Il lungo rapporto tra Socialisti e Stato liberale

La Fondazione dei socialisti francesi, la Fondation Jean Jaurès, ha pubblicato nello scorso agosto un piccolo libriccino a cura di Mathieu Fulla e Marc Lazar, che estrae e riassume un’opera imponente da loro curata, sul rapporto dei socialisti e socialdemocratici europei con le istituzioni statali dei rispettivi paesi.

Il rapporto tra socialisti europei e lo Stato è mutato profondamente nel corso del tempo. Da nemico da abbattere in quanto struttura del potere borghese e del capitale, sia attraverso moti rivoluzionari che all’interno dei poteri locali o delle forme di lavoro cooperativo.

Via via però che il movimento socialista si radicava, passando dai comuni ai Parlamenti, il rapporto con lo Stato si modifica, il nemico si identifica con le strutture repressive del potere (polizia e esercito), mentre si inizia a teorizzare che la struttura capitalistica si può modificare attraverso lo Stato stesso o che le condizioni per il processo rivoluzionario possono essere favorite da politiche di riforma attuate all’interno delle istituzioni liberali.

Non che le forme insurrezionaliste o localiste vengano meno ma o finiscono in minoranza o danno vita a scissioni.

Con lo scoppio della prima guerra mondiale queste tensioni esplodono e i residui dell’internazionalismo vanno in frantumi, nel dopoguerra le tensioni rivoluzionarie con la “competizione” coi comunisti prima e la lotta al fascismo poi radicheranno e ancoreranno ancor di più i socialisti (per la prima volta al governo in molti paesi) allo Stato; ma sarà col secondo dopoguerra che la coincidenza dei socialisti con lo Stato, da “occupare” per riformare avrà la sua epoca d’oro. Sarà anche in quegli anni che la base elettorale dei vari partiti socialisti e socialdemocratici europei si modificherà: perdendo molti consensi nella classe operaria (che si rivolgerà molto spesso ai partiti comunisti) e guadagnandone moltissimi tra i dipendenti pubblici fino a diventare, in molti casi, il partito di riferimento delle varie funzioni pubbliche.

Questo rapporto va  in crisi, ci raccontano i due autori, verso la fine degli anni settanta dove il paradigma neoliberale, rappresentato dai governi Tatcher e Reagan, ha finito per influenzare profondamente i socialisti europei fino a far diventare questi gli esecutori, negli anni ’90, della teoria dello stato “debole”, mero regolatore dei mercati e fornitore sussidiario di servizi non proficui.

Sono gli anni di Blair, Shröder, D’Alema e Jospin, gli anni in cui il sistema di welfare state su cui si è fondato il compromesso democratico europeo, si è costruita la ricchezza del continente e si sono sviluppate le nostre società, viene frantumato nella speranza di un mercato finalmente libero e globale.

Una stagione che, però, per i partiti socialisti ha coinciso anche con l’inizio della fine poiché, questa la tesi del libro, i socialisti hanno di fatto segato il ramo su cui erano seduti, andando a colpire proprio quell’elettorato fatto di pubblici dipendenti che, colpito e deluso, si è rifugiato molto spesso nella destra (anche in conseguenza della scomparsa di un’offerta politica di sinistra comunista credibile dopo la fine della guerra fredda). Tutto questo senza che ci fosse un ricambio elettorale da parte dei “ceti medi riflessivi” per dirla con le parole di Richard Florida, sociologo allora molto in voga.

Però, questa la tenue speranza instillata dal libro, dopo la crisi del 2008, crisi che di fatto non è ancora finita e si lega a quella attuale legata anche alla pandemia, il paradigma neoliberale è andato (o diciamo più scetticamente può andare) in crisi e quindi si potrebbe aprire uno spazio nuovo, per il pubblico in quanto tale e dunque per i socialisti.

Una speranza che il libro, non sviluppa come è inevitabile che sia per un’opera storica, ma che appare davvero difficile immaginare con gli attuali gruppi dirigenti, ci sia concesso di dire, che guidano ciò che rimane del socialismo europeo. Non tanto per le qualità dei singoli, che certamente molti di loro possiedono, ma per l’assenza di un quadro di riferimenti, di pensieri lunghi, non necessariamente nati all’interno del campo socialista (in fondo Keynes, sulle cui idee molti socialismi democratici hanno prosperato, era un liberale). Tuttavia, se le istanze e i bisogni di giustizia sociale e di progresso degli ultimi sono oggi più necessari che mai, occorre a chi ancora socialista si dice e si crede, interrogarsi su come alimentare tale fiaccola. Partire, come nel caso di questo libro, da ciò che si è stati può essere un buon inizio.

Articolo apparso su Culturacommestibile n. 426 del 4 dicembre 2021

La libertà di obbedire al capoufficio.

C’è correlazione tra le procedure insegnate nelle scuole di management e il nazismo? A dirla così si potrebbe pensare che l’ultimo libro di Johann Chapoutot viri verso un genere prolifico ma non proprio rigoroso: quello del nazismo esoterico e delle teorie complottiste che vogliono l’occidente del secondo dopoguerra pieno di nazisti alla dottor Stranamore.

Una sensazione, purtroppo, alimentata dalla scelta dell’editore italiano, Einaudi, di far diventare il titolo originale del libro il sottotitolo dell’edizione italiana e di puntare su un titolo ed una frase-domanda retorica in copertina, acchiappalettori.

Tuttavia, si sa, che ogni mito si appoggia alla realtà ed è in fondo di una specie di Dottor Stranamore che nel libro di parla. Reinhard Höhn fu giurista, professore universitario e generale delle SS durante il nazismo e poi direttore di un’accademia per manager nel dopoguerra. Una struttura in cui passarono i principali quadri della potenza economica tedesca e si formarono 600.000 manager.

