Foto e racconti da Kyiv

Sono andato a vedere la mostra di Massimo Listri – Firenze Kyiv andata e ritorno (Sala d’arme di Palazzo Vecchio fino all’8 marzo) – mentre leggevo Diario di un’invasione di Andrei Kurkov (Keller editore) e l’effetto stereofonico di immagini e libro mi è rimbombato dentro in modo nettissimo.

Partiamo dalla mostra. Listri ha fotografato Kyev in guerra ma le immagini che troverete visitando la mostra sono ben diverse da quelle che potreste aspettarvi da un teatro bellico. Listri fotografa bellezze, artistiche e architettoniche. Le sue sono immagini colorate, che riportano il gusto un bel po’ barocco dell’architettura pubblica presovietica, delle chieste ortodosse. Ma anche il brutalismo sovietico, come nel caso della biblioteca nazionale di Kiev, abbellito da una pittura muraria anch’essa coloratissima al pari delle vetrate delle cattedrali. Qua e là, nelle foto, la guerra però appare. Sotto forma di sacchi di sabbia, per esempio, nella foto della scala d’onore del palazzo presidenziale.

Ai miei occhi Listri fotografa quello che non vorremmo perdere, quello che stiamo difendendo e che dovremmo difendere. Un punto di vista capovolto rispetto alle di distruzione, sventramento e tragedia che siamo soliti associare alle foto scattate in zone di conflitto. Non il bello che ci salverà ma quello da salvare. L’effetto è amplificato (come le videoproiezioni immense alle pareti della Sala d’Arme) dal luogo in cui siamo. Lo nota mio figlio. Il contrasto dei palazzi del potere ucraini minacciati e il luogo del “potere” della mia città, che non avrei mai immaginato, fino a due anni fa, potesse essere minacciato da una guerra; mentre oggi il pensiero, con annesso brivido, mi prende.

Veniamo quindi al libro. Sono le note che lo scrittore ucraino, di doppio passaporto inglese, ha redatto appena prima e subito dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022. Note in cui la guerra, prima minacciata, poi reale, irrompe in una quotidianità così simile alla nostra: la polemica, proprio nel febbraio del 2022, sulla riforma dei menù delle mense scolastiche, mentre centinaia di migliaia di russi incombono alle frontiere; i gruppi facebook sulla birra che arriva nella bottega del Paese, dove l’autore ha una casa di campagna, mentre lui è sfollato al confine occidentale del Paese e i razzi russi devastano larga parte della nazione.

Come si può vivere sotto un’invasione, con le bombe che fischiano, con la paura per sé e per i suoi cari. Come possiamo immaginare, anche qui, l’inimmaginabile per noi almeno fino a quel febbraio di 2 anni fa.

Ma anche domandarsi come si farà a ridurre tutto l’odio che da allora si è creato, cosa potrà essere, quando sarà, la pace.

La guerra in Ucraina, non è più speciale o più importante di altre, ma forse è la più “trasferibile” per noi (di sicuro per me), per la similitudine di luoghi e situazioni. Questo dovrebbe forse spingerci a capire il senso di minaccia che si porta dietro e il senso di un impegno a difesa di Kyiv da un lato e dall’altro lato, dovrebbe consentirci di trasportare questa urgenza anche sugli altri conflitti in corso, a partire da quello mediorientale, per annullare, almeno, l’indifferenza.

Articolo apparso sul CulturaCommestibile n.521 del 17 febbraio 2024

Le città postpandemiche

Parigi – urban farm

Per anni dietro le mie spalle, nel mio ufficio di allora, ho avuto un manifesto (se non ricordo male era dell’ARCI) con il motto medievale tedesco: “l’aria delle città rende liberi”. Ci ripensavo in questi mesi di pandemia quando l’aria delle città – più correttamente degli sprawl – appare quella meno salubre e più feconda per la trasmissione del virus. Ragionamenti che anche sociologi, urbanisti, amministratori, stanno provando a fare, approfittando del virus come occasione di ripensamento e ridisegno degli spazi del nostro abitare.

Non tanto come metodo di lotta al virus, si spera che i tempi di cura del COVID non siano quelli medi del ridisegno delle nostre città ma molto, molto, più rapidi, piuttosto un ripensamento che va in direzione di una sostenibilità ambientale e come precauzione per le prossime crisi, non necessariamente pandemiche, che come ci insegna David Quammen in Spillover ci troveremo, anche a causa del nostro sviluppo ad affrontare. Mentre qui da noi si oscilla tra archistar che blaterano di un ritorno ai piccoli borghi, amministratori che aborrono lo smart working per non far chiudere il baretto sotto la Regione e un generale senso di “add’ha passà a nuttata”, nel resto del mondo qualcosa si muove in direzioni diverse e interessanti. Rispondendo ad una intervista del Sole 24 ore del settembre scorso Richard Florida, l’urbanista guru della società della conoscenza che tanto ha plasmato gli anni dell’ottimismo obamiano, ha riletto la sua concezione di egemonia della classe creativa alla luce del COVID-19. Fine delle metropoli, ritorno alla media dimensione urbana. Va considerato che Florida parla del contesto americano e quelle che lui considera grandi città non sono certo le dimensioni delle nostre cittadine italiane. Dunque paradossalmente i nostri centri urbani potrebbero partire avvantaggiati rispetto a questa nuova fase. Anche perché il secondo elemento che Florida ritiene determinante nella città post pandemica è la piazza. Istituzione italiana per eccellenza, che non viene declinata al virtuale ma proprio come spazio di aggregazione e, perché no, di lavoro, legata allo smart working.

