Tutt’altro che brevi cenni sull’universo (i 60 giorni che inchiodarono la Repubblica).

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Siccome sono un po’ di giorni che i miei dieci lettori mi fanno troppi complimenti per quello che dico nella sintesi dei 140 caratteri di twitter, sento l’urgenza di fare arrabbiare un po’ tutti mettendo giù qualche nota sparsa sulla situazione politica e sugli ultimi estenuanti 60 giorni delle istituzioni politiche italiane. Nessuna pretesa di esaustività, anzi, né di una logica tra, e in, quello che scrivo. Giusto un po’ di pensieri sparsi da offrire e facilissimi ad essere smentiti persino nei prossimi minuti. Un’unica avvertenza di metodo, soprattutto a me stesso, nessun interesse al contingente, sia esso il governo, il destino di questo o quello o gli appuntamenti interni alla vita dei partiti, ma solo temi generali come si compete ad uno spettatore interessato.

1)      La generazione playstation. Ho sempre pensato che la fila fosse sinonimo di civiltà; si trattasse di prendere un autobus, fare un prelievo al bancomat, progredire all’interno di una organizzazione sociale. Oggi invece, anche a causa di un paio di generazioni messe a tappo dell’intera società italiana (i meccanismi di cooptazione non hanno saputo adeguarsi all’allungamento della vita), è diventato di moda saltare la coda e fare vanto della propria inesperienza, almeno in politica. Così non ci sogneremo mai di farci difendere in un processo penale in cui rischiamo la galera dall’ultimo dei praticanti di uno studio legale, abbiamo invece affidato buona parte della vita dei partiti e delle istituzioni a degnissime persone, spesso brave e preparate, che però hanno iniziato la loro esperienza politica un minuto prima (talvolta persino un minuto dopo) essere elette. Il fatto che tutto questo lo si sia ammantato di merito, intendendo per merito le capacità extrapolitiche che indubbiamente molti di questi nuovi protagonisti hanno, ai miei occhi risulta come aggravante. Così abbiamo oggi in molte istituzioni e partiti politici una generazione che non ha mai giocato davvero a calcio pensando che fosse sufficiente essere dei campioni alla playstation. Da qui una sottovalutazione delle prassi, delle liturgie istituzionali (la cui conoscenza è indispensabile se le si vuole sovvertire) che porta a innocue goliardate come votare Mascetti alla Presidenza della Repubblica (atto apparentemente innocuo ma significativo del clima da gita scolastica) o al pensare che male non farà dare un po’ di schede contro Prodi giusto per vedere l’effetto che fa. Solo che poi, mancando mestiere e regia, finisce che le schede sono troppe e tutto crolla.

2)      Questione Morale o questione politica. Passi trent’anni a dirti la parte sana e migliore del Paese e finisce che non solo ci credi ma condisci ogni dissenso dal tuo bene comune come tradimento o crimine. Ci riflettevo ieri sera quando un giovane, evidentemente non anagraficamente figlio delle tradizioni politiche novecentesche, ha detto “noi siamo il PD buono”. Allora mi è tornato in mente Natta (che mi pare Guido Vitiello giorni fa ha ritrovato su facebook) che criticava l’intervista di Berlinguer sulla questione morale. Diceva Natta che Berlinguer aveva commesso un tragico errore nell’avere posto non una questione politica ma una questione morale. Oggi possiamo dire che aveva ragione e che il clima di odio (sì odio) che si avverte nella società prima che nei gruppi dirigenti è la dimostrazione che la spaccatura nel Paese non è tra linee politiche ma tra linee morali, il bene e il male (sia chiaro analogo discorso vale a parti invertite dove anche larga parte del popolo di destra odia la sinistra). Occorrerebbe che la politica abbandonasse il campo immediatamente e non impostasse campagne elettorali involontariamente orwelliane (l’Italia migliore) e lasciasse alla cultura e persino alle religioni il compito di pacificare il Paese. Dovremmo impegnarci a farci almeno un amico (virtuale o reale) della parte avversa e conoscendolo vedere che ci somiglia molto più di quanto ci divida la scelta politica. Occorrerebbe anche rivalutare Natta, se non politicamente almeno culturalmente. Un operazione che la trasformazione in santino di Enrico Berlinguer ha sinora impedito. Penso e spero che a partire da quell’articolo che citavo presto qui o su qualche rivista possa proporvi una rilettura di Natta e della sua “diversità”.