Chapouchot, dopo averci raccontato come i professori di dirtto tedesco diedero fondamento alla barbarie nazista ne La legge del sangue (Einaudi, 2016), riparte da una di quelle figure, Höhn per l’appunto, e ce lo mostra trasformarsi, senza mai rinnegarsi, nel dopoguerra democratico in un giustificatore del nuovo modello liberale e capitalista.

Una continuità che viene indagata a fondo e forse un po’ troppo apoditticamente dall’autore, che liquida l’abbandono delle idee razziste, dell’antisemitismo e della conquista dello spazio vitale all’est, da parte di Höhn, con troppa leggerezza, considerandole quasi accessorie all’idea di organizzazione dello Stato e dell’economia. È evidente che linee di continuità esistono e l’autore le indaga a fondo, pur tuttavia, lo stesso Chapoutot è costretto ad ammettere che questa continuità è precedente al Reich nazista e affonda le radici da un lato nel darwinismo sociale del tardo ottocento e dall’altra dagli studi sull’organizzazione d’impresa dei primi del novecento.

Non è nemmeno riscontrabile una specificità nazista nell’accogliere queste teorie come dimostra lo stesso caso di Höhn che si trova a suo agio sia sotto il regime che sotto la repubblica federale.

Dunque la specificità del volume sta, a mio avviso, in altro; nell’indagine del nazismo come rottura del positivismo e nel capitolo in cui, in continuità con La legge del Sangue, dimostra come Hitler intenda superare lo Stato, entità che imbastardisce il sangue germanico, eredità di latini e giudei, per mettere al centro la razza da cui discende la comunità. Una rottura dello stereotipo dell’iperburocratizzazione del nazismo che, ci spiega invece l’autore, è figlia non dello statalismo ma dal moltiplicarsi di agenzie, potentati, feudi, ognuno intento a inseguire lo scopo della purezza della razza e della comunità germanica.

Non fa eccezione il governo dell’economia del Reich, che è per giunta fin da subito, economia di guerra prima votata al riarmo e poi a soddisfare il conflitto. Eppure l’autore ci mostra come questa economia (ed in fondo il regime tutto) pur basandosi sull’eliminazione anche fisica dell’altro, del non allineato, cercasse per la maggioranza dei suoi cittadini di costruire un consenso, financo un’adorazione per l’unico Reich, l’unico popolo, l’unico Führer.

Su questo l’organizzazione economica nazista differisce poco dalle altre organizzazioni capitaliste coeve. Il manager è dotato di autonomia e libertà non verso le scelte ma sul modo di realizzarle, libero di obbedire dunque. Responsabile dei propri insuccessi (veri e presunti) come nella Russia stalinista. Ma l’operaio come l’impiegato devono aver modo di riposarsi e tornare ad essere produttivi; dunque il regime ne organizza il tempo libero come nei dopolavoro fascisti e infine deve poter sognare che il bene che sta producendo potrà essere suo. Un modello che si identifica fin dal nome, per esempio, della Volkswagen la vetturetta per tutti proprio come la Ford Model T sarebbe stata l’auto costruita da quelli che la producevano.

Vi è dunque sì una continuità ma a dispetto di quello che l’autore sottintende è più propria del modello industriale, di cui il nazismo può essere considerata la più efferata delle varianti, che dell’ordine della razza e del sangue. Vista così stupisce meno la capacità di Höhn di ricostruirsi un destino nella Germania democratica di cui farà parte. Il management per obiettivi non fu infatti prerogativa del solo miracolo economico tedesco e non fu la “scoperta” del passato nazista di Höhn a farlo tramontare, casomai (come giustamente nota anche l’autore) fu la sua versione più ridotta, flessibile e meno invasiva teorizzata negli Stati Uniti, a decretarne la fine.

In questo sì il peso della sovrastruttura degli ex nazisti può aver giocato un ruolo di appesantimento e di minor capacità di adattamento alle mutate forme di produrre che, a partire dagli anni ’70, cambiarono l’organizzazione del lavoro almeno nel mondo occidentale.

Vi è poi infine un salto logico difficilmente giustificabile in Chapoutot quando nell’ultimo capitolo, liquidato Höhn e decretato storicamente il fallimento del suo modello, l’autore tende a fare un parallelo tra l’attuale alienazione del lavoro e le teorie del moderno capitalismo.

Alienazioni che sono del tutto evidenti e forse persino più marcate, probabilmente perché difettano di un contromodello culturale e sociale, che negli anni del miracolo economico ma che stentiamo a vedere come discendenti da una elaborazione giuridica che giustificava un regime assassino e genocida.

Come direbbe un caro amico: il problema è il capitalismo casomai, non Höhn.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 396 del 10 aprile 2021.

L’algoritmo pubblico per governare la rete

La nostra collaboratrice Maria Mariotti si è, giustamente, risentita per il fatto che Facebook ha cancellato, dal suo profilo, il suo articolo apparso sulla nostra rivista sabato scorso, che aveva come immagine a corredo una foto con tre donne etiopiche a seno scoperto.

Si trattava di una cartolina che i nostri coloni mandavano in patria per magnificare cosa trovavano nell’impero. Per ironia della sorte all’immagine di Maria è toccata la stessa sorte che sarebbe toccata alla cartolina fosse stata intercettata dalla censura del Ministero per l’Africa italiana che non vedeva di buon occhio tali pratiche perché toglievano purezza alla razza, come ricorda Emanuele Ertola in un bel libro Italiani d’Africa.

