Come Carrère ha saputo scomparire per raccontare il processo degli attentati di Parigi.
Non ho il culto di Emmanuel Carrère ma V13 era un libro, per me, imperdibile. La sera del 13 novembre 2015 senza alcun motivo particolare misi come foto di copertina di Facebook una foto dei tetti di Parigi. Dopo alcune ore fui sommerso di chiamate e messaggi che mi chiedevano se fossi nella capitale francese e se stessi bene. Era in atto uno dei più efferati attentati avvenuti in Europa. Più di cento persone, in prevalenza giovani, morivano e molti di più venivano feriti, sotto i colpi di Kalashnikov o dai bulloni delle cinture esplosive dei terroristi dell’ISIS. Tutto questo mentre stavano guardando una partita, sorseggiando un cocktail in un bistrot o partecipando ad un concerto al Bataclan. Molti di loro avevano l’età che avevo io quando a Parigi ho abitato per circa un anno. Quelle chiamate di quella sera, quelle immagini, quei luoghi familiari, mi colpirono profondamente. A ripensarci sono scosso anche oggi e riesco ad ammettere a qualcuno solo ora che per lungo tempo quando mi trovavo in una sala cinematografica o in un teatro, mi sorprendevo a fissare la porta temendo un’irruzione di un commando; talvolta, i primi tempi, non mi era facile concentrarmi su quello che accadeva sul palco. Reazioni probabilmente esagerate, lo ammetto, ma c’erano e dovevo farci i conti.
Quando poi nel settembre 2022 è iniziato il processo ho letto e raccolto in una cartella del mio PC tutte le cronache del processo ai “resti” del commando omicida. Non ho letto quelle che Carrère ha fatto, settimanalmente, sul Nouvel Observateur e pubblicate in Italia da Repubblica, ma quelle puntuali, precise, talvolta algide, degli inviati di Le Monde. Le Monde è uno dei pochi giornali del pomeriggio rimasti. Esce a metà del giorno, è una lettura serale, poca cronaca, molti pensieri. Quelle cronache hanno, inevitabilmente, fatto da contrappunto, da paragone, al libro di Carrère. Ne hanno smascherato, a me, un grande pregio: l’assenza dell’autore.
Non è facile per nessuno in fatti del genere, come dimostra il presuntuoso inizio di questo mio pezzo, mettere distanza tra il racconto di un fatto e come quel fatto, così determinante, ha influito sulla propria esistenza. Carrère in realtà nel libro, e nel racconto dei fatti, ci entra, progressivamente, pudicamente. Mai o quasi quando a parlare sono le vittime, parzialmente quando tocca agli imputati, largamente quando è la comunità della legge la protagonista. L’autore riprende il suo ruolo alla fine, quando le persone non rappresentano sé stesse ma quell’insieme di norme comuni che ci definiscono come comunità, come democrazia. Quando lui (e noi con lui) ci convinciamo che aldilà delle responsabilità politiche del nostro essere occidentali, il nostro sistema democratico e liberale, il nostro amministrare la giustizia in nome della legge e non della vendetta ci renda migliori, sì migliori, dei terroristi. Pur descrivendoli e giudicandoli senza pietismo sociologico ma con umana empatia.
Era poi questo forse il senso di un processo i cui esiti (seppur non siano mancate polemiche) erano previsti e prevedibili, e che riguardava figure di “contorno” rispetto agli autori materiali della strage (tutti deceduti negli assalti o in scontri a fuoco con la polizia). Non era un processo riparativo, non era un processo “per la storia”, era un processo per il diritto, quella somma astrazione che dalla Francia dei lumi rappresenta il terzo pilastro del nostro essere cittadini e non sudditi.
Carrère però ci dimostra tutto questo vivificando questa astrazione attraverso gli uomini e le donne che a quel processo danno vita. Il diritto incarnato se l’espressione non appare troppo blasfema rispetto ai corpi dilaniati, alle ferite materiali e psichiche ai brandelli dei deceduti e dei sopravvissuti. Il libro riesce quindi a dare voce, corpo, sostanza, alle procedure; non indaga nei pruriti che tanto affascinano quelli che seguono la cronaca nera. Non c’è voyeurismo, ma pietà vera che dimostra come l’applicazione della Legge non è affare da iniziati ma materia viva, come la verdura che si compra al mercato.
Si diceva del lavoro “in levare” di Carrère. Il raffronto con le cronache di le Monde mi è servito anche per un’altra osservazione, che all’inizio consideravo un difetto del libro ma che poi, ripensandoci, ne rappresenta un grande pregio. Molte delle frasi che suscitano effetto, emotivamente laceranti, che siano le vittime o i loro familiari oppure gli imputati (soprattutto quelli finiti in quella brutta storia forse più per caso che per scelta) a pronunciarle, sono nel libro identiche, al netto della mia traduzione, a quelle riportate nelle cronache del quotidiano. Segno che l’emotività era già presente e il cronista, come lo scrittore, avevano solo il compito di trovarle e riportarle. Non serviva altro, Carrère nonostante non sia l’autore con meno ego che imprima parole sulla pagina, con grande intelligenza lo capisce e confeziona un libro asciutto, doloroso, non scontato. Per questo davvero bello.
Da un piccolo libriccino appena apparso da Adelphi – dal nome non originalissimo di Lost in translation – apprendiamo che Ottavio Fatica si sta cimentando con la traduzione italiana dell’inedito di Céline Guerra.
Il libro uscito lo scorso anno per Gallimard in Francia e subito divenuto un successo di vendite, oltre che per il suo contenuto è forse più interessante per la storia che sta dietro il suo manoscritto perduto e poi misteriosamente riapparso.
Quel manoscritto, insieme ad altri andati (si pensava per sempre) perduti, ossessionarono Céline fino alla sua morte avvenuta nel 1961. Secondo il discusso autore i manoscritti sarebbero erano stati trafugati dalla sua casa di Montmartre dai partigiani nel 1944 quando lui la dovette abbandonare.
Va detto che quello di Céline non fu un viaggio di piacere, in quanto la sua partenza dalla capitale francese era dovuta alla legittima paura di fare una brutta fine visto il suo ruolo di collaborazionista durante il regime di Vichy.
Da quel giorno Céline non smetterà mai di dolersi di quel “furto”, sia in pubblico ma soprattutto nelle lettere che scriveva, continuamente, a amici e colleghi.
Gli epuratori, come li definiva Céline, gli avevano portato via tutto ma soprattutto lamentava, per esempio in una lettere a Pierre Monnier nel 1950, la perdita del manoscritto di 600 pagine di Casse-Pipe il romanzo che doveva completare la trilogia di Voyage au bout del la nuit e Mort à crédit.
