanche si sa il colore della copertina.
E non è un caso che l’unico quotidiano che ha dato notizia del documento laburista e del dibattito innescato da questo sia stato (almeno allo stato della mia conoscenza) il Foglio con Claudio Cerasa, mentre i quotidiani di centrosinsitra occupavano pagine su pagine nell’ennesimo scontro tra Fassina e qualche lib dem. Argomento che probabilmente appassiona poco anche i diretti congiunti dei contendenti.
Ma siccome non voglio essere accusato di far soltanto le punte ai lapis, come direbbe Bersani, per chi fosse interessato a capire un po’ come si può pensare qualcosa di diverso trova il report di cui parlavo all’indirizzowww.policy-network.net

Ciao Vittorio

In fondo, mi dico, uno se lo poteva anche aspettare. Vittorio Foa aveva 98 anni, era ormai da tempo infermo e quasi cieco e non si muoveva dalla sua casa di Formia. Uno quindi se lo poteva aspettare ma mi dispiace lo stesso. Avevo conosciuto personalmente Foa molti anni fa. Lo avevo trovato straordinariamente più moderno di me. E in questi anni leggendo quanto via via produceva lo trovavo sempre più moderno di tanti commentatori e pseudo-intellettuali giovani e giovanilisti.

Era un socialista anomalo, veniva da mondi e culture che come studente di storia e poi nella mia piccola attività politica  mi hanno sempre affascinato e attratto. Penso che, come tutti, non tutte le avesse imbroccate. Soprattutto quando dalla teoria si tentava di passare alla pratica.

Mancherà a molti, molto più importanti di me, ma mancherà anche a me.