Ma il tema sollevato è molto più ampio e annoso. Le piattaforme informatiche, non solo quelle di social network, per anni si sono sempre considerate non responsabili dei contenuti pubblicati sulle loro pagine. Non degli editori quindi da dei meri fornitori di uno strumento. Essendo tutte nate negli Stati Uniti esse risentono di una certa inclinazione a far prevalere il diritto di espressione rispetto a quello di tutela dei dati e dell’onorabilità dei fruitori. A differenza di quello che avviene qui in Europa dove si ha una maggiore attenzione al secondo aspetto.

Tuttavia, fin dall’inizio della loro espansione le piattaforme social si sono poste il tema della “moderazione” dei contenuti che venivano pubblicati sul loro strumento. La prima impiegata assunta da Facebook a tale scopo fu assunta tre anni dopo la nascita del social network nel 2004. A differenza, infatti, di quello che normalmente si pensa la questione non è gestita soltanto dagli algoritmi e oggi Facebook ha diversi uffici sparsi per il mondo che controllano i contenuti postati e le segnalazioni con competenza, ognuno, per una determinata area geografica.

Il reporter del Newyorker, Andrew Marantz, ha dedicato al tema un bel volume, Antisocial, e numerosi articoli sulla rivista, uno dei quali proprio sul rapporto tra Facebook e la politica di gestione dei contenuti, apparso sul numero del 12 ottobre 2020 della rivista.

Quello che emerge dalle inchieste di Marantz è che Facebook, ma il discorso può valere anche per gli altri social, ha politiche rispetto a cosa viene pubblicato sulle proprie pagine diverse a seconda del contesto, della convenienza “politica” dell’azienda ma anche del “vento che tira”.

Unica costante, di cui ha fatto le spese la nostra collaboratrice, il nudo e i contenuti pornografici che paiono essere sempre e comunque boccati applicando l’adagio delle truppe sovietiche a Stalingrado, prima spara poi fai le domande.

Così non è stato invece per organizzazioni e gruppi neonazisti qui in Europa che hanno goduto a lungo di un diritto di tribuna piuttosto esteso e incontrollato e che hanno visto bloccare le loro pagine, immaginiamo del tutto casualmente, mentre l’Unione Europea affrontava il tema della privacy e della tassazione degli utili delle piattaforme.

Casi ancora più marcati riguardano le “concessioni” ai regimi mediorientali o a quello cinese che tutte le piattaforme hanno accordato per non perdere l’accesso al mercato cinese.

Anche negli Usa le cose non sono andate meglio. C’è stato il caso di Cambridge Analitica, il sostanziale “mani libere” accordato a Trump e ai suoi sostenitori per tutta la sua prima campagna presidenziale e per larga parte del suo mandato. Poi col cambiare del vento, qualcosa lì si è mosso. Ricorderete l’audizione di Marc Zukerberg al congresso americano, incalzato dalle domande della Ocasio Cortez e poi la scelta di Twitter (che ha costretto le altre piattaforme ad adeguarsi) prima a segnalare, poi a oscurare e infine a bloccare i tweet del Presidente in carica Donald Trump.

È oggi del tutto evidente che il tema della neutralità delle piattaforme non ha più senso. Da qui discende una necessità di chi e come si regolano i contenuti che hanno oramai in modo inconfutabile dimostrato la loro pericolosità sia a livello individuale che sociale.

L’idea che trattandosi di aziende private queste abbiano il diritto di autoregolarsi a piacimento, non è un concetto in contrasto con i dogmi del socialismo reale ma con i principi della democrazia liberale. Da sempre gli organi di informazione sono soggetti regolati e soggetti al controllo pubblico. Leggi, organismo, comitati di garanzia, da sempre e in ogni ordinamento democratico regolano la vita di stampa, radio e televisione.

Nel caso della rete il problema si complica di molto per due fattori su tutti. La quantità di utenti e contenuti e per la dimensione sovranazionale delle piattaforme.

Nel primo caso una proposta potrebbe essere quella di far sviluppare, gestire e implementare gli algoritmi di controllo non alle stesse piattaforme ma a soggetti regolatori pubblici o comunque indipendenti; mentre per il secondo punto occorrerebbe conferire il mandato del controllo ad agenzie sovranazionali in ambito almeno europeo, per quanto ci riguarda, e magari in ambito di nazioni unite per l’intero globo.

La trasformazione che questi strumenti hanno impresso alle nostre vite e soprattutto quella che hanno imposto alle nuove generazioni ci obbligano ad affrontare il tema e a dargli una risposta politica di dimensioni e confini nuovi ed inediti.

Articolo uscito su Cultura Commestibile n. 386 del 30 gennaio 2021

L’attuale manzoniano della malagiustizia

Può apparire scontato, se non banale, che durante una pandemia si ripubblichi “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, non fosse che, come scrive Sciascia nella sua nota al volume per le edizioni Sellerio (nota che da sola vale l’acquisto), il testo del Manzoni sia uno dei suoi migliori quanto uno dei più misconosciuti. Come capita spesso ai testi che hanno fortuna di essere citati senza essere spesso letti o, peggio, capiti.

Testo di drammatica attualità e potenza quello di Manzoni che si interroga sull’ingiustizia della giustizia. Non sull’errore giudiziario, ma sul metodo accusatorio, sulla protezione che il giudice si costruisce da solo o come corporazione, sul bisogno di perseverare nella bugia una volta che questa è costruita per sostenere la tesi accusatoria, di piegare la legge alla consuetudine e al metodo di dover dare colpevoli alla folla.

Si parla di due untori, ma come nota Sciascia nel chiudere della sua nota, si potrebbe parlare dei terroristi degli anni ’70 e dei tanti imputati dei processi di oggi, condannati prima facendosi sfuggire intercettazioni e atti processuali che trovano ampia fortuna sulle pagine delle odierne gazzette e poi perdurando la pena del processo per anni e anni.