Inutile dire che la riflessione di Florida, così come la sua teoria più famosa, affronta il livello medio alto della società, quello che può telelavorare, quello che è sopravvissuto alla rivoluzione dell’ICT e che sopravviverà alla rivoluzione della robotica. Noi invece qualche problema su come sopravviveranno, anche in termini urbanistici, i milioni di lavoratori poco o per nulla qualificati nel processo di espulsione della loro forza lavoro ad opera dei robot vorremmo provare a porlo. Magari con soluzioni non troppo diverse, possibilmente, di quelle immaginate per la parte ricca (di soldi e di conoscenza) della popolazione.

Anche in Canada, precisamente in Québec, il tema è stato affrontato. Le smart city, il lavoro che cambia, le nuove generazioni iperconnesse erano alcuni dei temi della MTL Connect che si è svolta, per larga parte online, la scorsa settimana. In questo caso siamo già a i primi ripensamenti ad un ridisegno delle smart cities a partire dal fallimento di Toronto Google city.

Anche da questa parte dell’oceano però non si sta con le mani in mano. La città di Parigi ha iniziato il percorso di ridisegno del proprio strumento di programmazione urbanistica, ponendosi (prima del COVID) l’obbiettivo di un piano a bilancio ambientale positivo. Per cui dal consumo di suolo si passa alla restituzione di verde e aree umide in misura maggiore a quelle in cui si continuerà a colare cemento.

All’interno di questo processo, che prevede anche interessanti esercizi di democrazia partecipativa, Le Monde ha dedicato lo scorso 16 ottobre due pagine agli interventi di due urbanisti ed una sociologa sul tema del nuovo PLU (Plan Local d’Urbanisme). Ebbene tutti e tre gli interventi andavano nella direzione di Florida, del superamento della scala urbana della rottura della continuità del costruito. Più radicale, anche nella critica, l’urbanista Albert Levy che poneva come efficace non il limite della città (stiamo comunque parlando di Parigi) e nemmeno quello dell’aria ad essa confinante ma quello dell’intera regione parigina. Parlando in termini di difesa dai cambiamenti climatici, in particolare del surriscaldamento urbano, anche in termini sanitari. Scrive Levy: “lottare contro l’isola di calore urbano ed i suoi effetti sanitari deleteri deve divenire l’obiettivo prioritario dell’urbanistica bioclimatica, rinforzando il posto della natura nella città: ripiantare verde e alberi lungo le strade e nelle piazze, diversificare la vegetazione, rendere verdi facciate e tetti, sviluppare l’agricoltura urbana, gli orti comuni, i parchi, le trame verdi e blu, bloccare l’artificializzazione del suolo, demineralizzare il suolo, favorire l’infiltrazione naturale della pioggia, incoraggiare la fitoterapia, manutenere i corsi d’acqua”. Sono questi gli assi dello sviluppo urbanistico di Parigi, che però se vuole avere un senso deve avvenire a livello di scala regionale, avendo poco senso un salotto verde attorniato da banlieue cementificate, aeroporti intercontinentali e fabbriche inquinanti. Rompere il tessuto urbano, ridare soluzioni di continuità ad un tessuto che si è espanso senza fine e senza senso.

Queste le tesi anche di Agnés Sinaï e di Antoine Grumbach che vanno entrambi nella direzione della fine dell’urbanistica della congestione, la prima, e di una forse utopica riscoperta del territorio e della sua gestione armoniosa per il secondo.

Comunque il punto di fondo è la fine della megalopoli come modello di sviluppo, un ritorno a rotture tra città e campagna con quest’ultima fortemente collegata da infrastrutture tecnologiche e materiali ad impatto però ridotto.

Uno scenario che potrebbe vedere l’Italia e in particolare quel territorio centrale che va dagli Appennini alla Capitale come un unico scenario di sviluppo di queste nuove competenze, di un modello bioclimatico a cui si aggiungerebbero le bellezze architettoniche, artistiche, storiche e paesaggistiche ed un modello di sviluppo economico diffuso, ridisegnando e sostenendo in infrastrutturazione, ricerca e sviluppo il tessuto di medie e piccole imprese.

Potremmo essere capofila di un modello di sviluppo che per le parti più avanzate del pianeta vorrebbe dire cambio traumatico di traiettoria, mentre per noi, prosecuzione di un cammino millenario. Potrebbe, a patto di non limitare l’ottica ai dehors dei bar e ristoranti oramai vuoti, al museo da tornare a riempire e alla ZTL da perforare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile.com n. 374 del 24 ottobre 2020

Usare lo Stadio per ridisegnare la Piana.

