L’olimpiade romana

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 febbraio 2012.

Dubitiamo sinceramente che per scaldare il cuore di Monti, affinché appoggi la candidatura alle Olimpiadi di Roma del 2020, l’appello degli sportivi italiani sia la mossa giusta. Nella costruzione dell’immagine rassicurante del professore che si prende cura del Paese ci è stato fornita ogni tipo di informazione su Monti, la sua famiglia, i suoi gusti; persino quelli alimentari e in quali negozi si rifornisca la signora Monti per il cenone di Capodanno. Dei gusti sportivi invece sappiamo molto poco, solo, per esempio, che sia “moderatamente” rossonero.  Tuttavia aldilà di appelli e interessi del mondo sportivo (e imprenditoriale) il tema delle Olimpiadi a Roma può essere una cartina di tornasole di questo Paese e della sua (in)capacità di programmarsi e pensarsi. Certo nei giorni in cui la capitale è stata messa in ginocchio da una nevicata (dopo esserlo stata per un nubifragio) e in cui il Paese discute se riuscirà o meno ad evitare il default ed uscire da una crisi sistemica, il dibattito potrebbe anche non iniziare. Se proviamo ad astrarci però possiamo considerare l’evento Olimpico (come i grandi eventi sportivi) come un motore di sviluppo e un motivatore di cambiamenti incredibile. Negli anni novanta, nella stagione della pianificazione strategica degli enti locali, la finalizzazione di una trasformazione, della vocazione e della struttura di una città, veniva aiutata dall’obbiettivo di una grande occasione sportiva. Il caso di Torino e le sue olimpiadi invernali è il massimo esempio di questa stagione. Una città che si scopre post-industriale e ripensa sé stessa e finalizza la sua trasformazione prima all’aggiudicarsi, poi a gestire giochi i olimpici e le trasformazioni successive a questi. Ecco perché Manchester, impossibilitata a richiedere olimpiadi, fece di tutto per ospitare almeno i giochi del Commonwealth. Dunque più che l’investimento economico e urbanistico immediato i giochi erano pensati come occasione di investimento culturale, sociale e amministrativo. Giochi che quindi celebrano un Paese e una città che sono stati in grado di pensarsi, trasformarsi e gestirsi. Come sarà per Londra alla fine del decennio della cool Britannia o ancor di più per il Brasile potenza economica mondiale. Altrimenti risultano essere un disastro e non è un caso se nella periodizzazione del declino greco quasi tutti gli osservatori datino l’inizio della fine proprio con le Olimpiadi ad Atene. Il punto che dovrebbe farci considerare dunque l’olimpiade di Roma è  se questo Paese non sia soltanto in grado di costruire faraoinici impianti sportivi ma anche di costruire un futuro a sé stesso, in cui aldilà di quello che raccontava De Coubertin l’importante non è tanto partecipare, ma vincere.

Come la neve fa cantare Renzi fuori dal coro della comunicazione

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 febbraio 2012.

Alla fine la neve è arrivata. Poca o tanta dipende da quale prospettiva la si guardi: seguendo la nevicata sui social media pareva che fosse in corso una “tormenta” (come twittava un autorevole amministratore cittadino), con stoici inviati di testate importanti costretti ad una notte in bianco per seguire i lavori di pulitura strade. A guardarla dalla finestra di casa ci pareva una nevicata come ne capita ogni tanto d’inverno. Detto questo va premesso che la macchina del Comune e della protezione civile ha consentito di minimizzare i disagi e liberato le strade garantendo la viabilità verso scuole e luoghi di lavoro, in città ma anche nell’hinterland. Quello che però interessa qui è la gestione della comunicazione dell’evento, con la creazione e l’amplificazione di un effetto “ansia” già presente dopo la nevicata di due anni fa e il disastro organizzativo di quell’evento. Certo a muovere gli amministratori pubblici c’era quel principio di precauzione che declinato alla fiorentina recita più o meno “meglio aver paura che buscarne”, più che comprensibile certo ma che riflette, almeno nel caso del primo cittadino fiorentino, anche un modello comunicativo fatto di enfasi, sovrapposizione tra comunicazione personale e comunicazione istituzionale e sovraesposizione di messaggi e informazioni, effimere o per la natura del media da cui si lanciano o per la durata del messaggio prima che ne arrivi un altro. Non sta a noi dire se questo tipo di comunicazione sia o meno efficace (dipende molto dallo scopo naturalmente)  ma ci pare utile sottolinearne la differenza rispetto a un modello comunicativo nazionale che, negli ultimi mesi, è profondamente cambiato. Insomma non sono più i mesi (e gli anni) di Berlusconi con la sua roboante presenza e ingombranza, tempi in cui Renzi pareva l’unico del centrosinistra a cantare intonato al mainstream comunicativo plasmato dal Cavaliere. Nell’era della sobrietà di Monti, l’effetto è quello di una voce dissonante (non per questo sia chiaro meno affascinante). Monti non sovrappone la propria comunicazione personale (anzi  non ne ha proprio) con quella del governo. Non ha account twitter o facebook, parla attraverso i canali istituzionali o in conferenze stampa fiume che hanno l’aspetto (e il rigore) di lezioni universitarie, humor compreso ma che manifestano un rapporto adulto col cittadino, messo nella condizione non solo di essere informato ma di poter capire quanto comunicato. Certo non è esente da scivoloni, come la pagina alla nordcoreana con gli estratti delle lettere al premier con la bambina che lo chiama nonno Mario.  Tuttavia siamo di fronte ad uno stile diverso che sembra essere molto meno presente sui media (poi in realtà questo governo parla un sacco), improntato a un meneghino spirito del fare, del far sapere senza però farci romanzi sopra. Dunque nel riposizionamento in corso da parte di Matteo Renzi paiono cambiate molte cose (la tempistica, l’attenzione dal nazionale al locale, una propensione a parlare di ciò che fa qui piuttosto di quello che farà per il Paese) ma non l’irruenza comunicativa, una scommessa precisa nei confronti della sobrietà dei professori.

