Il Sovversivo Serantini cinquant’anni dopo

Franco Serantini aveva vent’anni. Orfano era cresciuto nella reclusione di istituti e riformatori e aveva conosciuto un primo, fugace, riscatto nello studio e nell’impegno politico in quel di Pisa dove era finito dopo un giro d’Italia degli istituti per figli di NN. Franco Serantini era un anarchico. Un anarchico nella Pisa del lungo sessantotto; quella città che con i suoi studenti era centro di alcune delle elaborazioni più nuove, più radicali, di quella stagione.

In quella Pisa in fermento, il 5 maggio 1972, Franco Serantini partecipò ad una manifestazione illegale per impedire un comizio dell’MSI. Verrà prima picchiato, poi arrestato, probabilmente di nuovo picchiato, poi lasciato morire in una cella del carcere Don Bosco. Ucciso sia dalle botte dell’apparato repressivo dello Stato, quanto dall’indifferenza dello stesso Stato che lo aveva in custodia.

Una storia che già allora fece rumore, con interventi di Umberto Terracini e con gli articoli di Corrado Stajano sul Corriere della Sera. Stajano che nel 1975 dedicò a Serantini un libro, il Sovversivo, che ne ha fissato la memoria in generazioni di italiani.

Michele Battini ritorna, dopo cinquant’anni dal fatto, su quella morte e ne scrive da storico non imparziale, come spiega bene lui stesso, ma avvertendo il lettore che di quei fatti fu protagonista. Giovane studente militante di quei gruppi extraparlamentari che furono una delle poche socialità documentate di Serantini.

Però Battini non si limita al racconto o allo svelamento dei fatti tragici di quel giorno e dei processi, tesi tutti a dissimulare le colpe, ma ricostruisce il contento in cui quella morte accadde. Un contesto locale, con la Pisa ancora operaia in cui le lotte studentesche si provano ad unire a quelle operaie e dalle aule, passano alle fabbriche e poi alla città. Ai quartieri borgata in cui si ammassano, senza servizi, i nuovi operai massa.

Un contesto però anche nazionale con il dispiegarsi della strategia della tensione, il punto di rottura della strage di Milano del 12 dicembre 1969, il doppio stato e la persistente paura, per i gruppi antagonisti, di un colpo di mano reazionario.

Un clima che ha già colpito movimenti e anarchici col “volo” di Pinelli. Quel Pinelli che dà il nome al gruppo anarchico che Serantini frequenta e che tornerà in ballo, quando la procura milanese accuserà il gruppo dirigente di Lotta Continua di aver deciso l’uccisione del commissario Calabresi proprio durante un corteo per ricordare Serantini e di aver dato l’ordine di morte proprio per vendicare lo studente pisano oltre che il ferroviere anarchico.

Trame che si intrecciano nella storia come nel libro, insieme alle botte, all’incuria dei medici, allo zelo assolutorio dei magistrati. Lo Stato impunito, lì dove, ci dice Battini, la persistenza del fascismo (in uomini, prassi e azioni) minava dal dentro la Repubblica e che però ha continuato a mantenersi attivo come testimoniano i tanti casi di cittadini morti mentre erano reclusi e dunque sotto la tutela assoluta dello Stato.

Una persistenza tragica mentre delle altre si perde traccia e memoria, dissolte nell’8 settembre della fine della prima repubblica. A chi gli ha chiesto quanto tempo fosse occorso per scrivere questo libro, Battini ha risposto “cinquant’anni”. Non solo perché egli era lì, non solo dunque per trovare il giusto distacco, anzi. Credo che la molla di questo libro fosse la paura dell’oblio, la necessità, al netto delle tante mutazioni che nella vita di ognuno avvengono, di testimoniare che c’è stato un tempo in cui si andava perché ci si credeva. La frase, che dà il titolo al libro e che viene dall’interrogatorio, sommario, che fu fatto a Serantini quanto fu arrestato, pesto e dolorante. Alla guardia che gli chiedeva perché fosse andato a quella manifestazione il Serantini, a domanda rispose, “Andai perché ci di crede”. Non tornò invece a casa perché lo Stato che incontrò non credeva in se stesso.

Michele Battini, “Andai perché ci si crede”. Il testamento dell’anarchico Serantini, Sellerio, Palermo, 2022.