Queste lettere Céline le inviava, va sempre ricordato, dal suo autoesilio danese in cui si era rifugiato per scappare alla prigione in Francia. Perché se è indubbio il valore letterario di questo autore non si possono non ricordare i vergognosi pamphlet antisemiti pubblicati ben prima dell’occupazione nazista della Francia (Bagatelles puor un massacre – 1937, L’Ecole des cadavres – 1938).
Tuttavia aldilà delle lamentele dell’autore da allora dei manoscritti non si ebbe più traccia e tutti, più o meno, li considerarono perduti, gettati da un qualche Maquis o da qualche topo d’appartamento, con lo scopo di punire l’autore amico dei nazisti o perché considerati di scarso valore rispetto agli altri beni “requisiti” nell’appartamento parigino.
Questo fino al 2019 quando alla veneranda età di 107 anni è deceduta Lucette Destouches, ex ballerina e vedova dello scrittore. Passano infatti pochi mesi dalla scomparsa della donna che un uomo prende contatto, discretamente e un po’ misteriosamente, con un avvocato parigino noto per essere specializzato in diritti d’autore e casi legati a case editrici.
L’uomo misterioso si scoprirà essere Jean-Pierre Thibaudat, giornalista e critico teatrale, figlio di resistenti, per anni nella redazione del quotidiano di sinistra Libération, fino al suo pensionamento nel 2006.
Nella sua lunga carriera Thibaudat si è segnalato per numerose opere sul teatro, recensioni di libri e spettacoli ma non è considerato come un esperto, né un appassionato, di Céline. Eppure quest’uomo, come scoprirà l’avvocato Pierrat, può essere considerato l’uomo più importante per la storia e lo studio di Céline al mondo.
Quello che si porterà nello studio dell’avvocato parigino il giornalista sono infatti i manoscritti trafugati del 1944 che per decine di anni egli ha conservato senza fare parola alcuna, senza mai provare a venderli, pubblicarli o altro.
Ma come ne era venuto in possesso? In un’intervista apparsa su Le Monde il 6 agosto 2021 Thibaudat racconta la sua versione e cioè che un giorno un lettore di Libération si era presentato da lui con dei voluminosi sacchetti contenenti i manoscritti di Céline e che li consegnava a lui ad un’unica condizione: di non renderli pubblici fino alla morte della vedova dello scrittore. La motivazione di tale vincolo sarebbe stata quella di non arricchire ulteriormente la vedova di un fascista.
Quale che sia la veridicità di tale racconto – sulla quale da subito si sollevarono molti dubbi – vero è che fino al decesso della vedova il giornalista ha mantenuto la propria parola e ha conservato nel massimo riserbo un tale tesoro.
Va detto che Thibaudat si è rivelato un detentore di segreti degno della migliore spia se come dice lui ha tenuto questi manoscritti dalla fine degli anni ’80 e non ha mai, fatto il nome del “donatore”. Tuttavia in tutti questi anni non ha mancato di guardare, leggere e classificare quello che lui stesso descrive come circa “un metro cubo di fogli”.
Tra questi tesori le 600 pagine di Casse-pipe, un romanzo inedito intitolato Londres, 1000 fogli di Mort à credit e decine e decine di altri scritti e documenti. Un vero tesoro.
Quando questo tesoro finisce nelle mani dell’avvocato Pierrat, questo contatta immediatamente i detentori dei diritti dello scrittore. Da una parte l’avvocato François GIbault, all’epoca ottantanovenne, autore della monumentale biografia di Céline e dall’altra Véronique Chovin, “dama di compagnia” della vedova dell’autore.
I tre, sotto gli auspici del legale, si incontrano nello studio Pierrat in Boulevard Raspail Parigi, una prima volta l’11 giugno 2020 e qui nascono i primi problemi. L’anziano Gibault vorrebbe far pubblicare i manoscritti a Gallimard e, immaginiamo, godere della ricca commissione che l’editore sicuramente concederà, Thibaudat vorrebbe invece donare gratuitamente i fogli all’Institut mémoires de l’édition contemporaine (IMEC) che già conservava un corposo fondo Céline.
Ancora una volta la figura di Thibaudat emerge in questa vicenda come un “eroe” singolare soprattutto se si pensa che, come dice lui sempre nell’intervista a Le Monde, “mai per un secondo ho pensato di venderli” anche se, secondo gli esperti, il valore di tali carte potrebbe superare il milione di Euro.
Dall’incontro del giugno parigino nasce naturalmente una causa legale. Da una parte gli eredi che ritengono i fogli come “la refurtiva” sottratta a Céline nel 1944, dall’altra il detentore dei fogli che vorrebbe “solo” donarli alla ricerca e allo studio.
Il tribunale di Parigi, per dirimere la questione, non può che cercare di capire cosa successe ai manoscritti a partire da quel giorno del giugno 1944 in cui “sparirono” dalla casa, ormai vuota, al quinto piano di un edificio di Rue Girardon quartiere di Montmartre, Parigi.
Per i partigiani trovare casa Céline non fu difficile. Durante tutta l’occupazione lo scrittore fu tutt’altro che discreto. Ripubblicò i suoi libri antisemiti, frequentava l’ambasciata tedesca nella Parigi occupata e non perdeva occasione per dirsi amico dei nazisti. Insomma aveva buoni motivi, una volta sbarcati gli alleati sul suolo francese, di pensare che non avrebbe avuto molti amici una volta liberata la città.
Per questo subito dopo lo sbarco angloamericano fuggì, insieme alla moglie, in Germania e poi in Danimarca dove, previdente, aveva già trasferito una piccola fortuna in oro per vivere “tranquillo”. Prima di fuggire con documenti falsi, per lui e la moglie, e con un lasciapassare fornitogli dagli amici nazisti fece però in tempo a passare dalla filiale del Crédit Lyonnais e ritirare gli ultimi lingotti d’oro lì custoditi. A quel tempo i manoscritti non gli sembrarono così necessari come l’oro ,anche se ne consegnò una parte alla segretaria, la fedele Marie Canavaggia, e ne vendette uno, quello del Voyage, pochi giorni prima di partire per 10.000 franchi e un piccolo Renoir.
Gli altri pensò che fosse sufficiente lasciarli sopra un armadio di casa sua e poi fuggì portando con sé, oltre l’oro, il loro gatto Bèbert. Dal viaggio e dall’incontro con il Maresciallo Pétain a Sigmaringen scriverà in D’un château l’autre.
Mentre Céline fugge, Parigi viene liberata, De Gaulle entra trionfante in città e le forze della Francia libera installano il loro quartier generale nella brasserie Junot a pochi passi da casa Céline.
Si può datare con una certa sicurezza, così ha ricostruito l’inchiesta della magistratura parigina, che la “perquisizione” dell’appartamento dello scrittore avvenne tra il 25 e il 30 agosto del 1944. Impossibile però risalire con precisione a chi effettuò l’irruzione.