Cosa accadrebbe se il nostro fornaio, una volta ogni 15 giorni, per far ben respirare il suo lievito madre, con cui fa quelle pagnotte che ci piacciono tanto, bloccasse la strada dove abitiamo costringendoci a faticose deviazioni, a parcheggi difficilissimi o a dover uscire da casa a orari impossibili per evitare il blocco? Probabilmente alla seconda volta che il fornaio interrompesse la strada chiederemmo l’intervento dei vigili e pretenderemmo da loro di sgombrarci la strada per la nostra casa. Eppure tutto questo avveniva ogni 15 giorni al Campo di Marte quando allo Stadio Franchi giocava la Fiorentina nell’epoca pre covid. Non che a porte chiuse non ci siano disagi se il post con cui il Comune annuncia le deviazioni alla mobilità per le attuali partite a porte chiuse non ci sta in un unico screenshot del telefonino.  Disagi che si ripetono ogni 15 giorni perché, lo dico tristemente da tifoso viola, la squadra da anni è quel che è e non si giocano le coppe europee, altrimenti la frequenza e i disagi (giocando nel mezzo della settimana) sarebbero maggiori.

Pochi si ricordano, per fortuna mi viene da dire, che ben prima della conferenza al Four Seasons dei Della Valle, nel 2008, fu una presa di posizione del Consiglio Comunale – a firma del sottoscritto, di Alberto Formigli e Dario Nardella, allora segretario, capogruppo dei DS il partito di maggioranza relativa e presidente della commissione cultura – a porre il tema dello spostamento dello stadio dal Campo di Marte. Lo facemmo in occasione della discussione del Piano Strutturale, partendo dall’assunto che lo stadio lì non consente, strutturalmente, l’ordinato dispiegarsi delle altre funzioni. Cosa che sarebbe considerata inaccettabile, in primis dai residenti della zona, in qualunque altra città del mondo.

Quello che è accaduto dopo è noto, con gli anni dei Della Valle in cui ho sempre avuto l’impressione, dal giorno della “presentazione” al Four Seasons in poi, che si giocasse una sfida a chi rimaneva col cerino in mano, su chi avrebbe detto di no al nuovo stadio, tra la proprietà della squadra e l’amministrazione comunale.

Con l’arrivo di Commisso però le cose sono parse muoversi verso una più chiara e determinata volontà dell’imprenditore privato, riaprendo anche la possibilità di un restyling del Franchi che rappresenta certo una sfida interessantissima sul piano architettonico ma non sposta di una virgola, oggi come 12 anni fa, le problematiche urbanistiche di un quadrante denso di residenza, schiacciato sulle colline e senza prospettive di nuova viabilità a supporto. Anche la proposta avanzata su queste colonne da Gianni Biagi pur prevedendo un ridisegno complessivo dell’area di Campo di Marte e quindi dando risposta non soltanto con un nuovo impianto ai bisogni della Fiorentina e dei tifosi ma anche, almeno in parte, a quelle dei residenti, non appare complessivamente in grado di risolvere lo stadio nel mezzo di un quartiere residenziale densamente popolato.

Oltre a questo ridiscutere del Franchi perché soluzione gradita al soggetto privato mentre il soggetto pubblico, da tre amministrazioni, ha discusso e deciso di trasferire la funzione altrove, andrebbe nella direzione opposta a quella che dovrebbe essere la potestà pubblica del governo del territorio e ben oltre quell’”urbanistica contrattata” che fu ampiamente contestata (e mi si permetta di dire che era cosa assai diversa) una decina di anni fa da chi oggi questa città governa. In questo senso il metodo che propone Gianni e prima di lui Domenici di una società di scopo per costruire e gestire l’impianto rappresenta un punto di equilibrio e di innovazione tra pubblico e privato da perseguire in ogni soluzione scelta.

Anche l’argomento che non si può spostare lo stadio perché poi non si saprebbe cosa fare del Franchi appare un argomento che sancisce il fallimento del pubblico e della sua capacità programmatoria e di ideazione, attrazione e governo delle funzioni. Tanto è vero che sempre su queste colonne sia Biagi che Andrea Bacci hanno ipotizzato funzioni assolutamente compatibili e qualificanti per il vecchio impianto. Se si fosse ragionato con l’idea di non saper che fare dei contenitori dismessi avremmo ancora l’Università in via Laura, il Tribunale in San Firenze e la scuola dei Carabinieri in Santa Maria Novella.

Tuttavia, con buona pace del dibattito che questa rivista e la città hanno intrapreso, è probabile dopo 10 anni di programmazione, ideazione, bandi, localizzazioni impossibili come la Mercafir, che non sarà sulla base di un ragionamento sulla bontà della collocazione per rispondere al bisogno “stadio” che l’impianto si farà o meno al Franchi a Campo di Marte o a Campi, ma sarà sulla base della convenienza del costo dei terreni che il soggetto privato, legittimamente, farà e sulla rapidità di esecuzione di un progetto che Firenze ha annunciato per tre amministrazioni ma mai avviato.