Articolo apparsi su Cultura Commestibile n.437 del 5 marzo 2022

L’attuale manzoniano della malagiustizia

Può apparire scontato, se non banale, che durante una pandemia si ripubblichi “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, non fosse che, come scrive Sciascia nella sua nota al volume per le edizioni Sellerio (nota che da sola vale l’acquisto), il testo del Manzoni sia uno dei suoi migliori quanto uno dei più misconosciuti. Come capita spesso ai testi che hanno fortuna di essere citati senza essere spesso letti o, peggio, capiti.

Testo di drammatica attualità e potenza quello di Manzoni che si interroga sull’ingiustizia della giustizia. Non sull’errore giudiziario, ma sul metodo accusatorio, sulla protezione che il giudice si costruisce da solo o come corporazione, sul bisogno di perseverare nella bugia una volta che questa è costruita per sostenere la tesi accusatoria, di piegare la legge alla consuetudine e al metodo di dover dare colpevoli alla folla.

Si parla di due untori, ma come nota Sciascia nel chiudere della sua nota, si potrebbe parlare dei terroristi degli anni ’70 e dei tanti imputati dei processi di oggi, condannati prima facendosi sfuggire intercettazioni e atti processuali che trovano ampia fortuna sulle pagine delle odierne gazzette e poi perdurando la pena del processo per anni e anni.

È quindi il metodo dello scritto del Manzoni che stupisce e convince. In punta di piedi, non volendo offendere in alcun modo l’illustre predecessore, nella premessa Manzoni, quasi scusandosi, dice che il suo lavoro si discosta da quello del Verri perché se quest’ultimo aveva come scopo combattere la tortura come metodo d’indagine, egli si pone il tema più generale della giustizia che sbaglia. E sbaglia consapevole di sbagliare come dimostra l’autore nell’entrare, forse pedantemente, nell’analisi delle norme e delle consuetudini che regolavano l’uso della tortura come metodo d’indagine ma soprattutto, nei meccanismi che regolavano la promessa di impunità che l’autorità poteva concedere per far confessare complici e mandanti agli accusati. Dunque non era, per il Manzoni, la tortura il problema ma l’arbitrio, l’abuso del giudice per ottenere non la Verità, ma un colpevole.

Storia vecchia direte, e qui ritorna Sciascia, la sua paura della legge sui pentiti, appena varata quando l’autore siciliano ripubblica per Sellerio l’opera del Manzoni e scrive la nota che accompagna quel volume e la ristampa attuale. E quanto attuale anche oggi può essere questa paura se pensiamo a Guantanamo, o per restare a casa nostra a quando venticnque anni fa nella solita Milano si pontificava di “metterli in galera qualche giorno per farli parlare”. Nell’applauso festante delle gazzette e degli inviati infreddoliti di fronte al maestoso (ma bisognoso di chiudi per stare in piedi come racconta Giorgio Fontana in un altro bel libro pubblicato sempre da Sellerio) Palazzo di Giustizia, con sfondo mobile di tram sferraglianti. Non stupisce a ripensarci oggi che poi uno veda anche la Madonna.

C’è poi un ultimo punto, ed è sempre Sciascia a farcelo notare, che è quello del reato di cui sono accusati gli sventurati protagonisti: di causare la morte per peste attraverso unguenti velenosi. Viene da dire superstizione da antichi da cui, oramai, siamo immuni. Non pare così, se si vuol dare retta a Sciascia, che ci racconta come la storia invece che essere una palla di cannone accesa è più spesso un arabesco che procede in avanti e indietro. Se infatti tra gli antichi vigeva il pregiudizio delle pestilenze come maleficio commesso da uomini per diabolici intenti, in quello che immaginiamo come buio medioevo si tendeva ad incolpare l’influsso degli astri o il castigo divino quali cause delle pestilenze.

Per tornare nel Seicento, raccontato dal Manzoni, a ricercar l’untore come capro espiatorio della non conoscenza e delle inefficienze della sanità lombarda, rifluendo invece nello scientismo dell’Ottocento che aveva a nemico igiene e ratti. Ma non occorre arrivare ai no vax attuali o ai complottisti del 5g per vedere che questo andirivieni di colpevoli aveva, ai tempi della spagnola, trovato nei governi i colpevoli. La prima guerra mondiale – scrivevano i complottisti dell’epoca – era finita troppo presto e occorreva diminuire ancora un po’ la popolazione mondiale attraverso qualche pozione venefica. All’obiezione che anche qualche potente fosse deceduto, si trovava facilmente rimedio nel dire che si era confuso tra veleno e antidoto.

