Le risorse di Enrico Letta

20130504-110555.jpgArticolo apparso su Corriere Nazionale – Qui Firenze del 3 maggio 2013

Non che il problema della copertura finanziaria di quanto affermato da Letta chiedendo la fiducia non esista, anzi, tuttavia siamo arrivati ad un punto tale che il problema delle risorse, o meglio della mancanza di queste, si porrebbe anche se non si facessero i tagli di imposte annunziati dal neo premer. E’ della corte dei Conti, infatti, l’allarme del minor gettito incassato dallo stato nel 2012 mentre tutti i dati economici attuali, ci mostrano consumi ridotti all’osso e una preoccupante diminuzione persino delle prestazioni sanitarie da parte dei cittadini che non possono permettersi i ticket. Insomma il limone è stato spremuto fino al fondo del suo succo e semplicemente non arriveranno nemmeno le tasse previste attualmente, figurarsi cosa accadrebbe con l’aumento della pressione fiscale con l’incremento, per esempio, dell’IVA. Perseguire una politica di solo rigore vorrebbe dire prendere a modello lo sceriffo di Nottingham, non certo il rigore di Francoforte e non ottenere il famoso risanamento del rapporto debito/PIL, che essendo appunto un rapporto se il PIL cala (anzi crolla) non tornerà mai alla fatidica soglia del 3%. Per questo il problema maggiore del nuovo governo potrebbe non essere la copertura ma ridurre davvero la spesa improduttiva e convincere Bruxelles, grazie ai tagli, a concedere più tempo all’Italia.

Non basta Monti per calmare i mercati

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 25 novembre 2011

Il governo apotropaico, il governo amuleto, non c’è. Noi relativisti ne eravamo certi ma oggi probabilmente ne avranno la conferma anche quelli che parlavano (o meglio scrivevano su un bigliettino) di miracolo. Perché il governo Monti in sella già da un po’ di giorni  non ha, per la sola sua presenza, calmato i mercati, abbassato lo spread e fatto crollare il rendimento dei nostri BOT come del resto non avrebbe potuto aprire le acque del Mar Rosso e fatto transitare il suo popolo fuori dall’Egitto. Sono azioni, le prime come la seconda, che si adattano ai profeti non certo ai professori. Dunque il governo Monti e l’intero Paese saranno giudicati per le politiche e le azioni che metteranno in campo e non tanto per la sola presentabilità dei nostri governanti; e non importa un fico secco a chi di numeri vive sapere che il governo sia composto da ottimi accademici piuttosto che da improbabili politici. Certo ne trarranno vantaggio le conversazioni ma i gelidi mercati contano i numeri e non la cultura. Peraltro, sia detto per inciso, solo da noi si confondono i tecnici con gli accademici e solo da noi, disabituati da quasi sempre a vedere la competenza al governo, il fatto di avere gente preparata nei dicasteri viene visto come un fatto nuovo e straordinario.  Quello che attende Monti è la stessa prova che attendeva Berlusconi conciliare rigore e crescita: infatti al fine che la riduzione dell’enorme debito pubblico sia davvero possibile non basta razziare denaro da nuove imposte e balzelli ma occorre anche che il paese ricominci a muoversi (se non a correre) generando ricchezza (tassabile) e occupazione. Se tutto questo è vero, le prime misure che trapelano del nuovo esecutivo, paiono andare nella direzione del rigore piuttosto che in quella dello sviluppo: aumento ulteriore dell’IVA, ICI, possibile patrimoniale, sono misure atte a drenare risorse e, sia detto col massimo rispetto, almeno la prima misura ha poco o punto a che fare con l’equità sociale visto che colpisce molto di più chi ha meno.  Però il governo Monti ha parlato sempre finora di pacchetti di misure e quindi crediamo e speriamo che insieme (e non successivamente) a queste misure siano messe in campo anche azioni come la diminuzione della pressione fiscale su lavoro e redditi reinvestiti o sulla ricerca (vera) in modo da compensare almeno in  parte sia gli imprenditori, che soprattutto i lavoratori. Lo scambio, come paventa qualcuno, tra misure draconiane in economia e diritti civili (cittadinanza agli immigrati e diritto di voto, dico, ecc..) potrebbe forse funzionare sull’opinione pubblica interna e sui ritorni elettorali dei singoli partiti ma, dubitiamo, che avrebbe lo stesso effetto su mercati, economia e soprattutto sui nostri conti.

Le debolezze dei partiti sono la forza di Monti

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 novembre 2011.

C’eravamo raccontati che tra i tanti mali del porcellum questi aveva avuto almeno il merito di semplificare di molto la presenza dei partiti in parlamento. In realtà le interminabili consultazioni che hanno portato alla nascita del governo Monti hanno mostrato che la frammentazione del sistema politico era solo nascosta non scomparsa.

