Farsi da parte per raccontare l’indispensabile.

Come Carrère ha saputo scomparire per raccontare il processo degli attentati di Parigi.

Non ho il culto di Emmanuel Carrère ma V13 era un libro, per me, imperdibile. La sera del 13 novembre 2015 senza alcun motivo particolare misi come foto di copertina di Facebook una foto dei tetti di Parigi. Dopo alcune ore fui sommerso di chiamate e messaggi che mi chiedevano se fossi nella capitale francese e se stessi bene. Era in atto uno dei più efferati attentati avvenuti in Europa. Più di cento persone, in prevalenza giovani, morivano e molti di più venivano feriti, sotto i colpi di Kalashnikov o dai bulloni delle cinture esplosive dei terroristi dell’ISIS. Tutto questo mentre stavano guardando una partita, sorseggiando un cocktail in un bistrot o partecipando ad un concerto al Bataclan. Molti di loro avevano l’età che avevo io quando a Parigi ho abitato per circa un anno. Quelle chiamate di quella sera, quelle immagini, quei luoghi familiari, mi colpirono profondamente. A ripensarci sono scosso anche oggi e riesco ad ammettere a qualcuno solo ora che per lungo tempo quando mi trovavo in una sala cinematografica o in un teatro, mi sorprendevo a fissare la porta temendo un’irruzione di un commando; talvolta, i primi tempi, non mi era facile concentrarmi su quello che accadeva sul palco. Reazioni probabilmente esagerate, lo ammetto, ma c’erano e dovevo farci i conti.

Quando poi nel settembre 2022 è iniziato il processo ho letto e raccolto in una cartella del mio PC tutte le cronache del processo ai “resti” del commando omicida. Non ho letto quelle che Carrère ha fatto, settimanalmente, sul Nouvel Observateur e pubblicate in Italia da Repubblica, ma quelle puntuali, precise, talvolta algide, degli inviati di Le Monde. Le Monde è uno dei pochi giornali del pomeriggio rimasti. Esce a metà del giorno, è una lettura serale, poca cronaca, molti pensieri. Quelle cronache hanno, inevitabilmente, fatto da contrappunto, da paragone, al libro di Carrère. Ne hanno smascherato, a me, un grande pregio: l’assenza dell’autore.

Non è facile per nessuno in fatti del genere, come dimostra il presuntuoso inizio di questo mio pezzo, mettere distanza tra il racconto di un fatto e come quel fatto, così determinante, ha influito sulla propria esistenza. Carrère in realtà nel libro, e nel racconto dei fatti, ci entra, progressivamente, pudicamente. Mai o quasi quando a parlare sono le vittime, parzialmente quando tocca agli imputati, largamente quando è la comunità della legge la protagonista. L’autore riprende il suo ruolo alla fine, quando le persone non rappresentano sé stesse ma quell’insieme di norme comuni che ci definiscono come comunità, come democrazia. Quando lui (e noi con lui) ci convinciamo che aldilà delle responsabilità politiche del nostro essere occidentali, il nostro sistema democratico e liberale, il nostro amministrare la giustizia in nome della legge e non della vendetta ci renda migliori, sì migliori, dei terroristi. Pur descrivendoli e giudicandoli senza pietismo sociologico ma con umana empatia.

Era poi questo forse il senso di un processo i cui esiti (seppur non siano mancate polemiche) erano previsti e prevedibili, e che riguardava figure di “contorno” rispetto agli autori materiali della strage (tutti deceduti negli assalti o in scontri a fuoco con la polizia). Non era un processo riparativo, non era un processo “per la storia”, era un processo per il diritto, quella somma astrazione che dalla Francia dei lumi rappresenta il terzo pilastro del nostro essere cittadini e non sudditi.

Carrère però ci dimostra tutto questo vivificando questa astrazione attraverso gli uomini e le donne che a quel processo danno vita. Il diritto incarnato se l’espressione non appare troppo blasfema rispetto ai corpi dilaniati, alle ferite materiali e psichiche ai brandelli dei deceduti e dei sopravvissuti. Il libro riesce quindi a dare voce, corpo, sostanza, alle procedure; non indaga nei pruriti che tanto affascinano quelli che seguono la cronaca nera. Non c’è voyeurismo, ma pietà vera che dimostra come l’applicazione della Legge non è affare da iniziati ma materia viva, come la verdura che si compra al mercato.