Céline però non aveva dubbi. Fu sempre convinto che l’autore del furto fosse Oscar Rosembly, ebreo corso e partigiano. A lui sarà ispirato il personaggio del “juif Alexandre” nella prima versione di Féerie pour une autre fois.
Céline e Rosembly si conoscevano, seppur non particolarmente bene. Prima della guerra Rosembly era stato giornalista e collaboratore del ministro del Fronte Popolare Camille Chautemps, poi durante l’occupazione si nasconderà (a causa della sua lontana origine ebraica) presso il pittore Gen Paul che Céline frequentava.
Ma Rosembly era anche un resistente e come tale probabilmente incaricato, per la sua conoscenza di persone e luoghi, delle perquisizioni nel quartiere di Montmartre. Perquisizioni nelle quali però il maquis si approfittò del suo ruolo per “farsi giustizia da solo”, sottraendo dalle case dei collaboratori beni e preziosi. Verrà infatti arrestato e tradotto nel carcere di Fresnes in quell’estate del 1944.
Uscito di prigione si imbarcherà su un piroscafo diretto negli Stati Uniti e di lui si perderanno le tracce fino alla scomparsa nel 1990.
Improbabile che possa essere lui il misterioso lettore che consegnerà i manoscritti a Thibaudat molti anni dopo, anche se avrebbe potuto consegnarli ad un amico o un parente che li avrebbe conservati per lui.
Un’altra pista porta invece a Yvon Morandat, eroe della Resistenza (a lui è ispirato il personaggio di Jean Paul Belmondo in Parigi brucia?), amico di Jean Moulin che nel settembre del 1944 requisì l’appartamento di Céline e nel quale vivrà per alcuni anni. Céline fu sempre convinto che Morandat sapesse molto di più sulla fine dei suoi manoscritti e, infatti, rifiutò di incontrarlo nel 1951 quando amnistiato fece ritorno in Francia. Morandat voleva restituire alcuni manoscritti e dei mobili di rue Girardon ma lo scrittore li rifiutò perché i fogli erano “troppo pochi” e il donatore si rifiutava, secondo lui, di rendere il resto dei testi o almeno di dire la verità sulla loro fine.
Neanche il processo intentato nel 2020, però sarà di aiuto a sciogliere il mistero. Interrogato dai gendarmi dell’Office central de lutte contro le trafic de biens culturels (OCBC), il giornalista Thibaudat si rifiuterà di fare il nome del donatore invocando il segreto rispetto alle fonti, sacro per ogni giornalista. Tuttavia, per dimostrare la sua buonafede, in occasione dell’interrogatorio consegnerà tutti i documenti in suo possesso agli agenti, esterrefatti, che impiegheranno diverse ore per stendere il verbale di sequestro.
A quel punto, dopo un breve soggiorno cautelare presso la Bibliothèque nationale de France (BNF), la procura di Parigi ordinerà che i fogli siano consegnati ai legittimi eredi dello scrittore, i quali dopo aver donato alla BNF il manoscritto di Mort à crédit, in modo da regolare le “pesanti” tasse di successione di tale eredità si accorderanno, immaginiamo sontuosamente, con l’editore Gallimard per la pubblicazione delle opere di cui Guerre nel 2022 è il primo volume uscito.
Anche il Tribunale di Parigi si arrenderà e il 21 settembre 2020 archivierà l’inchiesta sul furto dei manoscritti non essendo riuscito a recuperare sufficienti indizi circa la colpevolezza di alcuno dei soggetti indagati.
Misterioso dunque l’autore del furto così come quello del donatore dei manoscritti al giornalista di Libération. Di lui sappiamo solo, grazie ad un’altra intervista a Thibaudat apparsa su Le Monde il 20 novembre 2020, che all’epoca della consegna, alla fine degli anni ’80, aveva approssimativamente un’età tra i 40 e i 50 anni e che dunque, sarebbe stato poco più di un bambino, all’epoca della sparizione. Rimettendo così in campo la pista còrsa di Oscar Rosembly.
Tuttavia le indagini dell’OCBC rispetto agli eredi di Rosembly, a Parigi come a Bastia, non hanno permesso di arrivare a nulla di certo. Per farlo hanno anche messo sotto sorveglianza il telefono del povero Thibaudat non scoprendo però alcun legame tra lui e la famiglia Rosembly.
Mistero irrisolvibile dunque? Purtroppo no, perché neanche Jean Pierre Thibaudat saprà resistere, come Gollum con l’anello del potere, alla mancanza del suo “tesoro”. Così prima sul suo blog e poi, nell’ottobre 2022, ne il volume Louis-Ferdinand Céline, le trésor retrouvé, racconterà la verità sul ritrovamento e sul donatore. Va detto, per rispetto alla figura del giornalista, che egli ha ceduto interamente i diritti di questo libro ad un’associazione che aiuta i minori immigrati non accompagnati, non guadagnando dunque un centesimo in tutta questa vicenda e anzi facendo un ulteriore sberleffo al razzista Céline.
Come ogni verità che si rispetti anche questa non sarà all’altezza della leggenda che l’accompagnava; infatti in un giorno del 1982 rovistando nella cantina di casa, gli eredi di Yvon Morandat trovarono, seminascosta e dimenticata, una cassa in legno contenente i manoscritti che poi decisero di consegnare, con il vincolo della loro conservazione fino alla morte della vedova di Céline, a Thibaudat.
Se gli autori ci sono dunque noti, rimane almeno il dubbio del perché Morandat trafugò i manoscritti se per avidità o, come preferiamo immaginare, per punire per sempre il collaborazionista amico dei nazisti.
Il partito radicale, come dimostra la storia dei suoi eredi negli ultimissimi anni, è stata (inevitabilmente) legata alla biografia del suo esponente più autorevole e ingombrante. La stessa diaspora radicale dopo la scomparsa di Pannella pare dimostrare a posteriori questa tesi ed è oramai impossibile capire (e forse è pure inutile) se l’ultimo Pannella fosse la maschera che celava e impediva la separazione o l’unico artefice di un programma e un destino politico comune. Gianfranco Spadaccia, che fu dirigente radicale e parlamentare per quel partito, ha pubblicato, poco prima della sua scomparsa, quella che ad oggi, a memoria di chi scrive, è l’unica storia “organica” del partito radicale. Un testo che non scade mai nella memorialistica ma non si dimentica mai di dichiarare la sua partigianeria, il punto di vista “interno” e “interessato”.
Anche per questo il libro, pubblicato da Sellerio, è un testo davvero importante, necessario si potrebbe dire, per inserire il percorso radicale non come la biografia di un uomo, per quanto eccezionale, ma come un percorso politico collettivo (seppur non di massa) che trae origine nella goliardia universitaria del dopoguerra, da “il Mondo” di Pannunzio e da quella piccola galassia laica fatta di azionisti, repubblicani e liberali di sinistra.
Un percorso che matura, si trasforma, assorbe come una spugna quello che di nuovo la società italiana fa affiorare.
