L’orizzonte lungo dell’innovazione francese

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Dalla scorsa settimana ho iniziato una collaborazione con la testata online www.soldiweb.com. Questo il secondo articolo publicatomi.

Mentre qui da noi l’orizzonte politico ha il respiro di qualche settimana, tra la scadenza dell’Imu, il congresso del PD e, al massimo il semestre europeo, i nostri cugini francesi, nonostante un presidente ed un governo che faticano molto ad andare avanti, hanno impostato una serie di piani di lungo respiro che hanno come intento quello di recuperare il gap con i paesi più innovativi e…

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Se le banche non prestano, io do ragione alle banche.

Oggi mi sa che scriverò una cosa che non piacerà a molti. Perché oggi di fronte alla cacofonia di quelli che si indignano (uno degli stati umani più sterili ormai) di fronte alle banche che non farebbero il loro lavoro, non prestando soldi alle imprese, io, scusatemi, mi schiero dalla parte delle banche.

Perché non prestando soldi a imprese sempre più a rischio (questo dice il bollettino della BCE quando parla di insolvibilità delle imprese italiane) le banche fanno proprio il loro mestiere: tutelare il risparmio raccolto, cioè i nostri soldi.

Perché li vorrei vedere gli indignati se scoprissero che i loro risparmi non ci sono più perché la loro banca ha prestato soldi a imprese non in grado di onorare i prestiti.

Proprio la genesi di questa crisi sta nel fatto che le banche (americane ma non solo) hanno prestato a cani e porci senza alcuna garanzia o gonfiando il valore delle garanzie (mobiliari ma soprattutto immobiliari).

Di fronte a questo non ha senso urlare alle banche di fare credito all’impresa, peraltro dicendogli anche contemporaneamente di investire in titoli di stato per ridurre il famigerato spread. Come penso chiunque possa intuire essendo la capacità economica finita se i soldi li metti in bot non li presti.

Però, si dirà, la stretta sulle imprese è davvero ogni giorno più insopportabile. Vero, verissimo anzi. Ma non è il generico appello alle banche o il rappresentarle come la mefistotelica quint’essenza del male che risolverà il problema. Sia chiaro le banche hanno enormi responsabilità nella crisi e godono di enormi irresponsabilità nel pagarne i prezzi, ma rispetto al problema di come ridare ossigeno (soldi) alle imprese italiane non è intervenendo retoricamente sulle banche, a mio avviso, che si troverà la soluzione.

Cosa fare allora? Intanto le aziende italiane vantano crediti con le pubbliche amministrazioni o coi grandi gruppi industriali enormi. Passera aveva detto all’insediamento che sarebbe intervenuto. Finora si è fatto poco o niente e persino Alfano se n’è accorto e propone misure che da anni due deputati (un PD e un radicale) propongono all’aula di Montecitorio e che una Direttiva europea imporrebbe al Paese. Intervenire su questo tema con crediti d’imposta, certificazione del debito, persino pagamenti con titoli di stato avrebbe un effetto immediato salvando centinaia di aziende, tecnicamente sane, dal fallimento.

Perché quando sento politici locali, autorevolissimi, vantarsi del fatto che qui da noi le PA pagano con una media di 90 giorni li inviterei a rimanere loro per tre mesi senza stipendio e poi parlare.

Altro tema ormai non più rimandabile è quello della pressione fiscale. Sia quella sul lavoro che quella sui soldi che gli imprenditori potrebbero reinvestire in azienda, lavoro o ricerca, con un effetto moltiplicatore che nessuna riduzione di scoperto di conto corrente potrà mai dare.

Infine, si fa per dire, intervenire sulla selva burocratica e sulla riforma della giustizia civile per rendere il fare impresa in questo paese qualcosa di possibile e conveniente.

Poi prendiamocela pure con le banche brutte e cattive ché i motivi non mancano, ma intanto facciamo ripartire questo Paese.

Dai milionari cinesi un aiuto all’autostima dell’occidente.

Pare che la Cina, anche questa volta, ci sia vicina. Ieri il post oggi alcuni quotidiani riportano la notizia che anche a Pechino si iniziano ad avvertire i primi sintomi della crisi economica che ha già colpito Stati Uniti ed Europa.

Tra gli indicatori un Pil che corre “solo” al 7,5% annuo, meno maiali macellati al giorno ed altri elementi micro e macro economici. Tra questi uno mi ha particolarmente colpito: la fuga dei ricchi cinesi.

Sì perché i milionari cinesi, una moltitudine secondo i nostri standard, pare che decidano sempre più spesso di trasferirsi, famiglia e patrimonio al seguito, fuori dalla Cina in particolare negli Stati Uniti.

Non è un fenomeno recentissimo se è vero che già da un paio di anni le richiese per la green card americane richieste per famiglie cinesi con a garanzia un patrimonio di almeno un milione di dollari sono aumentate a dismisura.