3)      Un partito in Barca. Ho letto il documento di Barca. Occorrerà tornarci e discuterne approfonditamente. Conto di farlo da queste parti appena avrò un po’ di tempo per scrivere seriamente. La prima impressione è quella intanto di un metodo nuovo, seppur antico. Non ci si è limitati a una brochure colorata o una infografica ma si è scritto un saggio di 55 pagine con note e bibliografia. C’è fatica e c’è rispetto in siffatta maniera. Sul piano dei contenuti però la prima cosa che salta all’occhio è il tentativo, non proprio modernissimo, di coniugare Gramsci con Amartya Sen. Mi verrebbe da dire si accomodi. Sono circa venti anni che ci hanno (abbiamo se mi passate l’immodestia) provato. Ogni volta però il limite è stato di prendere in Gramsci le parti relative all’organizzazione e al partito e in Sen le parti economiche. Forse occorrerebbe prendere la lettura della società di Gramsci e il concetto di politica che deriva dalla declinazione di Libertà di Sen perché l’esperimento abbia buoni frutti.

4)      Divergenze tra me e il compagno Pannella. Criticare Marco Pannella non è mai operazione semplice, non tanto per la sua grande storia ma per la sua capacità spesso divinatoria di leggere la politica e la società italiana (una volta magari riusciti a dipanare qualcuno dei mille rivoli della sua oratoria). Però sulle sue critiche al presidente Napolitano mi spiace ma (per quel che conta) non sono d’accordo. Pannella parte dal condivisibile punto che Bonino sarebbe stata meglio di Napolitano e ne addita responsabilità anche allo stesso Napolitano. Certo il Presidente ha fatto un (grandissimo) discorso di (auto)investitura molto assolutorio verso se stesso e come lui ha inteso e agito la sua carica istituzionale nel primo settennato. Quello che però contesto a Pannella è una tendenza egualmente assolutoria nei confronti del suo partito (o della sua galassia). Ok il regime, ok la partitocrazia imperante ma forse causa dell’annientamento elettorale dei radicali è anche un gruppo dirigente tra i più immobili che il partito ha avuto nella sua lunga e gloriosa storia. Perché la partitocrazia e il regime sono ovunque ma in Puglia le firme le raccolgono nel nord no. Sia chiaro stiamo parlando di persone serie, preparate e con una passione e un impegno smisurati, tuttavia non capaci, a mio avviso, di essere nuovi, innovatori, come sempre sono stati i radicali. E non c’entra nulla la storiella di Pannella che mangia i suoi figli, Pannella quando dissente semplicemente si ferma e come ogni stella intorno alla quale ruotano sistemi solari, quando si bloccano i corpi celesti collassano su sé stessi. Credo che per il bene dei radicali (e dunque dell’intero Paese) una nuova fase politica di quel soggetto sia necessaria, aldilà delle figure e delle persone che la incarneranno.