In fondo tutto questo avviene anche in sistemi più maturi del nostro, persino nella patria del bipolarismo come la Gran Bretagna i tre principali partiti al loro interno rappresentano istanze e particolarismi i più vari, tuttavia sono istanze e reti d’interessi territoriali legati al collegio in cui il parlamentare viene eletto mentre da noi sia ha qualcosa di più dell’impressione che gli interessi rappresentati da questi minuscoli gruppi siano quelli degli stessi soggetti coinvolti o al massimo dei loro parenti e sodali.

Così abbiamo visto salire al Quirinale o a Palazzo Giustiniani improbabili referenti di altrettanto improbabili partiti politici. Tra gli altri Riccardo Nencini, caso assolutamente diverso sia chiaro, che grazie al passaggio all’ultimo tuffo di Vizzini dal PdL alla componente socialista nel gruppo misto, è potuto recarsi a Roma ed essere audito. Va dato atto al segretario del PSI che almeno si è presentato a Monti con un edizione del Boccaccio ma non del Decamerone, come invece avrebbe forse apprezzato il predecessore, ma dei trattati geografici, per aiutarlo a trovare il cammino.

Altro tenore devono aver avuto le consultazioni dei gruppi meridionalisti provenienti dal PdL i quali, probabilmente non sapendo che dire, hanno segnalato la necessità, al candidato allora incaricato, di inserire ministri meridionali nel prossimo governo. Pare che il professore abbia risposto loro, mantenendo la solita flemma, “aspettavo voi…”.

Un cambio di stile che prelude a un cambio di sostanza come dimostra la scelta dei ministri, di sicuro Monti sa bene che i veti dei partiti più grandi rappresentano un problema e un anticipazione delle difficoltà parlamentari che il suo governo potrebbe incontrare. Ma sono anche un elemento da cui potrà trarre forza giocando sulle divisioni e le fratture interne agli stessi due principali partiti. Infatti da un lato il PdL appare in grosse difficoltà e pare avere come unico collante il solito Berlusconi, quasi costretto suo malgrado e non potersi ritirare, dall’altra parte il PD ha dimostrato in questa vicenda di non aver un nome interno del profilo tecnico che mettesse d’accordo le anime interne oltre una pregiudiziale, nel caso di Amato, contro quei riformisti che non vengono dalla due anime principali del PD. Problemi di lungo periodo che scorreranno talvolta sottotraccia, talvolta in modo evidente nel corso della tortuosa avventura del governo Monti che va a cominciare.

Un governo sull’orlo di una crisi di nervi.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 22 settembre 2011.

Proviamo a ricapitolare. Un agenzia di rating delle tre che a livello mondiale fanno, come si dice, il mercato ha declassato il debito pubblico italiano. Lo ha fatto basandosi su dati noti, riconosciuti da tutti gli attori in campo. Anzi molti dei dati su cui Standard & Poor’s ha basato il suo giudizio sono dati forniti proprio dal governo italiano. In sintesi S&P ha detto che le previsioni di crescita dell’Italia già basse risentiranno delle misure introdotte dal governo nell’ultima manovra e del clima generale che attraversa l’Europa. Come dice, tra gli altri, il Ministero dell’Economia e la Banca d’Italia. La stessa agenzia ha poi notato che la situazione dell’esecutivo non rende presumibili riforme strutturali, come dicono le dichiarazioni di Bossi, Tremonti e Berlusconi da luglio ad oggi. Tutte cose note e stranote come il fatto che le agenzie di rating avrebbero declassato il debito italiano. Talmente note che i mercati non hanno fatto una piega, anzi i mercati hanno ritenuto le stime di S&P addirittura ottimistiche: infatti lo spread tra debito tedesco e quello italiano o i CDS (le polizze assicurative contro il rischio fallimento di un Paese) sono analoghi a quelli di Paesi con un rating molto più basso della A che ci ritroviamo.

Se questa ricostruzione è corretta appare quindi ancora più fuori luogo e segno di un evidente stato confusionale la reazione dell’esecutivo italiano di fronte al declassamento. Infatti Palazzo Chigi alle ore 8.46 del mattino ha emesso un comunicato in cui, sostanzialmente, dava la colpa del declassamento ai retroscena dei giornali e ad una manovra politica. Che poi ce li vediamo proprio questi analisti di Standard & Poor’s scendere all’edicola di wall street e comprare il Fatto quotidiano e Repubblica e dare un colpo di telefono a Vendola e Bersani per farsi correggere le bozze del report.

Se la situazione non fosse tragica ci sarebbe poi da applaudire al governo quando dice che la maggioranza è solida e il governo non ha problemi in parlamento nel giorno in cui l’esecutivo va sotto in aula non una ma cinque volte.  Eppure sarebbe bastata una semplice e sobria reazione. Dire che il declassamento, in una fase come questa era possibile, che non è la fine del mondo e che ce la metteremo tutta per recuperare. Quello che ha detto a tarda sera il Presidente Napolitano.