Quello che colpisce, almeno il sottoscritto, non è il dato economico della vicenda ma il suo simbolismo. Per anni ci siamo autoconvinti della Cina come del luogo del futuro. Il posto in cui si sarebbe svolto il cambiamento del mondo. Abbiamo chiamato Shangay la new york del XXI secolo e scritto di tutto su “un continente che si finge una nazione” come se non essere lì, oggi, equivalesse a vivere nel passato a precludersi futuro e ricchezza.

Oggi invece scopriamo che invece i ricchi e facoltosi cinesi pensano che per il loro agiato futuro sia meglio andarsene dalla Cina e trascorrere il resto del loro tempo nell’occidente decadente.

Non so cosa significhi di preciso, di sicuro non significa certo che la Cina sia finita e che non occorra continuare a cercare di capire quel posto o sottovalutare la sua importanza nella politica e nell’economia globale; ma mostra a noi occidentali che la percezione che si ha di noi, della nostra qualità della vita, della nostra cultura, della nostra ricchezza, non è così in declino come ci stiamo autorappresentando.

Se i tra i più ricchi del pianeta le nostre città, le nostre libertà, il nostro modo di vivere e godere sono ancora più attraenti del produrre a qualunque condizione (economica, politica, sociale ed ambientale) forse c’è speranza che questa parte di mondo si rialzi magari anche in fretta e continui a mantenere la propria egemonia sul resto del globo terracqueo.  E magari esporti, con la forza della sua way of life, diritti, democrazia e libertà nel resto del mondo.

 

Il riscatto del lavoro

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 maggio 2011.

Siamo davvero certi che il tema del lavoro, della sua rappresentanza e del suo rapporto con la sinistra sia tutto riassumibile nelle polemiche di questi giorni? O che la maggiore manifestazione simbolica di attenzione da parte dei sindacati confederali nei confronti dei giovani possa essere il “concertone” del primo maggio?

E il grande dibattito sull’organizzazione del lavoro scaturito dagli accordi di Melfi e Mirafiori dov’è finito? Ci è bastata l’ipocrita dichiarazione finale in cui si diceva che la FIAT fa storia a sé, buona per giustificare sia chi ha firmato gli accordi, sia chi non li ha firmati e pure Confindustria abbandonata da FIAT. Eppure una generazione intera che passa dall’incertezza di un lavoro all’altro, che non ha idea di come pianificare il proprio futuro si aspetterebbe altro.

Altro anche da una discussione ideologica sulle aperture nei dì di festa, volutamente provocatoria in chi la propone (altrimenti si sarebbero scelte sia festività religiose che civili) e nelle argomentazioni di chi la difende in una città sì e in 10 no.

Servirebbe, chiederemmo noi trentenni, qualcosa di più anche del successivo strascico su chi guadagna di più tra politici e sindacalisti, interessandoci molto di più quanto poco guadagniamo noi lavoratori rispetto ai nostri coetanei europei.

Ci piacerebbe che a questo si sostituisse un dibattito sugli ammortizzatori sociali, sull’indennità di disoccupazione e sui contributi silenti che lo Stato si intasca anche se non riusciremo a maturare una pensione. Ma anche sul sostituto d’imposta che obbliga gli imprenditori a fare un lavoro che non è loro, aumentando i costi e diminuendo la competitività, della tassazione che fa si che le imprese spesso lavorino fino ad agosto per lo Stato e da settembre per sé, oppure sulle trattenute sindacali, chiedendo che non sia una volta per tutte, ma come ogni adesione a qualsiasi altra associazione sia su base annuale e volontaria. Magari servirebbe a inserire anche un po’ di competitività e di attenzione verso i propri iscritti.

E ci piacerebbe non sentire più da importanti imprenditori, che dovrebbero assumere incarichi associativi a Firenze tra breve, che il motivo del nanismo delle nostre imprese è dovuto all’articolo 18, quando invece ha molto più a che fare col modello dinastico/familiare della nostra imprenditoria e con un sistema che, in alto, ha favorito i soliti pochi uccidendo (con mezzi più o meno leciti) chiunque provasse a farsi grande.

E infine ci piacerebbe che si ragionasse in termini di occupazione e costruzione di profitto quando un gruppo internazionale acquista una nostra impresa, invece di dare l’impressione di discutere di italianità più in termine di poltrone e di interessi per i grandi manager e di chiedere di difendere la proprietà italiana sempre con soldi pubblici quasi mai con investimenti privati. Magari scopriremmo che il gruppo francese che acquisterà Parmalat consuma più latte italiano di quanto ne consumi oggi Parmalat stessa.

Insomma ci piacerebbe che, nei negozi aperti per il primo maggio, si fosse potuto parlare di lavoro e prospettive piuttosto che dell’ennesimo muro contro muro.