5)      Avanti il gran Partito. Collegandomi con quanto scritto sopra l’ultimo punto lo dedico al PSI di Nencini. Nel marasma generale quel partito mi è apparso, almeno nel centrosinistra, la forza politica che meglio esce da questi 60 giorni di delirio. Una posizione coerente sul Presidente della Repubblica, nessun tradimento dell’alleanza e dei suoi leader e una posizione chiara sul governo. Certo, direte, è facile farlo quando non si è determinanti ma anche avere coscienza dei propri limiti è grande pregio per una politica in cui abbiamo visto partiti del 3% pretendere propri esponenti alla guida delle istituzioni, dettare linee di governo e pontificare sempre e comunque. Certo non dimentico che Nencini è quello dell’accordo in cassaforte con Manciulli o quello che mentre faceva le manifestazioni contro la riforma della legge elettorale per le europee perché estrometteva i piccoli partiti, contemporaneamente votava la riforma del “cinghialum” toscano che provocava lo stesso effetto. Tuttavia in questa fase, per me, si è ben mosso e la sua proposta di rimettere in piedi un ragionamento sulla sinistra laica e socialista mi pare una  vecchia novità necessaria non per dar vita all’ennesimo partitino ma perché quelle tradizioni non siano assenti da questo (speriamo non infinito) dibattito.

 

Se le banche non prestano, io do ragione alle banche.

Oggi mi sa che scriverò una cosa che non piacerà a molti. Perché oggi di fronte alla cacofonia di quelli che si indignano (uno degli stati umani più sterili ormai) di fronte alle banche che non farebbero il loro lavoro, non prestando soldi alle imprese, io, scusatemi, mi schiero dalla parte delle banche.

Perché non prestando soldi a imprese sempre più a rischio (questo dice il bollettino della BCE quando parla di insolvibilità delle imprese italiane) le banche fanno proprio il loro mestiere: tutelare il risparmio raccolto, cioè i nostri soldi.

Perché li vorrei vedere gli indignati se scoprissero che i loro risparmi non ci sono più perché la loro banca ha prestato soldi a imprese non in grado di onorare i prestiti.

Proprio la genesi di questa crisi sta nel fatto che le banche (americane ma non solo) hanno prestato a cani e porci senza alcuna garanzia o gonfiando il valore delle garanzie (mobiliari ma soprattutto immobiliari).

Di fronte a questo non ha senso urlare alle banche di fare credito all’impresa, peraltro dicendogli anche contemporaneamente di investire in titoli di stato per ridurre il famigerato spread. Come penso chiunque possa intuire essendo la capacità economica finita se i soldi li metti in bot non li presti.

Però, si dirà, la stretta sulle imprese è davvero ogni giorno più insopportabile. Vero, verissimo anzi. Ma non è il generico appello alle banche o il rappresentarle come la mefistotelica quint’essenza del male che risolverà il problema. Sia chiaro le banche hanno enormi responsabilità nella crisi e godono di enormi irresponsabilità nel pagarne i prezzi, ma rispetto al problema di come ridare ossigeno (soldi) alle imprese italiane non è intervenendo retoricamente sulle banche, a mio avviso, che si troverà la soluzione.

Cosa fare allora? Intanto le aziende italiane vantano crediti con le pubbliche amministrazioni o coi grandi gruppi industriali enormi. Passera aveva detto all’insediamento che sarebbe intervenuto. Finora si è fatto poco o niente e persino Alfano se n’è accorto e propone misure che da anni due deputati (un PD e un radicale) propongono all’aula di Montecitorio e che una Direttiva europea imporrebbe al Paese. Intervenire su questo tema con crediti d’imposta, certificazione del debito, persino pagamenti con titoli di stato avrebbe un effetto immediato salvando centinaia di aziende, tecnicamente sane, dal fallimento.

Perché quando sento politici locali, autorevolissimi, vantarsi del fatto che qui da noi le PA pagano con una media di 90 giorni li inviterei a rimanere loro per tre mesi senza stipendio e poi parlare.

Altro tema ormai non più rimandabile è quello della pressione fiscale. Sia quella sul lavoro che quella sui soldi che gli imprenditori potrebbero reinvestire in azienda, lavoro o ricerca, con un effetto moltiplicatore che nessuna riduzione di scoperto di conto corrente potrà mai dare.

Infine, si fa per dire, intervenire sulla selva burocratica e sulla riforma della giustizia civile per rendere il fare impresa in questo paese qualcosa di possibile e conveniente.