Un percorso dall’esterno forse incoerente, sicuramente complicato, incredibilmente esteso per modi e interessi, scambiato spesso come protagonismo, eccentricità per attirare attenzione. Cose che pur presenti, nel racconto di Spadaccia riacquistano logica, senso, impegno, forse soltanto poca critica rispetto alle scelte, le battaglie intraprese e a quelle perse. Questo almeno fino alla fine della cosiddetta prima repubblica, quando le scelte radicali, di Pannella in particolare, paiono non chiare, non giuste fino in fondo all’autore. Eppure, radicalmente, in Spadaccia non c’è ripicca, rivincita ma anzi il dubbio che, come spesso gli capitava, Pannella avesse capito prima (e meglio) il tempo in cui viveva e a sbagliarsi fosse Spadaccia e chi scrive con lui.
Quasi pietosamente, Spadaccia si ferma al 2013 evitando di raccontare la fine di Pannella e dell’unità radicale. In fondo non avendo l’autore, dichiaratamente, l’ambizione dello storico riesco a capirlo e, da vecchio frequentatore collaterale dei radicali, anche a me, parafrasando il poeta, piace ricordarli com’erano, pensare che ancora vivono; e magari è proprio così.
Gianfranco Spadaccaia, Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia, Sellerio, 2021.
Il percorso del Partito Comunista Italiano dalla sua nascita a Livorno nel 1921 fino alla sua fine nel 1991 ha sempre rappresentato un unicum di difficile collocazione nella storia del comunismo mondiale. Anche se questa “diversità” è stata fortemente narrata dal gruppo dirigente di quel partito, soprattutto a partire da secondo dopoguerra e nella fase di ricerca del “compromesso storico”, è indubbio che molti caratteri originali abbiano attraversato la storia del PCI.
Questo vale anche (e forse soprattutto) nel campo delle relazioni internazionali ed in particolare nel rapporto con Mosca che Silvio Pons indaga in un bel volume “i comunisti italiani e gli altri”. Il lavoro di Pons parte dalle origini per mostrare i caratteri prima di ammirazione per quello che accade in Russia dal 1917, da parte sia del gruppo torinese dell’Ordine Nuovo di Gramsci e Togliatti, che da quello napoletano di Bordiga; per passare poi agli anni del fascismo, del gruppo dirigente a Mosca che sopravvive meglio di altri esuli, l’esperienza allineata a Mosca della guerra di Spagna e poi il ritorno in Italia dopo il 25 luglio del 1943. A partire da allora le differenze con Mosca si ampliano non tanto nella scelta della svolta di Salerno (processi analoghi di partecipazione dei comunisti ai governi di unità nazionale avvennero infatti anche in Francia e Belgio in ossequio ad una linea decisa e condivisa da Stalin) ma nella costruzione del partito massa a partire dallo statuto uscito dal congresso di Firenze che vedeva cadere la “pregiudiziale” marxista per aderire al PCI. Un modello organizzativo che, per gli italiani, rappresenta anche una garanzia di indipendenza (in potenza anche economica) da Mosca.
Posizioni, quelle italiane, che portarono poi alla reprimenda che Jugoslavi e Polacchi inflissero agli italiani prima di finire, i primi, a rappresentare la maggiore eresia del comunismo europeo. Un’eresia con la quale il PCI non chiuse mai i rapporti ma che anzi usò per affermare la propria autonomia da Mosca e per affermare una propria politica estera nei confronti dei movimenti di liberazione coloniale che si andavano sviluppando.
Certo nel rapporto travagliato tra Botteghe Oscure e Mosca mai si arrivò alla rottura, mai si sconfessò del tutto la patria del socialismo. Anzi si appoggiò convintamente l’invasione Ungherese del ’56, mentre la sconfessione di quella Ceca del 1968 non comportò mai un’abiura del socialismo reale. Anche Berlinguer che fu il più netto a prendere le distanze da Mosca, ipotizzava una terza via tra socialdemocrazia e soviet ma senza sconfessare il valore della rivoluzione. Questa aveva perso la spinta propulsiva ma non era da tutta da buttare e il gruppo dirigente italiano continuava a proporsi non in rottura con l’esperienza russa ma come portatore di un contributo, primariamente intellettuale, alla riforma del socialismo reale. A partire dall’inserimento di processi democratici e del riconoscimento del dissenso.
Un ruolo da guide intellettuali che l’ultima fase sovietica, quella di Gorbacev, riconoscerà al PCI ma che non avrà modo di svilupparsi (ammesso e non concesso che vi fossero spazi di riforma in un tale sistema) per il rapido crollo dello spazio delle democrazie popolari e dell’URSS stessa.
Tutto questo è raccontato nel libro di Pons con rigore e seppur privilegiando il punto di vista degli italiani, senza dimenticare i ritardi, le incoerenze e gli errori che tutti i gruppi dirigenti comunisti nazionali incontrarono. Il quadro che emerge è quello di un’assoluta continuità, almeno dal 1945 in poi, di una certa “furbizia” e di un’alta considerazione della propria elaborazione intellettuale da cui derivava un’alterità che, fino alla deriva morale dell’ultimo Berlinguer, era ancorata ad un disegno politico concreto che fu capace, sul piano interno, di orientare anche la politica estera italiana e di dialogare con i governi democristiani favorendo la politica del paese nel mediterraneo e nel medio oriente.
Infine il PCI fu, a partire da Berlinguer, capace di cambiare idea rispetto alla Comunità economica europea andando oltre la propaganda e la visione critica moscovita, immaginando Bruxelles come uno spazio tra i due blocchi e capace di dialogare con il cosiddetto terzo mondo in modo autonomo rispetto a Washington e Mosca. Un percorso che con l’eurocomunismo, il riconoscimento del valore dell’atlantismo e la fine della spinta propulsiva rende maggiormente coerenza al percorso del compromesso storico e della ricerca della partecipazione al governo del PCI, facendo apparire, aldilà dei giudizi su quell’esperienza, parte di un percorso politico coerente di ricerca di una via democratica al socialismo.
Una via che fu largamente incompleta, non capita dalle socialdemocrazie europee, non solo dal PSI italiano comprensibilmente preoccupato della competizione elettorale del PCI, ma nel caso dell’SPD o dei partiti scandinavi limitato dalla pregiudiziale anticomunista.
In definitiva il libro di Pons rende giustizia ad un percorso complesso e aiuta a comprendere le tante complessità e contraddizioni di un partito che fu di massa ma con a capo un élite intellettuale e consapevole.
Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel modo del novecento, Einaudi 2021.
Se nel proprio nome (o cognome in questo caso) risiede una parte del proprio destino, Ottavio Fatica intraprendendo la traduzione del Signore degli Anelli ha molto probabilmente compiuto il suo.