A me pare dunque che oltre ai meriti urbanistici, vista la non volontà di praticamente nessuno di tornare all’ipotesi di Castello, la possibilità di costruire il nuovo stadio a Campi Bisenzio sia quella oggi che ha maggiori vantaggi di realizzabilità. Una scelta che avrebbe il vantaggio di costruirsi su un’area meno carica di funzioni ma che, proprio per questo, imporrebbe costi più elevati per realizzare le infrastrutture di mobilità, soprattutto su ferro, per rendere fruibile in modo sostenibile lo stadio. Un prezzo elevato che il pubblico potrebbe in parte sostenere, a mio avviso, sia impostando un modello di partecipazione mista come quello ipotizzato da Biagi e Domenici sia se lo stadio fosse una delle funzioni sulle quali si aprisse una stagione, finalmente, di pianificazione complessiva della Piana; in cui il capoluogo non scaricasse in quel quadrante solo le funzioni più impattanti o di servizio (aeroporto, termovalorizzatore, ecc…) ma tornasse, come avvenne per l’Università a Sesto, a pensare ad uno sviluppo complessivo e contemporaneo del suo territorio, insieme a quello di quei comuni. Per esempio coinvolgendoli in un ripensamento dell’intervento di Castello che, evidentemente, visto che la proprietà per prima non dà seguito alle previsioni di Piano, ha necessità di essere rivisto, ragionato e ripensato. Sia nella parte privata che in quella pubblica dato che il non avvio della prima non consente la realizzazione di quel parco della piana che comunque sarebbe oggi, praticamente ingestibile, per i costi di conduzione elevatissimi, da un’amministrazione comunale sola.

Approfittare quindi del nuovo stadio per ribadire il ruolo del pubblico invece di utilizzarlo per appuntarsi una mostrina da riscattare alle prossime elezioni. Riprendere in mano un governo del territorio che sia sempre più cura del paesaggio, difesa dell’ambiente e risposta a bisogni dei cittadini. Bisogni dell’abitare, del muoversi ma anche del divertirsi e, perché no, del tifare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 362 dell’11 luglio 2020

Idee per la città che verrà

Giovedì 28 maggio è andato in onda il primo webinar di Cultura Commestibile ; quasi due ore a discutere di come potrebbe essere la Firenze post coronavirus.

Una discussione molto interessante, pacata e speriamo fruttuosa. Ve la ripropongo anche qui.

La città e il lavoro che cambia

Pubblichiamo qui l’intervento tenuto il 21 settembre scorso all’incontro Firenze per il domani presso la Sala Spadolini del ristorante La Loggia di Firenze.

Nel nostro Paese il tema del lavoro, nonostante un po’ di decentramento tentato con la riforma del Titolo V della Costituzione, è per storia e prassi tema prettamente nazionale; e tuttavia è chiaro che l’organizzazione del lavoro influisce, tanto per dirne una, sull’organizzazione degli spazi della città mentre politiche di welfare determinano attrattività per capitali e lavoratori o al contrario respingono imprese e forza lavoro.

Come quindi ha influito e influisce il tema del lavoro sulla realtà di una città come Firenze? Si proverà qui a dare tre ambiti di riflessione sui quali poter impostare un discorso pubblico e un’ipotesi di città, partendo da tre linee di frattura, due già verificate e la terza in via di determinazione. Tre cesure che rappresentano altrettante distanze tra la sinistra riformista e una grande parte di quello che era il suo popolo, il suo elettorato.

La prima cesura è quella relativa al rapporto che in questi anni il centrosinistra, a Firenze come a livello nazionale ha avuto nel confronto del lavoro.

In questi anni, naturalmente a mio parere, l’aver concentrato larga parte della comunicazione sulle “eccellenze” ha finito per far sentire estranea larga parte dei lavoratori del Paese  (che molto spesso non hanno le condizioni per essere eccellenze né possono lavorare per una di queste) e questi hanno finito per non sentirsi parte del discorso pubblico del centrosinistra.

Brutalmente, pur capendone le ragioni (la ricerca dell’ottimismo e dell’esempio), si è parlato ad una platea amplissima mostrandogli esempi irraggiungibili, per le condizioni economiche e sociali del Paese o banalmente per una mera questione di tempo.

Porre come manifesto della imprenditoria della fase che si stava vivendo, per esempio, un imprenditore quale Farinetti, con la sua retorica del buono e bello nella produzione alimentare che messaggio ha dato a quell’imprenditore pugliese a cui una marca della grande distribuzione ha bloccato l’acquisto dell’intera produzione perché un grappolo, un solo singolo grappolo, di un intero pancale non era visivamente conforme?

E questo tipo di comunicazione è avvenuta anche a Firenze, anzi talvolta la nostra città ne è stata anticipatrice, dispiace dirlo. E questo ha vanificato anche le azioni politiche fatte o le politiche per il lavoro e i lavoratori che sono state intraprese in questo territorio ottenendo anche risultati.  Purtroppo però il discorso pubblico, certo per colpa anche dell’informazione sia chiaro, è ormai così compromesso che il 12 settembre scorso i giornali locali titolavano sulla bistecca patrimonio dell’umanità e non sulla rinascita della Seves.

Capisco che parlare di operai e facchini non sia eccitante come parlare con vinificatori, artisti o capitani di industria e che se la risposta è portarli a cena si va poco lontano, però questo tema, a mio avviso, è urgente e necessario. Per questi lavoratori la crisi non è mai finita e anzi, anche qui da noi, in alcuni casi rischia di iniziare ora.

La seconda cesura è una cesura fisica, materiale ed è più propriamente legata alla città e alle sue politiche. È questa una frattura che si determina visivamente nel territorio della città o meglio dell’area fiorentina.