Poi prendiamocela pure con le banche brutte e cattive ché i motivi non mancano, ma intanto facciamo ripartire questo Paese.

Dai milionari cinesi un aiuto all’autostima dell’occidente.

Pare che la Cina, anche questa volta, ci sia vicina. Ieri il post oggi alcuni quotidiani riportano la notizia che anche a Pechino si iniziano ad avvertire i primi sintomi della crisi economica che ha già colpito Stati Uniti ed Europa.

Tra gli indicatori un Pil che corre “solo” al 7,5% annuo, meno maiali macellati al giorno ed altri elementi micro e macro economici. Tra questi uno mi ha particolarmente colpito: la fuga dei ricchi cinesi.

Sì perché i milionari cinesi, una moltitudine secondo i nostri standard, pare che decidano sempre più spesso di trasferirsi, famiglia e patrimonio al seguito, fuori dalla Cina in particolare negli Stati Uniti.

Non è un fenomeno recentissimo se è vero che già da un paio di anni le richiese per la green card americane richieste per famiglie cinesi con a garanzia un patrimonio di almeno un milione di dollari sono aumentate a dismisura.

Quello che colpisce, almeno il sottoscritto, non è il dato economico della vicenda ma il suo simbolismo. Per anni ci siamo autoconvinti della Cina come del luogo del futuro. Il posto in cui si sarebbe svolto il cambiamento del mondo. Abbiamo chiamato Shangay la new york del XXI secolo e scritto di tutto su “un continente che si finge una nazione” come se non essere lì, oggi, equivalesse a vivere nel passato a precludersi futuro e ricchezza.

Oggi invece scopriamo che invece i ricchi e facoltosi cinesi pensano che per il loro agiato futuro sia meglio andarsene dalla Cina e trascorrere il resto del loro tempo nell’occidente decadente.

Non so cosa significhi di preciso, di sicuro non significa certo che la Cina sia finita e che non occorra continuare a cercare di capire quel posto o sottovalutare la sua importanza nella politica e nell’economia globale; ma mostra a noi occidentali che la percezione che si ha di noi, della nostra qualità della vita, della nostra cultura, della nostra ricchezza, non è così in declino come ci stiamo autorappresentando.

Se i tra i più ricchi del pianeta le nostre città, le nostre libertà, il nostro modo di vivere e godere sono ancora più attraenti del produrre a qualunque condizione (economica, politica, sociale ed ambientale) forse c’è speranza che questa parte di mondo si rialzi magari anche in fretta e continui a mantenere la propria egemonia sul resto del globo terracqueo.  E magari esporti, con la forza della sua way of life, diritti, democrazia e libertà nel resto del mondo.

 

Ma questi ricchi devono piangere o no?

Ieri Simone Siliani ha risposto, sulle colonne del Nuovo Corriere di Firenze al mio pezzo di giovedi (che potete leggere qui) con un’argomentato articolo in cui teorizza con molti argomenti a favore della redistribuzione della ricchezza. Apparentemente distanti i nostri punti di vista, sono (a scavare un po’) molto più vicini di quello che si pensi. Intanto però leggetevi il pezzo di Simone sul suo blog e buon anno a tutti.

E’ arrivata la manovra, è arrivato il temporale…

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 8 dicembre 2011.