Si diceva del lavoro “in levare” di Carrère. Il raffronto con le cronache di le Monde mi è servito anche per un’altra osservazione, che all’inizio consideravo un difetto del libro ma che poi, ripensandoci, ne rappresenta un grande pregio. Molte delle frasi che suscitano effetto, emotivamente laceranti, che siano le vittime o i loro familiari oppure gli imputati (soprattutto quelli finiti in quella brutta storia forse più per caso che per scelta) a pronunciarle, sono nel libro identiche, al netto della mia traduzione, a quelle riportate nelle cronache del quotidiano. Segno che l’emotività era già presente e il cronista, come lo scrittore, avevano solo il compito di trovarle e riportarle. Non serviva altro, Carrère nonostante non sia l’autore con meno ego che imprima parole sulla pagina, con grande intelligenza lo capisce e confeziona un libro asciutto, doloroso, non scontato. Per questo davvero bello.

Articolo apparso su Cultura Commestibile, n. 495 del 3 giugno 2023.

Il grande fratello islamico

sansal

Cosa accadrebbe se l’islam più fanatico incontrasse la società del grande fratello Orwelliano? Parte da questa intuizione, 2084 la fine del mondo di Boualem Sansal (Neri Pozza Editore), che al capolavoro di Orwell deve tantissimo a partire dal titolo. In una società post nucleare, uno scenario desertico tra Mad Max e la Tatooine di Guerre stellari si muove il protagonista Ati, un fedele dell’unica religione rivelata, dell’unico stato, dell’unico ordine possibile. Il mondo è finalmente in pace secondo i precetti della sottomissione all’unico Dio e al suo Delegato. Impossibile vedere nella distopia di Sansal qualcosa di diverso di una degenerazione dell’estremismo islamico; i riferimenti sono chiari ed evidenti, i nomi appena modificati. La tesi di Sansal è semplice: i rischi dell’islam sono gli stessi del totalitarismo stalinista, la sottomissione richiesta porta per via religiosa e non ideologica alla fine della libertà, del libero arbitrio. Tuttavia il libro esagera nel richiamo orwelliano, fino a farsi riscrittura in alcuni tratti, sovrapposizione e non suggerimento. Oltre a questo, poi, se le parti “filosofiche” di descrizione dell’ideologia abistana, come quelle di nascita e crescita del dubbio nel protagonista, sono sviluppate, approfondite; l’intreccio narrativo, la storia, sembrano quasi trascurate rispetto al messaggio “politico” del volume, finendo però per lasciare in mano al lettore un romanzo monco o un saggio incompleto. Vi è poi il tema politico del libro, che questa forma a metà, non scioglie fino in fondo. Per l’autore è l’islam (o forse addirittura le religione stessa) ad essere portatrice del totalitarismo, della privazione della libertà, oppure è una sua visione, una sua applicazione fanatica a farci correre questo rischio? La domanda, non banale di per sé, diventa cruciale in questi nostri giorni, in cui il terrorismo islamico colpisce le nostre città e l’occidente si divide, tra ragione e paura, tra dialogo e conflitto. Sansal non è nuovo a posizioni “estreme” nella sua lettura dell’islam, a partire dall’altro suo volume tradotto in Italia, Il villaggio del tedesco (Einaudi), in cui si racconta e sviluppa il legame tra islam e nazismo, oltre a ciò pur essendo algerino scrive in francese ed è in Francia che i suoi libri hanno avuto il maggior successo. Per questi motivi questo volume è stato letto, quasi pregiudizialmente, come un critica da destra (neocon l’ha definito il Manifesto) all’islam o in continuità con Sottomissione di Hollequebec (che è un po’ come dire che I promessi sposi sono la continuazione ideale di Romeo e Giulietta); in realtà la questione è più complessa e soprattutto l’autore pare volutamente, a partire dalla forma ibrida scelta, lasciare al lettore molti più interrogativi che certezze.

Apparso su www.culturacommestibile.com n.171 del 21 maggio 2016