Già perché le vicende editoriali di questi tre volumi, in Italia, non sono mai state facili e anche questa volta si confermano tali. Credo c’entri anche un’appropriazione politica del testo tolkeniano da parte dell’estrema destra e del neofascismo dagli anni ’70 del tutto incomprensibile all’estero e a chi ha davvero letto (e mi si permetta capito) la saga dei Baggins.
Ma le critiche al lavoro di Fatica non sono arrivate solo dai nostalgici, c’è infatti una moltitudine di ex adolescenti (come chi scrive) che sono cresciuti forgiati da quel libro che circolava con la sua copertina agreste dai contorni beige e apriva mondi che poi spesso portavano a pomeriggi di giochi di ruolo.
Ma facciamo un po’ di ordine e proviamo a ricapitolare in estrema sintesi le vicende del libro nel nostro paese. La prima traduzione del volume è quella, in realtà mai arrivata alle stampe, che la piccola casa editrice l’Astrolabio commissiona ad una allora giovanissima Vittoria Alliata di Villafranca. La Alliata che non era (e non sarà) una traduttrice fa, va detto, un lavoro enorme e per i suoi mezzi egregio, tuttavia fu poi affiancata da Quirino Principe che ne corregge molta parte per l’edizione Rusconi che uscì nel 1970.
Quella traduzione è quella sulla quale generazioni di lettori sono cresciuti e si sono affezionati. Tuttavia nel 2003 Bompiani proporrà, alla ripubblicazione dei volumi sull’onda del successo dei film tratti dagli stessi, quella traduzione, però corretta su indicazione della Società Tolkeniana Italiana.
Sì perché nel frattempo il Signore degli Anelli e più in generale l’opera di Tolkien stava uscendo dalle fogne del neofascismo e dall’underground di cosplay e nerd ed entrava di diritto nei canoni letterari e nelle aule universitarie. Da qui, all’approssimarsi della scadenza dei diritti della traduzione dell’Alliata, la pressione sull’editore per una nuova traduzione.
Non senza strascichi legali, cause e velenosi articoli usciti sui giornali della destra italiana si arriva dunque all’opera di Ottavio Fatica, traduttore di grande esperienza con un gran lavoro su prosa e poesia inglese. Ma in cosa si caratterizza questo lavoro? La più evidente differenza (e quella su cui si sono concentrate le maggiori polemiche) è la traduzione diversa di molti dei nomi iconici della saga. I Raminghi che diventano Forestali, il Puledro impennato Cavallino Inalberato, Gran Burrone Valforra e molti altri. Un lavoro che il traduttore ha sempre giustificato per una maggiore aderenza alle sfaccettature e alle etimologie dell’autore. Non va infatti dimenticato che Tolkien di mestiere faceva il filologo a Oxford e tutte le sue opere sono caratterizzate per scelte linguistiche precise e mai casuali. Anche la poesia degli anelli che più o meno tutti i fan conoscevano a memoria viene riportata ad una maggiore coerenza con l’originale ma non è facile mandarla a memoria nella nuova versione.
E tuttavia a Fatica e all’editore è mancato il coraggio di utilizzare tale metro per tutti i nomi della saga (da un certo punto di vista fortunatamente) e dunque Baggins non è reso con Sacconi. Una scelta certo comprensibile che però avrebbe potuto essere adoperata per altri personaggi ed evitare che ogni volta che ci si riferisca ad Aragon come forestale non venga in mente uno in uniforme grigia intento a controllare che scoppi un incendio nel bosco.
Ma le due, a mio avviso, più importanti novità della traduzione di Fatica sono l’uso di registri diversi da parte dei personaggi e una fluidità e musicalità del testo. Il primo punto fa sì, per esempio, che le modeste origini di alcuni personaggi, Sam su tutti, si riflettano nel loro parlato. Questo fa sì che l’opera acquisti le sfaccettature che l’autore volle dargli: non una semplice saga epica fatta di eroi ma un’allegoria di una quotidianità che si trasforma in epica. Gli Hobbit non sono eroi scelti dagli dei, ma (mezzi)uomini travolti dal fato che compiono imprese eroiche. Una stratificazione di classe che era ben presente in Tolkien e che lo allontana dalla mistica del superuomo (che aveva trovato spazio quasi solo qui in Italia infatti).
Pochi anni fa è uscita una serie Tv – in onda su Apple TV – che si apre con le immagini della discesa, nel luglio del 1969, da parte del primo essere umano sulla Luna. Un sovietico.
La serie, For All Mankind, racconta una storia distopica della corsa nello spazio, tra USA e URSS, in cui il vantaggio iniziale dei Sovietici, conquistato con lo Sputnik, Laika e Gagarin non fosse stato recuperato dagli americani ma anzi fosse incrementato ancor di più dallo sbarco sovietico sul satellite terrestre.
Finzione a parte, pochi oggi ricordano o conoscono, quanto sullo spazio si sia giocata una parte, non certo trascurabile, del confronto tra superpotenze nella cosiddetta guerra fredda. Un confronto che ebbe luogo anche da noi, il paese con il più potente partito comunista dell’occidente, che dunque visse quella stagione riproponendo, sui giornali e nella politica quel confronto.
Un confronto che, nella fase iniziale, continuava ad alimentare il mito dell’URSS anche da noi, come esperimento vittorioso di costruzione di un mondo nuovo, capace di vincere il nazismo prima e conquistare lo spazio poi.
Il progresso tecnologico sovietico, era dunque visto come conferma della supremazia del socialismo e della sua inevitabile vittoria dalle colonne de l’Unità o di Rinascita, mentre veniva visto come pericoloso e minaccioso dalla stampa democristiana o comunque legata all’alleanza con gli USA.
I missili che solcavano i cieli erano dunque un segno di progresso per una parte, non trascurabile, del Paese e un pericoloso presagio di Apocalisse (se pensati come vettori di testate nucleari) per l’altra Parte.
E’ questo il contesto in cui Stefano e Marco Pivano, collocano il loro I comunisti sulla Luna, un libro che affronta, in due parti, la corsa per lo spazio, vista dal nostro Paese. Se la prima parte è un racconto dell’influenza delle conquiste spaziali sovietiche in Italia, con alcuni divertentissimi cascami sul mito tecnologico sovietico che porta, soprattutto militanti, a credere che un Paese che invia il primo uomo sullo spazio sia in grado di produrre anche auto e trattori altrettanto avanzati (spoiler, non sarà così); la seconda parte del libro è un racconto di storia della scienza che sta dietro gli iniziali successi e l’incapacità successiva di reggere il confronto con il modello scientifico statunitense. In grado di primeggiare non solo per capacità di spesa, ma per meriti legati alla collaborazione e la fiducia che erano più difficili da ottenere in URSS anche rispetto al propellente dei razzi.
Un libro piacevole, a tratti divertente, certamente divulgativo e capace di incuriosire rispetto a un piccolo pezzo della storia del nostro paese e del confronto, politico e sociale, in corso tra i due campi e che ha segnato le storie di molti.