E’ arrivata la manovra, che è un po’ come la bufera che cantava Rascel, quella in cui c’è chi sta bene e chi sta male e chi sta come gli pare.  Nonostante il mantra “tecnico” del rigore e dell’equità anche questa volta, a naso, del primo ne vediamo molto della seconda qualche pezzetto, che è sempre meglio di niente sia chiaro, ma non consola così tanto quando si va a fare il pieno col gasolio aumentato di 11 centesimi. A meno che non si faccia come quel giornalista di sky tg24 che, proprio nel servizio dedicato all’aumento dei carburanti, definiva equa la misura perché colpisce tutti. Certo se si toglie 10 a chi ha 100 si è equi come se si toglie i soliti 10 a chi ha venti. Ma ci faccia il piacere avrebbe detto il Principe De Curtis. E forse un po’ più equi si sarebbe stati a chiedere qualche rinuncia anche a Santa Romana Chiesa, visti i tempi grami per le proprie pecorelle. Pare che persino Verdini, oltre ai soliti radicali, abbia posto il tema, mentre il PD tace e il governo dice che non ha avuto tempo di studiare. Che, se ci pensate bene, è fantastico un governo di professori, che usa la scusa più frequentemente utilizzata dagli scolari di tutto il mondo. Ma la Chiesa vive periodi difficili, va capita: c’è infatti a Prato un parroco che ha chiesto ai propri fedeli di consegnargli i propri “ninnoli” in argento per fonderli e fare un nuovo reliquiario per la sua parrocchia. Speriamo che nel frattempo, vista la crisi, i suoi parrocchiani non abbiano già impegnato tutti i gioielli di famiglia. Invece si è ancora in tempo per essere equi portando sino in fondo la riforma annunciata delle Province. Già perché la data prima anticipata di riforma delle giunte e dei consigli provinciali, fissata al novembre dell’anno prossimo, è scomparsa dal testo del Decreto e rimandata ad un’ulteriore legge che dovrà definire i tempi. Un metodo molto spesso utilizzato per non far di nulla delle cose annunciate. Il senatore Ceccanti (PD) ha proposto di modificare in aula il decreto in corso di conversione inserendo il termine naturale delle consiliature provinciali per avviare la riforma. Una posizione di buonsenso che speriamo le forze politiche, da sempre a parole favorevoli addirittura all’abolizione delle province, voteranno

Come si smacchiano i giaguari in tedesco?

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 01 dicembre 2011

Fossi in Pierluigi Bersani inizierei a chiedermi come si dice “smacchiare la coda ai giaguari” in tedesco, perché come notava giorni fa un amico su facebook, non è un gran problema se i socialisti han perso in Spagna, potrebbero persino riconfermare Sarkozy in Francia ma il tema vero è come far vincere l’SPD in Germania. Già perché è in Germania che la crisi si è arenata e rischia di portare conseguenze ancora più grandi. In fondo sia noi che soprattutto la Grecia abbiamo patito conseguenze più dolorose anche perché in questo anno si è votato a più riprese nei lander tedeschi e la cancelliera Merkel ha subordinato spesso e volentieri decisioni relative al fondo salva stati e più in generale le politiche dell’Unione alle spicciole campagne elettorali interne.

Certo nessun governante è immune all’andamento elettorale casalingo in un sistema in cui la rappresentanza politica e democratica diretta dell’Unione semplicemente non esiste ed è demandata all’accordo degli Stati e troppo tardi ci accorgiamo di quanto avessero ragione quelli che di fronte alla proposta di Costituzione della UE profetizzavano che il non aver, allora, ceduto sovranità ad un Unione politica lo avremmo pagato caro.

Dunque il tema di come riportare al centro del dibattito l’europeismo e di cedere a istituzioni comuni democratiche ed elette direttamente, pezzi di sovranità politica, economica e fiscalità è il tema di una possibile via di uscita dalla crisi che non sia l’imbarbarimento, la fine dell’Euro e quel che appare ancora più temibile il ritorno alle Patrie alle loro alleanze e ai loro interessi confliggenti.

In Germania, anche per il peso ingombrante della propria storia nel XX secolo, l’europeismo è stato un tratto comune delle forze democratiche, spesso anzi più marcatamente evidente nel campo democristiano che in quello socialdemocratico. Oggi non solo il governo Merkel ma l’intera società tedesca avverte come meno importante il legame europeo. Lo provano le molte discussioni alla corte costituzionale sui vincoli esterni alla legislazione di Berlino e i dibattiti sempre più manifesti sulla creazione di un Euro forte che abbandoni i paesi fuori dell’influenza tedesca. Un dibattito che ha ragioni più culturali e politiche che economiche visto che la Germania ha soltanto beneficiato finora dell’unione monetaria e che Berlino esporta nell’area Euro più di chiunque altro al mondo.

