Il riscatto del lavoro

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 maggio 2011.

Siamo davvero certi che il tema del lavoro, della sua rappresentanza e del suo rapporto con la sinistra sia tutto riassumibile nelle polemiche di questi giorni? O che la maggiore manifestazione simbolica di attenzione da parte dei sindacati confederali nei confronti dei giovani possa essere il “concertone” del primo maggio?

E il grande dibattito sull’organizzazione del lavoro scaturito dagli accordi di Melfi e Mirafiori dov’è finito? Ci è bastata l’ipocrita dichiarazione finale in cui si diceva che la FIAT fa storia a sé, buona per giustificare sia chi ha firmato gli accordi, sia chi non li ha firmati e pure Confindustria abbandonata da FIAT. Eppure una generazione intera che passa dall’incertezza di un lavoro all’altro, che non ha idea di come pianificare il proprio futuro si aspetterebbe altro.

Altro anche da una discussione ideologica sulle aperture nei dì di festa, volutamente provocatoria in chi la propone (altrimenti si sarebbero scelte sia festività religiose che civili) e nelle argomentazioni di chi la difende in una città sì e in 10 no.

Servirebbe, chiederemmo noi trentenni, qualcosa di più anche del successivo strascico su chi guadagna di più tra politici e sindacalisti, interessandoci molto di più quanto poco guadagniamo noi lavoratori rispetto ai nostri coetanei europei.

Ci piacerebbe che a questo si sostituisse un dibattito sugli ammortizzatori sociali, sull’indennità di disoccupazione e sui contributi silenti che lo Stato si intasca anche se non riusciremo a maturare una pensione. Ma anche sul sostituto d’imposta che obbliga gli imprenditori a fare un lavoro che non è loro, aumentando i costi e diminuendo la competitività, della tassazione che fa si che le imprese spesso lavorino fino ad agosto per lo Stato e da settembre per sé, oppure sulle trattenute sindacali, chiedendo che non sia una volta per tutte, ma come ogni adesione a qualsiasi altra associazione sia su base annuale e volontaria. Magari servirebbe a inserire anche un po’ di competitività e di attenzione verso i propri iscritti.

E ci piacerebbe non sentire più da importanti imprenditori, che dovrebbero assumere incarichi associativi a Firenze tra breve, che il motivo del nanismo delle nostre imprese è dovuto all’articolo 18, quando invece ha molto più a che fare col modello dinastico/familiare della nostra imprenditoria e con un sistema che, in alto, ha favorito i soliti pochi uccidendo (con mezzi più o meno leciti) chiunque provasse a farsi grande.

E infine ci piacerebbe che si ragionasse in termini di occupazione e costruzione di profitto quando un gruppo internazionale acquista una nostra impresa, invece di dare l’impressione di discutere di italianità più in termine di poltrone e di interessi per i grandi manager e di chiedere di difendere la proprietà italiana sempre con soldi pubblici quasi mai con investimenti privati. Magari scopriremmo che il gruppo francese che acquisterà Parmalat consuma più latte italiano di quanto ne consumi oggi Parmalat stessa.

Insomma ci piacerebbe che, nei negozi aperti per il primo maggio, si fosse potuto parlare di lavoro e prospettive piuttosto che dell’ennesimo muro contro muro.

Il concetto del favore

L’aggressione a Bonanni avvenuta alla festa nazionale del PD di Torino è certamente un fatto grave, esecrabile, da non sottovalutare.

Tuttavia la lettura maggioritaria dei commenti all’episodio da’ un interpretazione circa “l’utilità” del gesto operato dagli esponenti dei centri sociali torinesi.  Soprattutto a sinistra si è affermato che l’attacco di Torino avrebbe, di fatto, favorito la destra e indebolito la sinistra e i lavoratori. Un modo di vedere le cose che ricorda più un riflesso pavloviano che un vero e proprio ragionamento. Infatti questa argomentazione, per certi versi giusta si badi bene, presuppone che i soggetti rappresentati nell’aggressione giochino tutti la stessa partita. In realtà non è così, gli estremisti che hanno aggredito Bonanni, non giocano secondo le categorie Pd/PdL contestano quel sistema non una sua parte. Dunque il gioco del cui prodest non può essere a loro imputato, anzi il fatto che la loro azione non giovi alla sinistra istituzionale finisce per essere un corollario positivo all’azione anche se magari non cercato direttamente. Rivolgersi a loro con funzione pedagogica non ha effetto alcuno, perchè il ragionamento dell’estremismo è estraneo al sistema di ragionamento che adotta la sinistra istituzionale. Rischia invece di suonare indulgente nei loro confronti (come l’intervista al padre della ragazza che la dipinge quasi come una boyscout dei centri sociali), al pari dello sciagurato “compagni che sbagliano” di tremenda memoria. Serve, oltre alla condanna del gesto, capire che la contrapposizione, il conflitto, riguardano il sistema, la politica, e non lo schieramento, la parte politica; che inpedire ulteriori salti di qualità necessita, oltre che di servizi d’ordine, di risposte politiche ai disagi che quell’estremismo nutrono e/o usano come alibi.

Sbagliare le analisi per fatica e consuetudine è un buon modo di peggiorare le cose, cercare di fermarsi a capire un salutare esercizio e spesso l’unico modo di cambiare le cose.