E’ arrivata la manovra, è arrivato il temporale…

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 8 dicembre 2011.

E’ arrivata la manovra, che è un po’ come la bufera che cantava Rascel, quella in cui c’è chi sta bene e chi sta male e chi sta come gli pare.  Nonostante il mantra “tecnico” del rigore e dell’equità anche questa volta, a naso, del primo ne vediamo molto della seconda qualche pezzetto, che è sempre meglio di niente sia chiaro, ma non consola così tanto quando si va a fare il pieno col gasolio aumentato di 11 centesimi. A meno che non si faccia come quel giornalista di sky tg24 che, proprio nel servizio dedicato all’aumento dei carburanti, definiva equa la misura perché colpisce tutti. Certo se si toglie 10 a chi ha 100 si è equi come se si toglie i soliti 10 a chi ha venti. Ma ci faccia il piacere avrebbe detto il Principe De Curtis. E forse un po’ più equi si sarebbe stati a chiedere qualche rinuncia anche a Santa Romana Chiesa, visti i tempi grami per le proprie pecorelle. Pare che persino Verdini, oltre ai soliti radicali, abbia posto il tema, mentre il PD tace e il governo dice che non ha avuto tempo di studiare. Che, se ci pensate bene, è fantastico un governo di professori, che usa la scusa più frequentemente utilizzata dagli scolari di tutto il mondo. Ma la Chiesa vive periodi difficili, va capita: c’è infatti a Prato un parroco che ha chiesto ai propri fedeli di consegnargli i propri “ninnoli” in argento per fonderli e fare un nuovo reliquiario per la sua parrocchia. Speriamo che nel frattempo, vista la crisi, i suoi parrocchiani non abbiano già impegnato tutti i gioielli di famiglia. Invece si è ancora in tempo per essere equi portando sino in fondo la riforma annunciata delle Province. Già perché la data prima anticipata di riforma delle giunte e dei consigli provinciali, fissata al novembre dell’anno prossimo, è scomparsa dal testo del Decreto e rimandata ad un’ulteriore legge che dovrà definire i tempi. Un metodo molto spesso utilizzato per non far di nulla delle cose annunciate. Il senatore Ceccanti (PD) ha proposto di modificare in aula il decreto in corso di conversione inserendo il termine naturale delle consiliature provinciali per avviare la riforma. Una posizione di buonsenso che speriamo le forze politiche, da sempre a parole favorevoli addirittura all’abolizione delle province, voteranno