È quindi il metodo dello scritto del Manzoni che stupisce e convince. In punta di piedi, non volendo offendere in alcun modo l’illustre predecessore, nella premessa Manzoni, quasi scusandosi, dice che il suo lavoro si discosta da quello del Verri perché se quest’ultimo aveva come scopo combattere la tortura come metodo d’indagine, egli si pone il tema più generale della giustizia che sbaglia. E sbaglia consapevole di sbagliare come dimostra l’autore nell’entrare, forse pedantemente, nell’analisi delle norme e delle consuetudini che regolavano l’uso della tortura come metodo d’indagine ma soprattutto, nei meccanismi che regolavano la promessa di impunità che l’autorità poteva concedere per far confessare complici e mandanti agli accusati. Dunque non era, per il Manzoni, la tortura il problema ma l’arbitrio, l’abuso del giudice per ottenere non la Verità, ma un colpevole.

Storia vecchia direte, e qui ritorna Sciascia, la sua paura della legge sui pentiti, appena varata quando l’autore siciliano ripubblica per Sellerio l’opera del Manzoni e scrive la nota che accompagna quel volume e la ristampa attuale. E quanto attuale anche oggi può essere questa paura se pensiamo a Guantanamo, o per restare a casa nostra a quando venticnque anni fa nella solita Milano si pontificava di “metterli in galera qualche giorno per farli parlare”. Nell’applauso festante delle gazzette e degli inviati infreddoliti di fronte al maestoso (ma bisognoso di chiudi per stare in piedi come racconta Giorgio Fontana in un altro bel libro pubblicato sempre da Sellerio) Palazzo di Giustizia, con sfondo mobile di tram sferraglianti. Non stupisce a ripensarci oggi che poi uno veda anche la Madonna.

C’è poi un ultimo punto, ed è sempre Sciascia a farcelo notare, che è quello del reato di cui sono accusati gli sventurati protagonisti: di causare la morte per peste attraverso unguenti velenosi. Viene da dire superstizione da antichi da cui, oramai, siamo immuni. Non pare così, se si vuol dare retta a Sciascia, che ci racconta come la storia invece che essere una palla di cannone accesa è più spesso un arabesco che procede in avanti e indietro. Se infatti tra gli antichi vigeva il pregiudizio delle pestilenze come maleficio commesso da uomini per diabolici intenti, in quello che immaginiamo come buio medioevo si tendeva ad incolpare l’influsso degli astri o il castigo divino quali cause delle pestilenze.

Per tornare nel Seicento, raccontato dal Manzoni, a ricercar l’untore come capro espiatorio della non conoscenza e delle inefficienze della sanità lombarda, rifluendo invece nello scientismo dell’Ottocento che aveva a nemico igiene e ratti. Ma non occorre arrivare ai no vax attuali o ai complottisti del 5g per vedere che questo andirivieni di colpevoli aveva, ai tempi della spagnola, trovato nei governi i colpevoli. La prima guerra mondiale – scrivevano i complottisti dell’epoca – era finita troppo presto e occorreva diminuire ancora un po’ la popolazione mondiale attraverso qualche pozione venefica. All’obiezione che anche qualche potente fosse deceduto, si trovava facilmente rimedio nel dire che si era confuso tra veleno e antidoto.

Il punto però, aldilà del consolarci o preoccuparci per la lunga durata del complottismo, è quando queste tesi trovano una Procura zelante, una inquisizione compiacente, un giudice svogliato e ti trovi a passeggiare per Milano, compiendo il tuo mestiere, con una boccetta d’inchiostro in mano, oggi magari con uno smartphone 5g, ed invece di trovare giustizia ti imbatti nella Legge.

Articolo uscito su Cultura Commestibile n.361 del 4 luglio 2020

Cultura Commestibile in video

Cultura Commestibile si dà al video. In epoca di quarantena Cultura Commestibile, oltre all’appuntamento settimanale con la rivista sul www.culturacommestibile.com, ha “costretto” i suoi autori a metterci la faccia. Ci sono anche io che vi racconto Spillover di David Quammen equesto è il risultato…

Ci siamo già passati

Gustav Klimt Medicina https://it.wikipedia.org/wiki/Quadri_delle_facolt%C3%A0
Gustav Klimt, Medicina, ricostruzione del dipinto andato perduto nel 1945

Siamo sommersi dalle informazioni. Numeri, tabelle, grafici. Andamento dei casi, diffusione dell’epidemia, numero dei morti. Sui social ci scopriamo tutti virologi, come reazione alla nostra paura di non sapere.

Io in questi casi mi rifugio in quelli che sono stati i miei studi e quello di cui dovrei, ma non è necessariamente detto, capire qualcosa di più. Così mi sono letto il volume di Laura Spinney, 1918 L’influenza spagnola, la pandemia che cambiò il mondo, Marsilio editore.

Dalla storia non si apprende niente, mi dicevano i miei maestri, se pensiamo che questa si ripeta sempre uguale. Aggiungo io, nonostante l’affetto per il vecchio Karl, anche se pensiamo che si ripeta due volte sotto forma di tragedia e di farsa.

La storia può darci però un’indicazione sulle persistenze e sulle rotture. Su cosa rimane immutato (o cambia con lentezza estrema) e cosa muta, magari drasticamente, di fronte all’incalzare del tempo.

Vale anche per le epidemie e cercare nell’influenza che falcidiò il mondo tra il 1918 e il 1920 un modello ripetibile oggi sarebbe l’equivalente di affidarsi al volo delle rondini per predire il futuro.