Stefano Pivato, Marco Pivato, I comunisti sulla Luna. L’ultimo mito della Rivoluzione russa, il Mulino, 2017.
La Fondazione dei socialisti francesi, la Fondation Jean Jaurès, ha pubblicato nello scorso agosto un piccolo libriccino a cura di Mathieu Fulla e Marc Lazar, che estrae e riassume un’opera imponente da loro curata, sul rapporto dei socialisti e socialdemocratici europei con le istituzioni statali dei rispettivi paesi.
Il rapporto tra socialisti europei e lo Stato è mutato profondamente nel corso del tempo. Da nemico da abbattere in quanto struttura del potere borghese e del capitale, sia attraverso moti rivoluzionari che all’interno dei poteri locali o delle forme di lavoro cooperativo.
Via via però che il movimento socialista si radicava, passando dai comuni ai Parlamenti, il rapporto con lo Stato si modifica, il nemico si identifica con le strutture repressive del potere (polizia e esercito), mentre si inizia a teorizzare che la struttura capitalistica si può modificare attraverso lo Stato stesso o che le condizioni per il processo rivoluzionario possono essere favorite da politiche di riforma attuate all’interno delle istituzioni liberali.
Non che le forme insurrezionaliste o localiste vengano meno ma o finiscono in minoranza o danno vita a scissioni.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale queste tensioni esplodono e i residui dell’internazionalismo vanno in frantumi, nel dopoguerra le tensioni rivoluzionarie con la “competizione” coi comunisti prima e la lotta al fascismo poi radicheranno e ancoreranno ancor di più i socialisti (per la prima volta al governo in molti paesi) allo Stato; ma sarà col secondo dopoguerra che la coincidenza dei socialisti con lo Stato, da “occupare” per riformare avrà la sua epoca d’oro. Sarà anche in quegli anni che la base elettorale dei vari partiti socialisti e socialdemocratici europei si modificherà: perdendo molti consensi nella classe operaria (che si rivolgerà molto spesso ai partiti comunisti) e guadagnandone moltissimi tra i dipendenti pubblici fino a diventare, in molti casi, il partito di riferimento delle varie funzioni pubbliche.
Questo rapporto va in crisi, ci raccontano i due autori, verso la fine degli anni settanta dove il paradigma neoliberale, rappresentato dai governi Tatcher e Reagan, ha finito per influenzare profondamente i socialisti europei fino a far diventare questi gli esecutori, negli anni ’90, della teoria dello stato “debole”, mero regolatore dei mercati e fornitore sussidiario di servizi non proficui.
Sono gli anni di Blair, Shröder, D’Alema e Jospin, gli anni in cui il sistema di welfare state su cui si è fondato il compromesso democratico europeo, si è costruita la ricchezza del continente e si sono sviluppate le nostre società, viene frantumato nella speranza di un mercato finalmente libero e globale.
Una stagione che, però, per i partiti socialisti ha coinciso anche con l’inizio della fine poiché, questa la tesi del libro, i socialisti hanno di fatto segato il ramo su cui erano seduti, andando a colpire proprio quell’elettorato fatto di pubblici dipendenti che, colpito e deluso, si è rifugiato molto spesso nella destra (anche in conseguenza della scomparsa di un’offerta politica di sinistra comunista credibile dopo la fine della guerra fredda). Tutto questo senza che ci fosse un ricambio elettorale da parte dei “ceti medi riflessivi” per dirla con le parole di Richard Florida, sociologo allora molto in voga.
Però, questa la tenue speranza instillata dal libro, dopo la crisi del 2008, crisi che di fatto non è ancora finita e si lega a quella attuale legata anche alla pandemia, il paradigma neoliberale è andato (o diciamo più scetticamente può andare) in crisi e quindi si potrebbe aprire uno spazio nuovo, per il pubblico in quanto tale e dunque per i socialisti.
Una speranza che il libro, non sviluppa come è inevitabile che sia per un’opera storica, ma che appare davvero difficile immaginare con gli attuali gruppi dirigenti, ci sia concesso di dire, che guidano ciò che rimane del socialismo europeo. Non tanto per le qualità dei singoli, che certamente molti di loro possiedono, ma per l’assenza di un quadro di riferimenti, di pensieri lunghi, non necessariamente nati all’interno del campo socialista (in fondo Keynes, sulle cui idee molti socialismi democratici hanno prosperato, era un liberale). Tuttavia, se le istanze e i bisogni di giustizia sociale e di progresso degli ultimi sono oggi più necessari che mai, occorre a chi ancora socialista si dice e si crede, interrogarsi su come alimentare tale fiaccola. Partire, come nel caso di questo libro, da ciò che si è stati può essere un buon inizio.
C’è correlazione tra le procedure insegnate nelle scuole di management e il nazismo? A dirla così si potrebbe pensare che l’ultimo libro di Johann Chapoutot viri verso un genere prolifico ma non proprio rigoroso: quello del nazismo esoterico e delle teorie complottiste che vogliono l’occidente del secondo dopoguerra pieno di nazisti alla dottor Stranamore.
Una sensazione, purtroppo, alimentata dalla scelta dell’editore italiano, Einaudi, di far diventare il titolo originale del libro il sottotitolo dell’edizione italiana e di puntare su un titolo ed una frase-domanda retorica in copertina, acchiappalettori.
Tuttavia, si sa, che ogni mito si appoggia alla realtà ed è in fondo di una specie di Dottor Stranamore che nel libro di parla. Reinhard Höhn fu giurista, professore universitario e generale delle SS durante il nazismo e poi direttore di un’accademia per manager nel dopoguerra. Una struttura in cui passarono i principali quadri della potenza economica tedesca e si formarono 600.000 manager.
Chapouchot, dopo averci raccontato come i professori di dirtto tedesco diedero fondamento alla barbarie nazista ne La legge del sangue (Einaudi, 2016), riparte da una di quelle figure, Höhn per l’appunto, e ce lo mostra trasformarsi, senza mai rinnegarsi, nel dopoguerra democratico in un giustificatore del nuovo modello liberale e capitalista.
Una continuità che viene indagata a fondo e forse un po’ troppo apoditticamente dall’autore, che liquida l’abbandono delle idee razziste, dell’antisemitismo e della conquista dello spazio vitale all’est, da parte di Höhn, con troppa leggerezza, considerandole quasi accessorie all’idea di organizzazione dello Stato e dell’economia. È evidente che linee di continuità esistono e l’autore le indaga a fondo, pur tuttavia, lo stesso Chapoutot è costretto ad ammettere che questa continuità è precedente al Reich nazista e affonda le radici da un lato nel darwinismo sociale del tardo ottocento e dall’altra dagli studi sull’organizzazione d’impresa dei primi del novecento.