Una mano anonima, ma non stolta, ha scritto a ragione, sui muri della facoltà di architettura qui a Firenze, la frase: “l’urbanistica è l’organizzazione capitalista dello spazio”; ecco partendo da questo assunto occorre ridefinire e determinare le scelte dello sviluppo della città, in questo caso della città metropolitana in base anche alla tipologia di sviluppo economico che si immagina per il territorio. A questo si lega lo sviluppo della rete infrastrutturale e dei servizi.

È avvenuta, ed è ancora in corso invece, una frattura fra una città che produce e una che consuma la propria storia e ricchezza. In questo la scelta di non far attraversare il centro storico dalla tramvia, aldilà dei giudizi che si dà all’operazione, ha determinato una cesura e una compartimentazione economica fra la città che si nutre sul turismo e la città (vasta) che produce ricchezza sugli altri settori.

È questa una cesura che può essere invertita solo con una riflessione sulla contaminazione dei due ambiti, con una nuova politica che riporti residenza, lavoro e non rendita nel centro storico e che definisca che la vocazione produttiva dell’area fiorentina è anche altro rispetto all’attrazione turistica, lo sfruttamento delle proprie bellezze e una vetrina per multinazionali ed eccellenze.

Messe in questo contesto, per esempio, scelte infrastrutturali quali l’aeroporto, l’alta velocità o lo sviluppo urbanistico dell’area fiorentina troverebbero materia di confronto un po’ più seria delle beghe di campanile e probabilmente anche una qualche soluzione.

Infine la terza frattura è quella potenzialmente più rischiosa, quella che può divenire un canyon. È ormai in atto nel mondo un processo di robotizzazione del lavoro che, seppur da noi con qualche ritardo, vedrà drasticamente cambiare il rapporto con il lavoro. La robotizzazione del settore dei servizi, dalla logistica all’assistenza, comporterà una espulsione di forza lavoro con numeri previsti enormi. Stiamo parlando di forza lavoro non qualificata e, a causa delle politiche pensionistiche di questi anni, in buona parte di età avanzata. È un processo globale, che necessita probabilmente di politiche sovranazionali, ma che, è facile profetizzare, avrà ricadute sulle nostre città, col rischio di creare ulteriori ghetti, di alimentare paure e insicurezze. Servirebbe arrivare pronti all’appuntamento, pensando già da ora politiche, spazi e azioni per l’inclusione, la mixitè e il reimpiego di questi uomini.

Perché l’alternativa a una politica che include e non esclude è già in elaborazione. Salvo che da noi, per l’approssimazione dell’attuale classe di governo, la discussione sul reddito di cittadinanza è proprio funzionale a gestire questa (temo lunga) fase di transizione di masse di lavoratori non più impiegabili, attraverso un sussidio assistenziale pagato con una (minima) parte dei guadagni che arriveranno con l’efficientamento dovuto alle macchine.

In un bellissimo libro sulle intelligenze artificiali scritto dal direttore del laboratorio su queste ultime dell’università di Oxford, questo passaggio epocale è descritto paragonandolo a quanto accadde ai cavalli dopo la II rivoluzione industriale. Lascio a voi giudicare se questo passaggio sia o meno auspicabile.

Racconta il professor Bostrom che con la seconda rivoluzione industriale la popolazione di cavalli dell’occidente fu decimata. Non servivano più né per il lavoro dei campi, né per il trasporto delle merci, sostituiti da trattori, camion e treni. Però, ci dice speranzoso Bostrom, dopo qualche decina di anni la popolazione equina è ricominciata a crescere e di molto. Il cavallo da animale da lavoro è diventato animale da sport, compagnia, persino cura e le razze selezionate sono oggi più forti e prestanti.

Questo è uno degli scenari, perché non divenga l’unico scenario occorre immaginare fin da ora come passeremo dai cavalli da tiro ai cavalli da salto, immaginando che nessuno di noi pensi a un presente fatto di carne in scatola.