Se vogliamo bene all’Europa e anche, di conseguenza al nostro Paese, forse ci dovremo attrezzare a pensare più che alle nostre perenni (e sempre più ininfluenti) campagne elettorali a quella tedesca e fare il tifo perché prevalgano quelle forze, SPD su tutte, che spingono per un una Unione Europea più forte e più democratica.

Non basta Monti per calmare i mercati

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 25 novembre 2011

Il governo apotropaico, il governo amuleto, non c’è. Noi relativisti ne eravamo certi ma oggi probabilmente ne avranno la conferma anche quelli che parlavano (o meglio scrivevano su un bigliettino) di miracolo. Perché il governo Monti in sella già da un po’ di giorni  non ha, per la sola sua presenza, calmato i mercati, abbassato lo spread e fatto crollare il rendimento dei nostri BOT come del resto non avrebbe potuto aprire le acque del Mar Rosso e fatto transitare il suo popolo fuori dall’Egitto. Sono azioni, le prime come la seconda, che si adattano ai profeti non certo ai professori. Dunque il governo Monti e l’intero Paese saranno giudicati per le politiche e le azioni che metteranno in campo e non tanto per la sola presentabilità dei nostri governanti; e non importa un fico secco a chi di numeri vive sapere che il governo sia composto da ottimi accademici piuttosto che da improbabili politici. Certo ne trarranno vantaggio le conversazioni ma i gelidi mercati contano i numeri e non la cultura. Peraltro, sia detto per inciso, solo da noi si confondono i tecnici con gli accademici e solo da noi, disabituati da quasi sempre a vedere la competenza al governo, il fatto di avere gente preparata nei dicasteri viene visto come un fatto nuovo e straordinario.  Quello che attende Monti è la stessa prova che attendeva Berlusconi conciliare rigore e crescita: infatti al fine che la riduzione dell’enorme debito pubblico sia davvero possibile non basta razziare denaro da nuove imposte e balzelli ma occorre anche che il paese ricominci a muoversi (se non a correre) generando ricchezza (tassabile) e occupazione. Se tutto questo è vero, le prime misure che trapelano del nuovo esecutivo, paiono andare nella direzione del rigore piuttosto che in quella dello sviluppo: aumento ulteriore dell’IVA, ICI, possibile patrimoniale, sono misure atte a drenare risorse e, sia detto col massimo rispetto, almeno la prima misura ha poco o punto a che fare con l’equità sociale visto che colpisce molto di più chi ha meno.  Però il governo Monti ha parlato sempre finora di pacchetti di misure e quindi crediamo e speriamo che insieme (e non successivamente) a queste misure siano messe in campo anche azioni come la diminuzione della pressione fiscale su lavoro e redditi reinvestiti o sulla ricerca (vera) in modo da compensare almeno in  parte sia gli imprenditori, che soprattutto i lavoratori. Lo scambio, come paventa qualcuno, tra misure draconiane in economia e diritti civili (cittadinanza agli immigrati e diritto di voto, dico, ecc..) potrebbe forse funzionare sull’opinione pubblica interna e sui ritorni elettorali dei singoli partiti ma, dubitiamo, che avrebbe lo stesso effetto su mercati, economia e soprattutto sui nostri conti.

Le debolezze dei partiti sono la forza di Monti

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 novembre 2011.

C’eravamo raccontati che tra i tanti mali del porcellum questi aveva avuto almeno il merito di semplificare di molto la presenza dei partiti in parlamento. In realtà le interminabili consultazioni che hanno portato alla nascita del governo Monti hanno mostrato che la frammentazione del sistema politico era solo nascosta non scomparsa.