Il mondo di oggi è completamente diverso, la tecnologia, la medicina, il fatto che non ci sia in Europa una guerra mondiale devastante in atto sono modificazioni gigantesche che rendono impossibile una comparazione.

Tuttavia, le linee di persistenza rimangono e forse aiutano a capire o magari consolano. Sapere che l’umanità è passata da qualcosa di simile potrebbe aiutarci. Sapere che siamo sopravvissuti a pandemie devastanti da Uruk a Perinto, da Ippocrate all’OMS, ci dona una speranza e un conforto di fronte alle nude cifre dei bollettini serali.

Ci dà anche un’idea se le misure in atto hanno una qualche efficacia e beh, spoilerando un po’, posso dire che sì, storicamente hanno avuto un senso. Mentre la tesi di Boris Johnson sull’immunità di gregge contrasta con il fatto che l’epidemia spagnola ebbe tre fasi acute e drammatiche e che le successive due colpirono gli stessi luoghi della prima. Questo in condizioni di contenimento dell’epidemia ben peggiori delle nostre e quindi con un contagio stimato tra il 70 e l’80 per cento della popolazione, ben sopra quelle che gli scienziati ci dicono essere le percentuali dell’immunità di gregge. Immunità che, probabilmente, si raggiunge davvero con un vaccino.

Nel 1918 la scienza e la medicina si presero, almeno nel mondo occidentale, la scena e contribuirono a far passare nelle persone l’idea della vaccinazione, dell’igiene, della profilassi; queste misure anche se non strettamente connesse alla battaglia contro l’influenza, contribuirono decisamente al miglioramento delle condizioni di vita delle persone. A New York questo si tradusse in un miglioramento della vita dei nostri emigrati che uscirono da una condizione di ghetti insalubri e pochi anni dopo arrivarono persino ad eleggere uno di loro sindaco, Fiorello La Guardia.

Ma lo studio dei comportamenti durante l’epidemia della spagnola ci aiuta anche a capire che ci sono alcune istintività contrastanti in noi da una parte scrive la Spinney “i numeri [illustravano] quello che le persone avevano compreso con l’istinto; un accadimento comincerà a esaurirsi quando la densità di individui suscettibili sarà scesa sotto una certa soglia”. Cioè stiamo a casa, isoliamoci, e il contagio terminerà prima. Dall’altra parte però “anche se i medici ripetono di tenerci lontani dagli individui infetti durante un’epidemia noi tendiamo a fare il contrario. Perché? Una risposta, valida soprattutto nei tempi antichi, potrebbe essere la paura di una punizione divina. […] Un’altra risposta potrebbe essere la paura dell’ostracismo sociale una volta passato il pericolo. O forse è semplicemente inerzia. [..] Gli psicologi suggeriscono una spiegazione ancora più interessante. Sono convinti che la resilienza collettiva nasca dalla percezione di sé stessi nelle situazioni di pericolo: non si identificano più come individui, ma come membri di un gruppo”.

Il che non giustifica quelli che vanno a fare passeggiate nei parchi cittadini invece che stare a casa ma forse ci aiuta a comprenderne le ragioni e convincerli che, secondo me, rimane sempre – anche durante una pandemia – preferibile al mandare l’esercito per le strade.

Naturalmente anche durante l’epidemia della spagnola non mancarono le polemiche sulle misure adottate e sul loro rispetto. Chiusure di esercizi commerciali, bar, teatri e cinema erano considerate a ragione essenziali dalla scienza ma malviste dalle autorità politiche che tardarono o evitarono del tutto di adottarle. Laddove, come a New York, furono adottate l’epidemia fece molti meno danni cha altrove. Sul mancato rispetto si distinse, soprattutto in Spagna, invece la Chiesa Cattolica che non rinunciò a riti e enormi processioni di massa per scacciare il contagio, che ebbero invece l’effetto di propagare il morbo. In questo la decisione di Francesco I di chiudere da subito le Chiese ha l’indubbio merito di aiutare la prevenzione del virus ma rappresenta, a mio avviso, uno degli elementi di rottura più epocali di questa pandemia.

Infine più controversa fu allora la decisione di lasciare aperte le scuole, ritenute più sicure e più salubri delle abitazioni per i fanciulli dell’epoca e naturalmente non mancarono anche allora forti polemiche e tensioni sull’uso delle mascherine. Fu tuttavia in quell’occasione che nacque la consuetudine per i Giapponesi di indossarla anche per il comune raffreddore. Chissà se lo faremo anche noi d’ora in poi.

Insomma ci siamo già passati, il che non elimina la paura, non cancella il lutto e non lenisce il dolore ma magari aiuta a passare più speranzosi il tempo.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.346 del 21 marzo 2020