Articolo apparso sul numero 279 del 6 ottobre 2018 di Cultura Commestibile

Il giorno più bello, gli alberi e la libertà

Oggi è l’undici di agosto e a Firenze si dovrebbe celebrare solo una cosa, la sua Liberazione. Le donne e gli uomini, autoctoni o venuti dalla parte “giusta” del mondo a liberarla. Invece ieri a Firenze è piovuto. Per circa 15 minuti è piovuto forte ed è tirato molto vento. Non è venuto un tornado, né una tromba d’aria. No è piovuto parecchio. Come capita da sempre in estate. E’ capitato anche che un albero è venuto giù, non ha colpito nessuno ma è venuto giù. Un albero grosso, che stava in quella strada (la strada dove sono nato sia detto per inciso) con tante foglie verdi. Un albero che avresti detto sano e rigoglioso. E infatti i cittadini della mia strada (non abito più lì da tanto ma insomma è sempre casa mia) hanno fatto un gran canaio perchè il Comune, brutto e cattivo, non buttasse giù lui e gli alberi a lui vicini perchè “Dio bono e si vede a occhio che son sani”. A occhio eran boni ma un temporale estivo l’ha buttato giù e per fortuna non si è fatto male nessuno. Dunque aveva ragione il Comune, i suoi tecnici, e chi di mestiere guarda gli alberi e decide (o almeno dovrebbe) che vanno “cambiati” perchè gli alberi non sani vanno giù. Vanno giù anche nei boschi, sia chiaro, ma penso che tutti si possa notare la differenza tra un albero che cade in un bosco e uno che cade tra le vie di una città. Quindi il tecnico del comune che guarda gli alberi del quartiere 5 (sia detto sempre per inciso che è uno pure simpatico) ha fatto bene il suo mestiere e ha detto che l’albero andava tagliato e sia dato atto che non lo ha fatto per un bieco interesse corruttivo di far girare gli alberi, come l’Avvocato invocava di far girare la patonza. No l’ha fatto perchè sa fare bene il suo mestiere. Meno bene, mi sia concesso, ha fatto il Comune che di fronte alla protesta ha posticipato il taglio di quegli alberi e dunque farebbe meglio a non dire che si è “sfiorata una strage”, perchè un po’ di colpa, fosse davvero successo qualcosa, l’avrebbe anche l’amministrazione posticipante. Ma torniano agli alberi. Non è la prima volta che a Firenze, e in quella zona, sugli alberi si fanno discussioni e azioni. Per il taglio degli alberi sul tragitto della tramvia c’è chi ci si è appollaiato e chi si è incatenato (ad un albero che non sarebbe stato abbattuto ma questo è un particolare); ricordo anche qualcosa su un nido di uccelli che pareva essere l’ultimo avamposto di una specie ormai prossima all’estinzione e invece pare fosse in disuso da anni. Insomma i miei vicini agli alberi ci tengono, li considerano un elemento immutabile e naturale della città. Non si toccano sono lì da sempre, dicono. Non è così ma anche i più anziani che si ricordano che quell’isolato erano tutte fabbriche e campi fino a quaranta anni fa, si voltano da un’altra parte e brontolano. Gli alberi in città sono un prodotto dell’uomo, come tutto il resto. Spesso risentono più della stagione politica che di quella metereologica. I famosi alberi di viale Morgagni erano una parte del parco della rimembranza, cioè il frutto di una legge del primo dopoguerra che imponeva, per ogni caduto della città sui campi di battaglia, fosse piantato un albero a suo ricordo. Dati gli anni e il sopravvenuto regime fascista invece di boschetti si diede vita a viali alberati su cui far marciare la prossima generazione di soldati da spedire alla prossima guerra. Ma anche le essenze che popolano i nostri giardini hanno dovuto fare i conti col regime. Se mi affaccio dalla mia terrazza mi trovo davanti una collezione di palme da fare invidia a Malindi. Il quartiere dove abito adesso, fu infatti edificato sul finire degli anni ’30 e la moda botanica dell’epoca era in linea con le celebrazioni del neonato impero. Si chiamavano i figli Impero e si piantavano palme nei giardini. Mica solo a Firenze o più a sud, se passate dal quartiere piacentiniano di Bolzano e date una sbirciata nei giardini delle case troverete anche lì qualche palma sopravvissuta ai rigori dell’inverno. E’ solo da un breve lasso di tempo che la flora delle città non è più affare da architetti (categoria spesso molto zelante con la moda e col potere) ma sono diventate affare da botanici e agronomi. Come il signore che guarda gli alberi del quartiere 5 e che aveva detto che quell’albero, a occhio sanissimo, non stava tanto bene. Eppure finche si piantavano palme sulle alpi andava tutto bene e quando un tecnico ci dice che quella pianta non sta bene formiamo un comitato. C’è chi dice che sono le storture della democrazia e spesso lo dicono quelli che la democrazia ce l’hanno antipatica. Poi ci sono quelli che “voi non capite un cazzo, io ho studiato dovete seguire me, perchè sono un Professsore”, che come dice il mio amico filosofo Boem, non servono a molto. E poi ci sono gli intellettuali (in un accezione ampia e diffusa, anche collettiva alla Gramsci che sarebbe il caso di approfondire ma magari non qui) che semplicemente o hanno smesso di studiare, o hanno smesso di impegnarsi o hanno smesso di parlare alla gente. E si autocommiserano quasi fossero una setta decadente millenarista che invece che credere che la terra sia piatta la credono tonda ma non per colpa degli ebrei (peraltro sono diversi giorni in cui mi interrogo sul cosa ci guadagnerebbero gli ebrei a far credere che la terra è sferica come dicono i terrapiattisti). Insomma alla fine parlando di alberi son finito a parlare di Libertà e quindi ho seguito il precetto iniziale sperando così di aver celebrato l’11 agosto che per noi fiorentini è, forse, il giorno più bello.

Per Lara Vinca Masini

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Sul numero 193 di Cultura Commestibile, uscito sabato 19 novembre 2016 abbiamo pubblicato un’appello per la concessione della cosiddetta Legge Bacchelli alla Critica d’Arte Lara Vinca Masini. La storia del diniego alla concessione del contributo era stata raccontata da Simone Siliani sul n. 192 sempre di CulturaCommestibile e potete leggerla qui.

Il manifesto con l’appello potete scaricarlo cliccando qui, mentre se volete aderire basta compilare il form sottostante:

 

 

Hamburger vista Duomo

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Le cronache raccontano di una apertura di McDonald in Piazza Duomo a Firenze, l’assessore Bettarini a Controradio conferma trattative in corso, nonostante il sindaco su facebook si dichiari contrario e dia la colpa di una sua eventuale disfatta alle liberalizzazioni. Quelle liberalizzazioni che i partiti di cui Nardella è stato esponente, dirigente e parlamentare hanno sempre votato e sostenuto e pareva di capire sostengono ancora.