In fondo tutto questo avviene anche in sistemi più maturi del nostro, persino nella patria del bipolarismo come la Gran Bretagna i tre principali partiti al loro interno rappresentano istanze e particolarismi i più vari, tuttavia sono istanze e reti d’interessi territoriali legati al collegio in cui il parlamentare viene eletto mentre da noi sia ha qualcosa di più dell’impressione che gli interessi rappresentati da questi minuscoli gruppi siano quelli degli stessi soggetti coinvolti o al massimo dei loro parenti e sodali.

Così abbiamo visto salire al Quirinale o a Palazzo Giustiniani improbabili referenti di altrettanto improbabili partiti politici. Tra gli altri Riccardo Nencini, caso assolutamente diverso sia chiaro, che grazie al passaggio all’ultimo tuffo di Vizzini dal PdL alla componente socialista nel gruppo misto, è potuto recarsi a Roma ed essere audito. Va dato atto al segretario del PSI che almeno si è presentato a Monti con un edizione del Boccaccio ma non del Decamerone, come invece avrebbe forse apprezzato il predecessore, ma dei trattati geografici, per aiutarlo a trovare il cammino.

Altro tenore devono aver avuto le consultazioni dei gruppi meridionalisti provenienti dal PdL i quali, probabilmente non sapendo che dire, hanno segnalato la necessità, al candidato allora incaricato, di inserire ministri meridionali nel prossimo governo. Pare che il professore abbia risposto loro, mantenendo la solita flemma, “aspettavo voi…”.

Un cambio di stile che prelude a un cambio di sostanza come dimostra la scelta dei ministri, di sicuro Monti sa bene che i veti dei partiti più grandi rappresentano un problema e un anticipazione delle difficoltà parlamentari che il suo governo potrebbe incontrare. Ma sono anche un elemento da cui potrà trarre forza giocando sulle divisioni e le fratture interne agli stessi due principali partiti. Infatti da un lato il PdL appare in grosse difficoltà e pare avere come unico collante il solito Berlusconi, quasi costretto suo malgrado e non potersi ritirare, dall’altra parte il PD ha dimostrato in questa vicenda di non aver un nome interno del profilo tecnico che mettesse d’accordo le anime interne oltre una pregiudiziale, nel caso di Amato, contro quei riformisti che non vengono dalla due anime principali del PD. Problemi di lungo periodo che scorreranno talvolta sottotraccia, talvolta in modo evidente nel corso della tortuosa avventura del governo Monti che va a cominciare.

Un governo sull’orlo di una crisi di nervi.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 22 settembre 2011.

Proviamo a ricapitolare. Un agenzia di rating delle tre che a livello mondiale fanno, come si dice, il mercato ha declassato il debito pubblico italiano. Lo ha fatto basandosi su dati noti, riconosciuti da tutti gli attori in campo. Anzi molti dei dati su cui Standard & Poor’s ha basato il suo giudizio sono dati forniti proprio dal governo italiano. In sintesi S&P ha detto che le previsioni di crescita dell’Italia già basse risentiranno delle misure introdotte dal governo nell’ultima manovra e del clima generale che attraversa l’Europa. Come dice, tra gli altri, il Ministero dell’Economia e la Banca d’Italia. La stessa agenzia ha poi notato che la situazione dell’esecutivo non rende presumibili riforme strutturali, come dicono le dichiarazioni di Bossi, Tremonti e Berlusconi da luglio ad oggi. Tutte cose note e stranote come il fatto che le agenzie di rating avrebbero declassato il debito italiano. Talmente note che i mercati non hanno fatto una piega, anzi i mercati hanno ritenuto le stime di S&P addirittura ottimistiche: infatti lo spread tra debito tedesco e quello italiano o i CDS (le polizze assicurative contro il rischio fallimento di un Paese) sono analoghi a quelli di Paesi con un rating molto più basso della A che ci ritroviamo.