L’angusta gabbia del palcoscenico nella terra di Tebe

In questo autunno che tarda ad arrivare ripartono consuete le stagioni teatrali: Pupi e Fresedde ha presentato quella del teatro di Rifredi lo scorso 27 settembre inserendo come spettacolo di apertura la prima produzione in italiano dell’autore uruguaiano Sergio Blanco. Tebas land è un testo potentissimo ed emozionante che Angelo Savelli, che cura anche la regia dello spettacolo, ha reso con una traduzione secca e asciutta. Lo spettacolo andato in scena in anteprima al festival di Todi questa estate vede un giovane parricida ed un regista confrontarsi nel campo da basket del cortile di un penitenziario.  Lo sdoppiamento tra la realtà carceraria e lo spettacolo che il regista vuole trarre da questo omicidio passa attraverso riferimenti letterari, primo su tutti quello di Edipo che ispira anche il nome dell’opera, ma anche e soprattutto attraverso i colloqui tra il regista, il parricida e il giovane attore che lo interpreterà sulla scena. Piani che si intersecano e definiscono la tragedia, a partire dal resoconto cronachistico di quanto accaduto per poi scavare e instaurare un rapporto tra l’autore e il detenuto, contrappuntato dall’attore che non è mera cartina di tornasole della riuscita dello spettacolo ma diventa pian piano ulteriore elemento di confronto e conoscenza. Uno spettacolo che ricostruisce il ristretto orizzonte carcerario ponendo lo spettatore sul palco a guardare la gabbia del campo da pallacanestro, asserragliato anche lui e privato del rassicurante confort della propria poltrona in platea. Messo al centro della scena il pubblico è quindi in grado di godersi appieno il gioco di attori che Ciro Masella ma soprattutto Samuele Picchi introducono anche fisicamente tra un rimbalzo di pallone e l’altro. Ancora una volta grande merito al Teatro di Rifredi nel  portare in Italia un autore affermatissimo non soltanto nei paesi di lingua spagnola come era già accaduto con Josep Maria Mirò, che sarà in scena sempre a Rifredi per il terzo anno con Il principio di Archimede o col francese Rémi de Vos con il nuovo spettacolo Tre rotture anch’esso nel cartellone rifredino. Tebas land sarà in scena a Rifredi dal 10 al 27 ottobre con ben 14 repliche che conviene prenotare per tempo visti i posti ridotti per l’allestimento scenico scelto.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 324 del 4 ottobre 2019

La fase complessa dell’editoria italiana

Arrivando al Salone del libro di Torino la prima cosa che noti entrando nel padiglione 3 è lo stand arabeggiante degli Emirati Arabi Uniti. Dopo le polemiche di due settimane sulla libertà di informazione, la libertà in genere, il fascismo e la democrazia, come direbbe un vecchio comunista, capisci che la fase è e rimane complessa. Poco più in là lo stand della Repubblica Popolare cinese con in bella mostra le copie in tutte le lingue del mondo del bestseller del leader Xi Jinping, “Governare la Cina” (edito per inciso in Italia da Giunti), conferma la sensazione di disagio. Si dirà che il tema era il fascismo ritornante, l’egemonia della nuova destra nel nostro Paese, non la democrazia nel mondo. Sarà ma rimango perplesso. Altaforte non c’è più al salone, espulso dagli organizzatori dopo la pressione mediatica e la denuncia di Sindaca di Torino e Presidente della Regione per apologia di fascismo. Denuncia che qualche avvocato definirebbe temeraria per quella che è la giurisprudenza prevalente sulle cosiddette leggi Scelba e Mancino, non solo negli ultimi anni ma da sempre. Il tema però era politico anche se, come al solito, in Italia la politica per nascondere la sua debolezza ricorre all’aiuto della giustizia. Ma il tema politico, sollevato per primo da Cristian Raimo – consulente del salone stesso – e poi amplificato dai Wu Ming c’era tutto e poco senso hanno le critiche che negli anni scorsi editori neofascisti erano già stati al salone del libro. Negli scorsi anni gli editori neofascisti non pubblicavano il libro del ministro degli interni, il tema della conquista dell’egemonia gli scorsi anni non era posto, oggi sì. Si può discutere dell’efficacia del boicottaggio, su chi colpisce, a chi fa male – a me che ho comprato i biglietti mesi prima in base al programma o all’editore neo fascista – ma non sulla legittimità che hanno alcuni lavoratori – seppur intellettuali – a non svolgere il loro lavoro per protesta. Ma, mi perdoneranno gli scrittori boicottanti, dubito che il loro gesto avrebbe ottenuto il risultato atteso senza che una sopravvissuta ai campi di sterminio, la presidente del museo di Auschwitz avesse posto il suo sovrappiù di forza morale dicendo o lei – venuta a celebrare il centenario di Primo Levi – o i fascisti. Ma una volta impacchettato lo stand di Altaforte, ristabilito l’equilibrio antifascista del salone, i problemi son finiti? Certo che no, nessuno lo pensa. Perché prima del salone Einaudi pubblicava il rossobruno Fusaro e non nella collana delle supercazzole, ma tra i piccoli saggi che vedono tra i colleghi del “filosofo” i Montanari, i Settis e i Ginsborg e dopo il salone il solito Furfaro esce con Utet con il suo nuovo libro. È poi notizia degli ultimissimi giorni che Di Battista – che di fascistissimo ha sicuramente il babbo – curerà addirittura la saggistica per Fazi, editore che sul finire degli anni novanta andava piuttosto di moda tra la sinistra engagé e che pubblicava l’esordiente Simona Baldanzi con Figlia di una vestaglia blu che oggi, infatti ripubblica con Alegre.

Nel frattempo, come ricorda la copertina di questo numero di Cultura Commestibile, il governo giallo verde sta per chiudere Radio Radicale, la cui vita è legata a un tenue emendamento leghista mentre si scrive, e ci si chiede cosa faccia al riguardo la #brigatavoltaire costituita da Pierluigi Battista per difendere la libertà di espressione di Altaforte. Probabilmente è troppo intenta a riciclare i libri comprati su Amazon dal giornalista e gettati nel cestino senza leggerli. Almeno D’Annunzio volava su Vienna per gettare i volantini.