Il punto però, aldilà del consolarci o preoccuparci per la lunga durata del complottismo, è quando queste tesi trovano una Procura zelante, una inquisizione compiacente, un giudice svogliato e ti trovi a passeggiare per Milano, compiendo il tuo mestiere, con una boccetta d’inchiostro in mano, oggi magari con uno smartphone 5g, ed invece di trovare giustizia ti imbatti nella Legge.

Articolo uscito su Cultura Commestibile n.361 del 4 luglio 2020

Un giallo per raccontare la guerra a sinistra negli anni ‘80

È tornato, dopo “La provvidenza rossa” Lodovico Festa e il suo detective probiviro comunista Cavenaghi per un altro giallo ambientato nella Milano Rossa. È uscito dunque, sempre per Sellerio, “La confusione morale” ambientato questa volta nella Milano degli anni ’80, quella in cui il PCI litigava con Craxi a livello nazionale ma governava con i socialisti nella capitale lombarda con la giunta Tognoli (Bagnoli nel libro). Ed è proprio questa dualità, questa alterità del comunismo meneghino la vera protagonista della storia. Come nel primo libro o forse ancor di più, l’intreccio noir e poliziesco sono un pretesto. Ne la provvidenza rossa era il pretesto per raccontare il mondo parallelo dei comunisti milanesi rispetto ad una società “secolarizzata” che li escludeva e da cui si autoescludevano. In questa seconda opera l’alterità è tutta fra compagni: tra quelli che vorrebbero inseguire la modernità del riformismo craxista e quelli, romani in larga parte, che lo vogliono contrastare trascinati dalla “questione morale” che Berlinguer, appena scomparso nella narrazione, aveva lanciato. A differenza però del primo volume, l’autore qui prende decisamente parte, schierandosi con i riformisti milanesi, e nel farlo da un lato (anche per esigenze narrative) traccia confini tropo netti tra i due campi ma soprattutto, conoscendo come andranno i fatti (per sé e per il PCI) dà ai compagni riformisti doti di preveggenza un po‘ troppo ampie, soprattutto per quanto riguarda cosa sarebbe accaduto in URSS dopo il 1989. Eppure, il libro rimane godevole, proprio per l’analisi di quella frattura tra le due sinistre che si compì in quegli anni, e per come “mani pulite” sarebbe nato e sviluppatosi. Anche in questo caso, l’autore forza un po’ la mano, e traccia una linea troppo netta, un destino ineluttabile, alla saldatura tra ambienti della magistratura e una parte, importante, dell’apparato comunista. Quello che è del tutto assente è il giudizio sul PSI di quegli anni, lasciato troppo sullo sfondo, concedendo troppo alla tesi assolutoria del craxismo costretto a determinate azioni, politiche e non soltanto politiche. Altrettanto godibile è il fatto che i personaggi seppur mascherati da nomi fittizi siano altamente riconoscibili e credibili, nonostante qualche dialogo un po’ troppo protocollare; così come la ricostruzione dell’ambiente milanese rimane la parte migliore dello scrivere di Festa, insieme alla descrizione dell’urbanistica e dell’architettura milanese, che già si intravedeva nella prima opera. Meno accurato – come nota Giuliano Ferrara recensendo il libro su il Foglio – nel ricostruire le vicissitudini della sinistra milanese di quegli anni il fatto che per tutto il libro nessun comunista non scopi mai; col risultato che da un lato ci si assolve per l’aver peccato coi craxiani e contemporaneamente ci si assolve pure dai peccati della carne.