Se questa ricostruzione è corretta appare quindi ancora più fuori luogo e segno di un evidente stato confusionale la reazione dell’esecutivo italiano di fronte al declassamento. Infatti Palazzo Chigi alle ore 8.46 del mattino ha emesso un comunicato in cui, sostanzialmente, dava la colpa del declassamento ai retroscena dei giornali e ad una manovra politica. Che poi ce li vediamo proprio questi analisti di Standard & Poor’s scendere all’edicola di wall street e comprare il Fatto quotidiano e Repubblica e dare un colpo di telefono a Vendola e Bersani per farsi correggere le bozze del report.

Se la situazione non fosse tragica ci sarebbe poi da applaudire al governo quando dice che la maggioranza è solida e il governo non ha problemi in parlamento nel giorno in cui l’esecutivo va sotto in aula non una ma cinque volte.  Eppure sarebbe bastata una semplice e sobria reazione. Dire che il declassamento, in una fase come questa era possibile, che non è la fine del mondo e che ce la metteremo tutta per recuperare. Quello che ha detto a tarda sera il Presidente Napolitano.

Se radio Londra non trasmette più

Dal Nuovo Corriere del 8 settembre 2011.

Oggi, come nel 1943, l’Italia è il ventre molle dell’Europa. Allora lo era come favorevole secondo fronte, fortemente sostenuto dai britannici, da offrire all’assediato Stalin, oggi lo è in un attacco all’Euro e alla politica economica europea. Allora inglesi e americani si trovarono a Casablanca e decisero l’invasione della Sicilia che ebbe anche come corollario non proprio felice, l’attivazione della rete della mafia italo-americana di New York per costituire teste di ponte favorevoli agli alleati nell’isola.

Oggi nessun vertice ha programmato l’invasione ma nessuno dubita che il nostro paese sia sotto attacco finanziario ed oggi come allora nessuno nutre grosse speranze che le nostre truppe possano resistere. Non certo dopo 4 manovre (ma il conto è probabilmente errato per difetto) in meno di un mese e una classe di governo incapace di articolare una frase di senso compiuto figurarsi delle misure economiche e finanziarie. Tanto che temo che il testo finale della manovra assomiglierà a quelle composizioni futuriste fatte di Zang,bam, bum, zang. Questa volta poi non c’è neanche l’”alleato” germanico che pare invece usare (con scarso successo) la retorica anti-italiana per propri fini elettorali interni.

E soprattutto manca la perfida Albione. Chi scrive si è convinto che tanti dei problemi che attraversa l’Europa oggi derivino anche dalla ancora più accentuata politica euroscettica britannica. Una politica tradizionale, attenuatasi nei primi anni del blairismo e poi ripresa dagli stessi laburisti alla fine del loro ciclo e teorizzata e ampiamente praticata dal governo conservatore-liberale di David Cameron. Non abbiamo controprova ma l’assenza britannica a controbilanciare l’asso franco-tedesco si è sentita e si sente molto. Parigi e Berlino hanno svolto una funzione propositiva e di salvaguardia quando erano governati da forze politiche, uscite dalla seconda guerra mondiale, che portavano nel proprio ricordo personale cosa avessero prodotto gli interessi nazionali. Non che questo avesse impedito una CEE prima e una UE dopo dove i governi la facessero da padroni, ma nel quadro di elementi valoriali forti e condivisi. In quel contesto la Gran Bretagna, seppur sempre fortemente euroscettica, ebbe comunque un ruolo, prima di dama da corteggiare per entrare nella comunità, poi di ponte e “garanzia” coi cugini atlantici, che seppur fossero “due popoli divisi dalla stessa lingua” come diceva Oscar Wilde, erano soliti prestare attenzione e fede a quanto Londra diceva o faceva.

Per questo spero con forza che almeno il Next LAbour di Ed Milliband riaccenda, fosse anche timidamente, un ragionamento sull’Europa nel suo appuntamento di Liverpool, ne avremmo da guadagnare, come già nel 1943, per primi noi italiani.