Un isterismo che non ha colto non solo il sindaco ma buona parte del suo partito, lo stesso che ha votato tutte le norme nazionali, regionali e comunali che hanno consentito l’attuale liberalizzazione del commercio. Lo stesso partito che osanna la liberalizzazione del mondo del lavoro ma diventa protezionista, almeno a Firenze, per quanto riguarda la ripubblicizzazione di aziende di servizi e le botteghe. Il Pd tuttavia non è solo; il simbolo dell’ “odiosa” multinazionale ameriKana (col k) ha risollevato gli istinti della sinistra dura e pura, che si conferma come sempre attenta al dito e mai alla luna ma anche i conservatori della Firenze che fu, indipendentemente dal loro colore politico.

E’ evidente che la lotta di classe nel centro storico prosegue. In barba al regolamento protezionista, al dazio del lampredotto (di cui parlammo già qui e qui), la grande catena americana chiede di aprire un negozio nel cuore della città, nonostante nel suo menù non si prevedano piatti della tradizione culinaria fiorentina o l’uso di prodotti a km 0. La deroga richiesta dalla multinazionale infatti si basa sul “servizio al tavolo” e “su uno spazio culturale all’interno del negozio”. Insomma la norma che doveva proteggere il centro storico varata dalla giunta Nardella e che ha fatto strada al provvedimento di Legge varato in questi giorni (su cui torneremo prossimamente) dimostra, se la richiesta della multinazionale sarà accolta, in questo caso la sua natura classista e vessatoria, chi può permettersi di affittare locali ampi, di destinare una parte di questi ad un angolo libreria, di pagare (o sottopagare) personale per servire al tavolo due hamburger e coca cola, può chiedere di derogare al peposo nel menù, il kebabbaro che a malapena riesce a pagare uno stanzino piccolo e stretto è fuori legge e additato al pubblico ludibrio, come propagatore del nemico dei nostri tempi, il degrado.

Sia chiaro chi scrive non ha nulla contro Mc Donald, nessun pregiudizio ideologico; peraltro in Piazza del Duomo già oggi decine di multinazionali e catene di commercio hanno già i loro negozi, il punto è altro. E’ la teoria del compound turistico che prende sempre più spazio e piede. Il parco giochi del rinascimento, con le sue botteghe tipiche e i punti ristoro riconoscibili e familiari sia che tu venga da Milano come da Detroit. Il compound non ha bisogno dell’autoctono se non come manodopera, personale di servizio. Per questo spariscono le rastrelliere per le biciclette in piazza Madonna degli Aldobrandini, davanti alle Cappelle Medicee, sostituite (seppur in parte) con gli ennesimi dehors. Si dirà che erano brutte, sporche, turbavano il decoro. E invece che pulirle, liberarle dai detriti di vecchie bici, si preferisce rimuoverle, ripristinare l’ennesima quinta scenica da fotografare o meglio su cui ambientare il proprio selfie da condividere.

Con questa logica si spiega anche la rinuncia al passaggio del tram dal Duomo, o dal centro storico in generale. Ai parchi tematici si arriva con i treni, poi si prosegue a piedi o al massimo coi trenini che però sono in tema con il parco. Su questa logica uno dei prossimi provvedimenti potrebbe essere l’aumento delle licenze per i fiaccherai. Dunque anche nel caso del tram il punto non è trasportistico o di impatto ambientale, visivo; no il disegno è l’armonizzazione, l’omologazione al modello ideale che il turista cliente si aspetta, al contesto in cui vendere il prodotto, sia questo il biglietto del museo (unico e indiscusso indicatore del successo dopo la riforma Franceschini) o l’hamburger con patatine. La vista duomo è un valore aggiunto, un costo che la quantità di clienti, garantita dal contesto, rende ammortizzabile in fretta.

Articolo apparto su Cultura Commestibile n.176 del 25 giugno 2016

Troppo facile fare i liberisti col lampredotto degli altri

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La lotta di classe nel centro storico fiorentino, di cui già descrissi le peripezie nel numero 155, ha una nuova battaglia in corso.

E’ di questi giorni infatti la notizia che il Comune, all’interno del perimetro del centro storico patrimonio dell’UNESCO, consentirà l’apertura di esercizi dedicati alla ristorazione in base ad alcuni criteri “geografici”, filiera corta e “genuinità” alle radici enogastronomiche del territorio.

Un’apposita commissione valuterà questi criteri, consentirà deroghe e decreterà le aperture.

Aldilà della tenuta giuridica della norma, di cui dubito parecchio, sulla quale prevedo non tarderà di occuparsi il TAR, quello che qui interessa è l’intento e l’efficacia della norma.

L’intento appare chiaro e coerente con la strategia di questa e delle passate amministrazioni di conformare la realtà del centro storico alla sua rappresentazione immaginifica che il suo fruitore ideale porta con sé. E chi è, nei pensieri di chi Firenze governa, il primo fruitore delle proprie politiche? Non certo il cittadino (che non immaginiamo desideroso di peposo e lampredotto) ma il turista che invece questo immagina di trovare e questo deve trovare.