Articolo apparso su Cultura Commesibile n. 304 del 13 aprile 2019

La Milano dei Rossi

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La provvidenza rossa è come un universo parallelo che si srotola nella Milano del 1977, un universo in cui al normale vivere della città si contrappone, parallelamente convergente, un mondo regolato dai riti del Partito Comunista Italiano. Uno Stato nello Stato che replica le strutture della società borghese nei suoi pregi e nei suoi vizi. Questo mondo parallelo è il principale pregio di “la provvidenza rossa”, giallo di esordio di Lodovico Festa, che fu comunista milanese negli anni narrati nel libro. Un libro in cui il noir serve da alibi alla narrazione della vita comunista, dove la pervasività del mondo rosso si snoda tra personaggi al massimo bidimensionali che in realtà sono spesso solo maschere delle loro organizzazioni siano esse il Partito, la Lega delle Cooperative, il Sindacato (ovviamente la CGIL) o l’Arci. Un mondo non autosufficiente ma che dalla società borghese trae più che donare; un mondo capace di regolarsi da solo, quasi soffocante per i suoi iscritti che trovano in esso tutto, lavoro, divertimenti, famiglie, amori; seppure nella variante meneghina non arrivi ai tratti dominanti del comunismo emiliano. Mondi raccontati sinora o da storie sociali, come il magnifico “Maison Rouges” di Marc Lazar, o dal sarcasmo musicale di pezzi come “Robespierre” degli Offlaga Disco Pax. Quello di Festa è invece un libro, un romanzo, che ci riporta in un mondo che non c’è più ma che conserva traccia di sé nei profili degli ex militanti rossi, e in alcune prassi politiche che ci appaiono oggi tristemente ininfluenti nel mainstream populista e personalistico della politica dei leader. Invece nella Milano rossa di festa, il protagonista è il collettivo, pur se l’autore ci fa intravedere il futuro (non radioso) che si avvicina: quella Milano da bere, che sta appena scaldando i motori. Una Milano che è l’altra grande protagonista. Una città raccontata con amore, seppure di una città che non c’è più si tratti. La consolante Milano borghese, le cui architetture sono raccontate con più dettagli dei protagonisti, persino quando le architetture sono quelle razionaliste del ventennio. Una Milano che si ricostruisce e si riscatta nell’azione del Partito e nelle sue architetture non ancora appannaggio di archistar, una Milano in cui noi contemporanei forse fatichiamo a immaginare quanto abbia contato la sinistra (non solo comunista) e quanto popolo riuscisse a organizzare intorno a sé. Festa scrive questo libro con l’affetto della sua giovinezza alla quale concede però una lingua troppo da relazione al comitato centrale, soprattutto nei dialoghi, e che lo costringe a una nota finale ed a un artificio narrativo di cui non si sentiva il bisogno. Ma il pregio del realismo della vita e delle prassi comuniste ripagano ampliamente il lettore, soprattutto quello che seppur in un’altra epoca molto successiva e in altri contesti, si è trovato ad essere “l’uomo della federazione” o ad aver comunque vissuto all’interno del vasto mondo comunista e post comunista italiano. Altro grande pregio del libro è che l’autore non riversa nella storia il proprio giudizio sul PCI, un giudizio che lo porterà ad altri lidi e alla vicedirezione de il Foglio, ma anzi pare riacquistare il fuoco della passata militanza, soprattutto quella amendoliana, conservando per ingraiani e berlingueriani (ma anche per il migliorista Napolitano) le frecciate più acute.

Articolo apparso sabato 4 aprile 2016 su CulturaCommestibile n. 164

Ad andar con lo zoppo

Sarà un debito di riconoscenza per averlo chiamato in Parlamento e, grazie alla legge elettorale, eletto nelle fila del PD ma l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, barese già magistrato e oggi parlamentare, è decisamente veltroniano. Per carità Carofiglio ha sempre una scrittura scorrevole, è capace di farsi leggere con facilità e le sue storie filano sempre lisce fino al finale, eppure questa volta lo spleen del suo avvocato Guerrieri tracima e infarcisce le pagine con un catalogo di film, canzoni, luoghi, cibi memorabili. Un Album Panini dei ricordi, un amarcord generazionale che ha completamente assente quella leggera cattiveria e ironia che invece caratterizzava, per esempio, il primo Nick Horby.

Dunque l’avvocato Guerrieri stavolta lascia le aule di tribunale per trasformarsi in un Marlowe sbadato, viaggiatore in una Bari che rimane, al lettore che non la conosca di suo, sconosciuta dalla pagine del libro; c’è la ricerca di una ragazza scomparsa, le ex escort (potevano mancare a Bari?) proprietarie di locali notturni, le studentesse universitarie che non sono quello che sembrano e un giro di cocaina che circonda il tutto.

Peccato, Carofiglio coi suoi primi due romanzi pubblicati da Sellerio ci aveva abituato male e ci aveva fatto sperare che fosse possibile una via italiana al legal thriller.

(Gianrico Carofiglio, Le Perfezioni provvisorie, Palermo, Sellerio, 2010)