Lo dicevamo all’inizio, osservando le donne velate e mascherate intessere un tappeto allo stand degli Emirati Arabi Uniti che la fase era complessa e quindi occorrerebbe non limitarsi alla manichea indignazione di un momento, alla protesta della settimana. Leggere, di solito (visto che di libri in larga parte si parla) è normalmente un buon antidoto. Per esempio, leggere anche solo l’incipit del libro intervista di Chiara Giannini a Salvini aiuta molto. Bastano poche righe, ancor prima del trauma infantile del pupazetto di Zorro sottratto all’asilo al bimbo Matteo, per capire che cambiano i tempi ma non le argomentazioni. In quel Salvini uomo più desiderato dello Stivale dalle italiche femmine, risuona il rapporto, invero molto propagandistico, della virilità maschia di Mussolini che possedeva il Paese come le donne che a lui, vogliose, si concedevano. Che lo scriva una donna che è stata più volte in Afganistan a seguito dei militari italiani, può fare specie ma che la signora avesse qualche problema col senso del ridicolo lo dimostra la sua dichiarazione, a seguito del non poter essere al Salone al banchino del suo editore, di sentirsi come una sopravvissuta dei lager, seppur piccolissima come dice lei. Ecco forse è proprio il senso del ridicolo l’arma da impugnare perché chi fa ridere spesso ha già l’egemonia delle masse. Non credo sia un caso che, come nota Angela Nagle, l’Alt Right americana sia cresciuta coi meme sarcastici sui social network e non coi saggi dei grandi autori. Un modello che anche da noi la lega salviniana ha saccheggiato a man bassa. Da qui discende che “le migliori frasi di Osho” siano più efficaci dei Wu Ming? Probabilmente no, ma data la complessità della fase di cui sopra, appigliarsi alla speranza che una risata li seppellirà rimane comunque consolatorio.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.309 del 18 maggio 2019

Depero a Lucca

Riapre LU.C.C.A. il centro espositivo per l’arte moderna e contemporanea nel cuore di Lucca dopo lunghi lavori di ristrutturazione e riapre al futuro con uno dei futuristi più talentuosi e atipici. Fortunato Depero dal sogno futurista al segno pubblicitario è infatti il titolo e l’oggetto della mostra che sarà visitabile nei rinnovati locali di via della Fratta 36 fino al 25 agosto. Una mostra che prova a raccontare la molteplicità di Depero, uomo dagli ingegni e dalle passioni multiple, che vengono rappresentate nel percorso della mostra dalla centralità del Depero pittore, che si intreccia con il Depero illustratore e il Depero pubblicitario, mantenendo intatto il talento, la visionarietà e lo stile unico.

Particolarmente suggestivi i lavori commissionati da Campari e raccolti in una apposita sala mentre la selezioni delle opere “americane” di Depero ne mostra un lato misconosciuto e lo riposiziona in un contesto mondiale, dimostrandone la sua globalità di artista, facendolo uscire, almeno come artista, dalle secche del dibattito nazional/nazionalista dell’arte degli anni del primo Novecento e del ventennio fascista.

Da segnalare, nello spirito del LU.C.C.A. che ha sempre affiancato a grandi nomi dell’arte uno spazio per giovani artisti emergenti, i lavori di un ebanista, trentino come Depero, Giorgio Conta sposti fino al 9 giugno. Si tratta di alcune sue sculture in legno e opere pittoriche in cui il materiale ligneo è sia materia che forma espressiva, realizzate da un talento sicuramente da seguire.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 308 del maggio 2019

Quella voce che non ci sarà più

Accendere la radio, prima del solito, attendendo le note del Requiem di Mozart nell’esecuzione di Von Karajan e i Berliner come al solito, anche se oggi quel requiem ha un senso diverso; domandarsi a chi sarebbe toccata la rassegna “che non avremmo mai voluto fare”. Probabilmente al direttore, che infatti c’è ma in coppia, perché Alessio Falconio bravissimo direttore di Radio Radicale sa che la voce potrebbe rompersi e quindi ha chiesto – suppongo  – di farsi accompagnare da Roberto Spagnoli. I due iniziano a leggere; la notizia, l’unica che daranno dalla lettura dei giornali, è quella che tutti noi sappiamo: ieri, mercoledì 17 aprile, Massimo Bordin ci ha lasciati. Portato via da un tumore, una malattia che aveva trattato con riservatezza, come tutte le cose della sua vita. Mi trovo a piangere mentre i due leggono il ricordo dell’uomo che mi ha svegliato per gli ultimi 15 anni, che mi ha fatto da faro nell’editoria e nella politica italiana. Mi pare che se ne sia andato via lo zio bello (ché Bordin era pure bello) e intelligentissimo, quello a cui avresti chiesto qualunque consiglio. Nell’etere le due voci, emozionate, sofferenti, leggono le parole dedicate a Bordin a partire da il Foglio, giornale dal quale dispensava una rubrica, rapida, affilata, mai banale. Le parole di Adriano Sofri, Giuliano Ferrara, Guido Vitiello, colleghi, amici, tutti nipotini lasciati spiazzati dalla morte dello zio bello.

Nelle parole che lo ricordano, nei giornali, nei comunicati delle istituzioni e dei politici, nei post dei semplici ascoltatori, c’è emozione vera, sconforto e sofferenza, ammirazione. Tutti gli schieramenti si ritrovano nel lutto, perfino Crimi, definito da Bordin Gerarca minore, quello che si è issato a vessillo della morte dell’emittente per la quale Massimo è stato bandiera e simbolo, sente il bisogno di esprimere cordoglio.

In un Paese che fa polemica su tutto, che si divide sulle morti come sulla vita, per Bordin piovono lacrime tutte uguali e basterebbe questo a far comprendere la grandezza dell’uomo. Chi non ho lo ha conosciuto potrebbe pensare che fosse un paraculo e per questo tutti ne portano simbolicamente il feretro a spalla, niente di tutto questo: se c’era un uomo di parte questo era Bordin, di parte ma non fazioso. Talmente convinto delle sue idee da tenere testa a Pannella, talmente galantuomo da dedicare più tempo alla lettura delle idee a lui più distanti che a quelle a lui comuni. Magari contrappuntandole con sospiri, qualche “vabbè” o quel “figuriamoci” che era una sentenza di cassazione.