La creazione della quinta scenica del consumo attraverso l’apposizione di un limite, regolamentato, al Kebab o al cous cous a meno che le verdure non siano coltivate nei verdi campi del Mugello.

Eppure la regolamentazione delle attività di ristorazione è tema serio e affrontato in varie parti del mondo. A Los Angeles, dunque non in un “regime” statalista, alcuni anni fa fu proibita, in alcune aree della città, l’apertura di locali di Junk food (cibo spazzatura). Erano i quartieri più poveri della città, dove le condizioni della vita della popolazione, e in particolare dei più giovani, non consentivano un alimentazione sana con conseguenze sulla (già precaria) qualità della vita e sulla salute.

Dunque un amministrazione ha titolo a normare in materia, anche se personalmente trovo le motivazioni di decoro e tradizione meno importanti di quelle relative alla salute dei cittadini.

Il tema successivo, però, è quale efficacia hanno queste norme? Nel caso di Los Angeles pare molto poca, a Firenze vedremo. Qualche previsione però possiamo provare a farla. Intanto il provvedimento arriva dopo che il centro storico si è ormai trasformato pesantemente. Questo è avvenuto per l’effetto di scelte urbanistiche, della perdita di valore delle merci (non solo alimentari) vendute dagli esercizi commerciali, dal processo di gentrizzazione dovuto anche a fenomeni come Airbnb e dalla crisi economica. Dunque l’azione del provvedimento non avrà l’effetto di modificare l’offerta in essere ma di determinare quella futura e di farlo verso un determinato obiettivo: quella della progressiva trasformazione del centro storico in un compound turistico fatto degli stessi ingredienti dei sogni dei tour operator.

Apparso su CulturaCommestibile n.161 del 12 marzo 2016

Lotta di classe al Kebabbaro

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La lotta di classe non è conclusa come spesso ci dicono. Non si combatte nemmeno solo nelle periferie o davanti ai cancelli dei magazzini della logisitica.

Vi è una lotta di classe quotidiana, non violenta ma non per questo non cruenta, che si combatte, per esempio, nel centro storico di Firenze. Una lotta di lunga durata, ininterrotta, che vede ormai soccombere proletariato, borghesia liberale e semplici cittadini. Una lotta che non vede cambiamenti significativi di fronte da quasi sempre e che ha avuto, la più recente, battaglia decisiva nella pedonalizzazione di Piazza Duomo e soprattutto nell’impedire il passaggio della tramvia dal centro storico. Un’operazione che ha portato a dare un limite, un perimetro, al centro storico, favorendone la trasformazione in compound. Ennesimo processo di gentrizzazione, isolamento: il ghetto del bello, usufruibile formalmente a tutti, ammiccante in realtà a turisti e clienti. Una volta delimitato il perimetro si procede alla “pulizia”.

Ecco dunque l’ultimo tassello, il provvedimento contro i cosiddetti minimarket. Atto in cui elementi di Stato Etico si fondono con la brama del capitale (ché solo i rivoluzionari da tastiera confondono il capitale col liberismo e dimenticano che il primo ha sempre fatto migliori affari con gli statalisti che con i liberali) al suono di parole come decoro, salute, pulizia e bellezza. Un provvedimento talmente classista che ha fatto gridare al razzismo chi, ormai disabituato a usare categorie politiche, maneggia soltanto quelle sociali. Un intento e un pensiero che sappiamo estraneo ai nostri amministratori ma che la natura del provvedimento ha reso passibile di fraintendimento.

Il pubblico che torna a dare patenti di liceità: Tiger (quella simpatica catena di chincaglierie made in china) sì perché nordico e lindo, the king of Lahore no perché privo di lampade di design (spesso di lampade toutcourt) e diciamocelo piuttosto sudicio.

Una lotta in cui non ci è stato risparmiato, almeno per pudore del ridicolo, la retorica del cancro da estirpare, così maschia e virile. E’ in gioco la salute dei nostri figli! Quelli a cui abbiamo abdicato il nostro ruolo di educatori preferendo indossare la maschera più semplice (ma dozzinale) dei guardiani.

L’alcool quindi, il nemico, feticcio secolare dei proibizionisti di ogni risma. L’alcool come nemico della meglio gioventù, quella che si riprende il futuro. E ho tremato passando davanti a Procacci, con in vetrina le sue splendide bottiglie di ottimo Chianti. Anche lui un nemico? O forse saranno i tre bicchieri a garantirci come già fecero le stelle gialle?

Una siffatta battaglia poi è talmente perfetta che salda gli entusiasti del capitale, buttafuori addetti alla door selection su base censitaria, agli optimates del belllo. I tutori dell’arte e della bellezza, conservatori e tutelatori, progressisti reazionari che sognano un mondo di fruitori del bello a cui loro han dato educazioni e patenti di apprezzabilità. Pronti a brandire oggi la Costituzione Repubblicana come, ieri, brandivano il libretto rosso; non avendo probabilmente letto sino in fondo nessuno dei due.

Capaci di indignarsi per i manifesti sui restauri (e meno male) ma in fondo felici per la ripulitura dal piccolo minimarket africano, così fuori contesto.

Oggi più di ieri si avvertirebbe il bisogno di una Rivoluzione. Liberale.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.155 del 30 gennaio 2016.