Non è nemmeno riscontrabile una specificità nazista nell’accogliere queste teorie come dimostra lo stesso caso di Höhn che si trova a suo agio sia sotto il regime che sotto la repubblica federale.
Dunque la specificità del volume sta, a mio avviso, in altro; nell’indagine del nazismo come rottura del positivismo e nel capitolo in cui, in continuità con La legge del Sangue, dimostra come Hitler intenda superare lo Stato, entità che imbastardisce il sangue germanico, eredità di latini e giudei, per mettere al centro la razza da cui discende la comunità. Una rottura dello stereotipo dell’iperburocratizzazione del nazismo che, ci spiega invece l’autore, è figlia non dello statalismo ma dal moltiplicarsi di agenzie, potentati, feudi, ognuno intento a inseguire lo scopo della purezza della razza e della comunità germanica.
Non fa eccezione il governo dell’economia del Reich, che è per giunta fin da subito, economia di guerra prima votata al riarmo e poi a soddisfare il conflitto. Eppure l’autore ci mostra come questa economia (ed in fondo il regime tutto) pur basandosi sull’eliminazione anche fisica dell’altro, del non allineato, cercasse per la maggioranza dei suoi cittadini di costruire un consenso, financo un’adorazione per l’unico Reich, l’unico popolo, l’unico Führer.
Su questo l’organizzazione economica nazista differisce poco dalle altre organizzazioni capitaliste coeve. Il manager è dotato di autonomia e libertà non verso le scelte ma sul modo di realizzarle, libero di obbedire dunque. Responsabile dei propri insuccessi (veri e presunti) come nella Russia stalinista. Ma l’operaio come l’impiegato devono aver modo di riposarsi e tornare ad essere produttivi; dunque il regime ne organizza il tempo libero come nei dopolavoro fascisti e infine deve poter sognare che il bene che sta producendo potrà essere suo. Un modello che si identifica fin dal nome, per esempio, della Volkswagen la vetturetta per tutti proprio come la Ford Model T sarebbe stata l’auto costruita da quelli che la producevano.
Vi è dunque sì una continuità ma a dispetto di quello che l’autore sottintende è più propria del modello industriale, di cui il nazismo può essere considerata la più efferata delle varianti, che dell’ordine della razza e del sangue. Vista così stupisce meno la capacità di Höhn di ricostruirsi un destino nella Germania democratica di cui farà parte. Il management per obiettivi non fu infatti prerogativa del solo miracolo economico tedesco e non fu la “scoperta” del passato nazista di Höhn a farlo tramontare, casomai (come giustamente nota anche l’autore) fu la sua versione più ridotta, flessibile e meno invasiva teorizzata negli Stati Uniti, a decretarne la fine.
In questo sì il peso della sovrastruttura degli ex nazisti può aver giocato un ruolo di appesantimento e di minor capacità di adattamento alle mutate forme di produrre che, a partire dagli anni ’70, cambiarono l’organizzazione del lavoro almeno nel mondo occidentale.
Vi è poi infine un salto logico difficilmente giustificabile in Chapoutot quando nell’ultimo capitolo, liquidato Höhn e decretato storicamente il fallimento del suo modello, l’autore tende a fare un parallelo tra l’attuale alienazione del lavoro e le teorie del moderno capitalismo.
Alienazioni che sono del tutto evidenti e forse persino più marcate, probabilmente perché difettano di un contromodello culturale e sociale, che negli anni del miracolo economico ma che stentiamo a vedere come discendenti da una elaborazione giuridica che giustificava un regime assassino e genocida.
Come direbbe un caro amico: il problema è il capitalismo casomai, non Höhn.
La nostra collaboratrice Maria Mariotti si è, giustamente, risentita per il fatto che Facebook ha cancellato, dal suo profilo, il suo articolo apparso sulla nostra rivista sabato scorso, che aveva come immagine a corredo una foto con tre donne etiopiche a seno scoperto.
Si trattava di una cartolina che i nostri coloni mandavano in patria per magnificare cosa trovavano nell’impero. Per ironia della sorte all’immagine di Maria è toccata la stessa sorte che sarebbe toccata alla cartolina fosse stata intercettata dalla censura del Ministero per l’Africa italiana che non vedeva di buon occhio tali pratiche perché toglievano purezza alla razza, come ricorda Emanuele Ertola in un bel libro Italiani d’Africa.
Ma il tema sollevato è molto più ampio e annoso. Le piattaforme informatiche, non solo quelle di social network, per anni si sono sempre considerate non responsabili dei contenuti pubblicati sulle loro pagine. Non degli editori quindi da dei meri fornitori di uno strumento. Essendo tutte nate negli Stati Uniti esse risentono di una certa inclinazione a far prevalere il diritto di espressione rispetto a quello di tutela dei dati e dell’onorabilità dei fruitori. A differenza di quello che avviene qui in Europa dove si ha una maggiore attenzione al secondo aspetto.
Tuttavia, fin dall’inizio della loro espansione le piattaforme social si sono poste il tema della “moderazione” dei contenuti che venivano pubblicati sul loro strumento. La prima impiegata assunta da Facebook a tale scopo fu assunta tre anni dopo la nascita del social network nel 2004. A differenza, infatti, di quello che normalmente si pensa la questione non è gestita soltanto dagli algoritmi e oggi Facebook ha diversi uffici sparsi per il mondo che controllano i contenuti postati e le segnalazioni con competenza, ognuno, per una determinata area geografica.
Il reporter del Newyorker, Andrew Marantz, ha dedicato al tema un bel volume, Antisocial, e numerosi articoli sulla rivista, uno dei quali proprio sul rapporto tra Facebook e la politica di gestione dei contenuti, apparso sul numero del 12 ottobre 2020 della rivista.
Quello che emerge dalle inchieste di Marantz è che Facebook, ma il discorso può valere anche per gli altri social, ha politiche rispetto a cosa viene pubblicato sulle proprie pagine diverse a seconda del contesto, della convenienza “politica” dell’azienda ma anche del “vento che tira”.
Unica costante, di cui ha fatto le spese la nostra collaboratrice, il nudo e i contenuti pornografici che paiono essere sempre e comunque boccati applicando l’adagio delle truppe sovietiche a Stalingrado, prima spara poi fai le domande.
Così non è stato invece per organizzazioni e gruppi neonazisti qui in Europa che hanno goduto a lungo di un diritto di tribuna piuttosto esteso e incontrollato e che hanno visto bloccare le loro pagine, immaginiamo del tutto casualmente, mentre l’Unione Europea affrontava il tema della privacy e della tassazione degli utili delle piattaforme.
Casi ancora più marcati riguardano le “concessioni” ai regimi mediorientali o a quello cinese che tutte le piattaforme hanno accordato per non perdere l’accesso al mercato cinese.