Non basta Monti per calmare i mercati

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 25 novembre 2011

Il governo apotropaico, il governo amuleto, non c’è. Noi relativisti ne eravamo certi ma oggi probabilmente ne avranno la conferma anche quelli che parlavano (o meglio scrivevano su un bigliettino) di miracolo. Perché il governo Monti in sella già da un po’ di giorni  non ha, per la sola sua presenza, calmato i mercati, abbassato lo spread e fatto crollare il rendimento dei nostri BOT come del resto non avrebbe potuto aprire le acque del Mar Rosso e fatto transitare il suo popolo fuori dall’Egitto. Sono azioni, le prime come la seconda, che si adattano ai profeti non certo ai professori. Dunque il governo Monti e l’intero Paese saranno giudicati per le politiche e le azioni che metteranno in campo e non tanto per la sola presentabilità dei nostri governanti; e non importa un fico secco a chi di numeri vive sapere che il governo sia composto da ottimi accademici piuttosto che da improbabili politici. Certo ne trarranno vantaggio le conversazioni ma i gelidi mercati contano i numeri e non la cultura. Peraltro, sia detto per inciso, solo da noi si confondono i tecnici con gli accademici e solo da noi, disabituati da quasi sempre a vedere la competenza al governo, il fatto di avere gente preparata nei dicasteri viene visto come un fatto nuovo e straordinario.  Quello che attende Monti è la stessa prova che attendeva Berlusconi conciliare rigore e crescita: infatti al fine che la riduzione dell’enorme debito pubblico sia davvero possibile non basta razziare denaro da nuove imposte e balzelli ma occorre anche che il paese ricominci a muoversi (se non a correre) generando ricchezza (tassabile) e occupazione. Se tutto questo è vero, le prime misure che trapelano del nuovo esecutivo, paiono andare nella direzione del rigore piuttosto che in quella dello sviluppo: aumento ulteriore dell’IVA, ICI, possibile patrimoniale, sono misure atte a drenare risorse e, sia detto col massimo rispetto, almeno la prima misura ha poco o punto a che fare con l’equità sociale visto che colpisce molto di più chi ha meno.  Però il governo Monti ha parlato sempre finora di pacchetti di misure e quindi crediamo e speriamo che insieme (e non successivamente) a queste misure siano messe in campo anche azioni come la diminuzione della pressione fiscale su lavoro e redditi reinvestiti o sulla ricerca (vera) in modo da compensare almeno in  parte sia gli imprenditori, che soprattutto i lavoratori. Lo scambio, come paventa qualcuno, tra misure draconiane in economia e diritti civili (cittadinanza agli immigrati e diritto di voto, dico, ecc..) potrebbe forse funzionare sull’opinione pubblica interna e sui ritorni elettorali dei singoli partiti ma, dubitiamo, che avrebbe lo stesso effetto su mercati, economia e soprattutto sui nostri conti.

Le debolezze dei partiti sono la forza di Monti

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 novembre 2011.

C’eravamo raccontati che tra i tanti mali del porcellum questi aveva avuto almeno il merito di semplificare di molto la presenza dei partiti in parlamento. In realtà le interminabili consultazioni che hanno portato alla nascita del governo Monti hanno mostrato che la frammentazione del sistema politico era solo nascosta non scomparsa.

In fondo tutto questo avviene anche in sistemi più maturi del nostro, persino nella patria del bipolarismo come la Gran Bretagna i tre principali partiti al loro interno rappresentano istanze e particolarismi i più vari, tuttavia sono istanze e reti d’interessi territoriali legati al collegio in cui il parlamentare viene eletto mentre da noi sia ha qualcosa di più dell’impressione che gli interessi rappresentati da questi minuscoli gruppi siano quelli degli stessi soggetti coinvolti o al massimo dei loro parenti e sodali.

Così abbiamo visto salire al Quirinale o a Palazzo Giustiniani improbabili referenti di altrettanto improbabili partiti politici. Tra gli altri Riccardo Nencini, caso assolutamente diverso sia chiaro, che grazie al passaggio all’ultimo tuffo di Vizzini dal PdL alla componente socialista nel gruppo misto, è potuto recarsi a Roma ed essere audito. Va dato atto al segretario del PSI che almeno si è presentato a Monti con un edizione del Boccaccio ma non del Decamerone, come invece avrebbe forse apprezzato il predecessore, ma dei trattati geografici, per aiutarlo a trovare il cammino.

Altro tenore devono aver avuto le consultazioni dei gruppi meridionalisti provenienti dal PdL i quali, probabilmente non sapendo che dire, hanno segnalato la necessità, al candidato allora incaricato, di inserire ministri meridionali nel prossimo governo. Pare che il professore abbia risposto loro, mantenendo la solita flemma, “aspettavo voi…”.

Un cambio di stile che prelude a un cambio di sostanza come dimostra la scelta dei ministri, di sicuro Monti sa bene che i veti dei partiti più grandi rappresentano un problema e un anticipazione delle difficoltà parlamentari che il suo governo potrebbe incontrare. Ma sono anche un elemento da cui potrà trarre forza giocando sulle divisioni e le fratture interne agli stessi due principali partiti. Infatti da un lato il PdL appare in grosse difficoltà e pare avere come unico collante il solito Berlusconi, quasi costretto suo malgrado e non potersi ritirare, dall’altra parte il PD ha dimostrato in questa vicenda di non aver un nome interno del profilo tecnico che mettesse d’accordo le anime interne oltre una pregiudiziale, nel caso di Amato, contro quei riformisti che non vengono dalla due anime principali del PD. Problemi di lungo periodo che scorreranno talvolta sottotraccia, talvolta in modo evidente nel corso della tortuosa avventura del governo Monti che va a cominciare.