Oggetto di culto per un manipolo di adepti, una piccola coorte che si autoproclamò in un gruppo chiuso su Facebook – riservato come lui – melomani bordiniani, che facevano a gara a trascrivere le migliori punteggiature di Bordin nella rassegna appena sentita, spesso quasi in tempo reale, beandosi tutti di quello che tutti stavamo contemporaneamente sentendo. Culto della personalità? Può darsi ma dipendeva dalla personalità.

Se la cosa facesse piacere a Bordin non è dato sapere; riservatissimo, della sua vita personale si sapeva pochissimo e sempre per racconti di altri. Mai una volta ha letto nella rassegna uno dei suoi corsivi, si limitava se il punto di vista da lui trattato non era stato preso in considerazione da nessun altro a dire che “pure un piccolo corsivo ne parla oggi sul Foglio”. Modesto ma consapevole del suo talento.

Tifoso della Roma, si sarà chiesto come mai gli era capitato un figlio juventino, ed evitava con cura di trascinare il calcio nella rassegna o negli altri programmi, sgarrava pochissime volte, spesso in prossimità del derby, quelli stravinti o quelli strapersi. Si concedeva solo qualche rimbrotto a chi appellava “capitano” altri da Totti. Romano, amava Roma, come la amano i romani veri, con un amore disincantato ma enorme, che in parte condivideva per Napoli e Palermo.

Un talento immenso, una capacità di analisi finissima che si combaciava con una memoria storica incredibile. Probabilmente una maledizione per lui, che confrontava le mutevoli posizioni di questo o quell’esponente politico con quelli del passato e con le giravolte che la politica di questo paese riserva. Ma Bordin era anche una cultura storica, politica e filosofica notevolissima, capace di tenere testa, di ribattere sul punto, di smentire persino, uno che era “memoria e verità” come Marco Pannella. Le loro conversazioni domenicali erano epiche, smisurate, incommensurabili.

Bordin contrappuntava, smitizzava, facendo incazzare Pannella e incazzandosi a sua volta, seppur con altro stile. Perché Bordin era anche incazzoso, probabilmente focoso: rimaneva in lui eco del militante trozkista nella Roma degli anni ’60, fermato da Pannella in Piazza Venezia prima di strappare uno striscione del MSI.

Radicale sì ma col cuore a sinistra, la sua conoscenza del movimento operaio, della storia della sinistra socialista e comunista, tradiva origini ma anche affinità mai nascoste. Tanto che per offenderlo Pannella, in una domenica di Pasqua di 19 anni fa, gli diede di “stronzo dalemiano”. Lui, con addosso una maglietta rossa con su scritte le parole “dubitare, disubbidire, trattare” abbozzò male una risposta, scoprimmo poi che la cosa l’aveva anche ferito, fino a portarlo poi alle dimissioni da Direttore, ruolo che per noi non ha però mai lasciato. Ma in radio tutto questo non traspirò, imprigionato nella nuvola azzurra del fumo di sigari e sigarette che i due consumavano in quantità industriali e che ne hanno decretato la fine terrena. Finirono a declinare la propria diversità a partire dalla cravatta di Pannella, un enorme pendaglio tutto colorato su una base giallo canarino, davvero importante: “siamo diversi – fece Pannella. Certo io non ho una cravatta così – rispose Bordin. E questo è un tuo limite – concluse Pannella”. Poi continuarono a parlare ancora per anni, fino alla fine di Pannella, di Gambetta dell’incontro con Croce (di cui circolano almeno una ventina di versioni) a prendersi affettuosamente in giro: “Marco mancano un po’ più di quaranta minuti alla fine della trasmissione, ce la fai a chiudere la parentesi?”.

Maestro lo hanno definito in tanti e maestro lo è stato davvero, di storia, di politica, di giustizia, di giornalismo. Ascoltare la sua rassegna, o lo speciale giustizia o le trasmissioni sul Medio Oriente o Israele era come seguire un corso universitario gratuito. Ma fu anche maestro involontario dei nostri figli, costretti da noi adepti ad ascoltarlo nel tragitto casa scuola. Mio figlio ai tempi dell’asilo riconosceva immediatamente la sua voce e lo chiamava “Bin Bin”. Glielo scrissi, mi rispose che prima o poi, crescendo qualcuno di quei bambini avrebbe finito per denunciarlo.

Fu però maestro suo malgrado di tanti di noi che abbiamo imbrattato le pagine dei quotidiani. Quante volte nello scrivere un pezzo ci siamo chiesti: lo leggerebbe Bordin? e come lo troverebbe? Quindi via a tagliare, stringere, eliminare retroscena e sparate, anche se scrivevamo per un quotidiano di provincia che nell’edicola di Largo Argentina non sarebbe mai arrivato.

Tutto questo non ci sarà più e non trovo pace a questa idea; pensare che anche la sua memoria e il suo lascito ci abbandoneranno il 21 maggio, perché questo governo criminale, spegnerà Radio Radicale è un sovrappiù di dolore che non meritiamo. Se hanno un senso le lacrime e le parole spese per Massimo Bordin sta nel provare fino all’ultimo a far vivere la sua radio.

Tutto il clamore sulla sua fine, fatti gli scongiuri di rito, lo avrebbe scacciato con un “un po’ esagerati” e si sarebbe rimesso al lavoro per la sua radio, puntuale alle 7,35 del mattino. “Buongiorno agli ascoltatori di Radio Radicale….”

Articolo apparso sul Cultura Commestibile n.305 del 20 aprile 2019