Anche negli Usa le cose non sono andate meglio. C’è stato il caso di Cambridge Analitica, il sostanziale “mani libere” accordato a Trump e ai suoi sostenitori per tutta la sua prima campagna presidenziale e per larga parte del suo mandato. Poi col cambiare del vento, qualcosa lì si è mosso. Ricorderete l’audizione di Marc Zukerberg al congresso americano, incalzato dalle domande della Ocasio Cortez e poi la scelta di Twitter (che ha costretto le altre piattaforme ad adeguarsi) prima a segnalare, poi a oscurare e infine a bloccare i tweet del Presidente in carica Donald Trump.
È oggi del tutto evidente che il tema della neutralità delle piattaforme non ha più senso. Da qui discende una necessità di chi e come si regolano i contenuti che hanno oramai in modo inconfutabile dimostrato la loro pericolosità sia a livello individuale che sociale.
L’idea che trattandosi di aziende private queste abbiano il diritto di autoregolarsi a piacimento, non è un concetto in contrasto con i dogmi del socialismo reale ma con i principi della democrazia liberale. Da sempre gli organi di informazione sono soggetti regolati e soggetti al controllo pubblico. Leggi, organismo, comitati di garanzia, da sempre e in ogni ordinamento democratico regolano la vita di stampa, radio e televisione.
Nel caso della rete il problema si complica di molto per due fattori su tutti. La quantità di utenti e contenuti e per la dimensione sovranazionale delle piattaforme.
Nel primo caso una proposta potrebbe essere quella di far sviluppare, gestire e implementare gli algoritmi di controllo non alle stesse piattaforme ma a soggetti regolatori pubblici o comunque indipendenti; mentre per il secondo punto occorrerebbe conferire il mandato del controllo ad agenzie sovranazionali in ambito almeno europeo, per quanto ci riguarda, e magari in ambito di nazioni unite per l’intero globo.
La trasformazione che questi strumenti hanno impresso alle nostre vite e soprattutto quella che hanno imposto alle nuove generazioni ci obbligano ad affrontare il tema e a dargli una risposta politica di dimensioni e confini nuovi ed inediti.
Può apparire scontato, se non banale, che durante una pandemia si ripubblichi “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, non fosse che, come scrive Sciascia nella sua nota al volume per le edizioni Sellerio (nota che da sola vale l’acquisto), il testo del Manzoni sia uno dei suoi migliori quanto uno dei più misconosciuti. Come capita spesso ai testi che hanno fortuna di essere citati senza essere spesso letti o, peggio, capiti.
Testo di drammatica attualità e potenza quello di Manzoni che si interroga sull’ingiustizia della giustizia. Non sull’errore giudiziario, ma sul metodo accusatorio, sulla protezione che il giudice si costruisce da solo o come corporazione, sul bisogno di perseverare nella bugia una volta che questa è costruita per sostenere la tesi accusatoria, di piegare la legge alla consuetudine e al metodo di dover dare colpevoli alla folla.
Si parla di due untori, ma come nota Sciascia nel chiudere della sua nota, si potrebbe parlare dei terroristi degli anni ’70 e dei tanti imputati dei processi di oggi, condannati prima facendosi sfuggire intercettazioni e atti processuali che trovano ampia fortuna sulle pagine delle odierne gazzette e poi perdurando la pena del processo per anni e anni.
È quindi il metodo dello scritto del Manzoni che stupisce e convince. In punta di piedi, non volendo offendere in alcun modo l’illustre predecessore, nella premessa Manzoni, quasi scusandosi, dice che il suo lavoro si discosta da quello del Verri perché se quest’ultimo aveva come scopo combattere la tortura come metodo d’indagine, egli si pone il tema più generale della giustizia che sbaglia. E sbaglia consapevole di sbagliare come dimostra l’autore nell’entrare, forse pedantemente, nell’analisi delle norme e delle consuetudini che regolavano l’uso della tortura come metodo d’indagine ma soprattutto, nei meccanismi che regolavano la promessa di impunità che l’autorità poteva concedere per far confessare complici e mandanti agli accusati. Dunque non era, per il Manzoni, la tortura il problema ma l’arbitrio, l’abuso del giudice per ottenere non la Verità, ma un colpevole.
Storia vecchia direte, e qui ritorna Sciascia, la sua paura della legge sui pentiti, appena varata quando l’autore siciliano ripubblica per Sellerio l’opera del Manzoni e scrive la nota che accompagna quel volume e la ristampa attuale. E quanto attuale anche oggi può essere questa paura se pensiamo a Guantanamo, o per restare a casa nostra a quando venticnque anni fa nella solita Milano si pontificava di “metterli in galera qualche giorno per farli parlare”. Nell’applauso festante delle gazzette e degli inviati infreddoliti di fronte al maestoso (ma bisognoso di chiudi per stare in piedi come racconta Giorgio Fontana in un altro bel libro pubblicato sempre da Sellerio) Palazzo di Giustizia, con sfondo mobile di tram sferraglianti. Non stupisce a ripensarci oggi che poi uno veda anche la Madonna.
C’è poi un ultimo punto, ed è sempre Sciascia a farcelo notare, che è quello del reato di cui sono accusati gli sventurati protagonisti: di causare la morte per peste attraverso unguenti velenosi. Viene da dire superstizione da antichi da cui, oramai, siamo immuni. Non pare così, se si vuol dare retta a Sciascia, che ci racconta come la storia invece che essere una palla di cannone accesa è più spesso un arabesco che procede in avanti e indietro. Se infatti tra gli antichi vigeva il pregiudizio delle pestilenze come maleficio commesso da uomini per diabolici intenti, in quello che immaginiamo come buio medioevo si tendeva ad incolpare l’influsso degli astri o il castigo divino quali cause delle pestilenze.
Per tornare nel Seicento, raccontato dal Manzoni, a ricercar l’untore come capro espiatorio della non conoscenza e delle inefficienze della sanità lombarda, rifluendo invece nello scientismo dell’Ottocento che aveva a nemico igiene e ratti. Ma non occorre arrivare ai no vax attuali o ai complottisti del 5g per vedere che questo andirivieni di colpevoli aveva, ai tempi della spagnola, trovato nei governi i colpevoli. La prima guerra mondiale – scrivevano i complottisti dell’epoca – era finita troppo presto e occorreva diminuire ancora un po’ la popolazione mondiale attraverso qualche pozione venefica. All’obiezione che anche qualche potente fosse deceduto, si trovava facilmente rimedio nel dire che si era confuso tra veleno e antidoto.
Il punto però, aldilà del consolarci o preoccuparci per la lunga durata del complottismo, è quando queste tesi trovano una Procura zelante, una inquisizione compiacente, un giudice svogliato e ti trovi a passeggiare per Milano, compiendo il tuo mestiere, con una boccetta d’inchiostro in mano, oggi magari con uno smartphone 5g, ed invece di trovare giustizia ti imbatti nella Legge.