“Quando il mondo intero tremava al rumore dei nostri razzi”

Dal trailer dela serie For All Mankind – AppleTv+

Pochi anni fa è uscita una serie Tv – in onda su Apple TV – che si apre con le immagini della discesa, nel luglio del 1969, da parte del primo essere umano sulla Luna. Un sovietico.

La serie, For All Mankind, racconta una storia distopica della corsa nello spazio, tra USA e URSS, in cui il vantaggio iniziale dei Sovietici, conquistato con lo Sputnik, Laika e Gagarin non fosse stato recuperato dagli americani ma anzi fosse incrementato ancor di più dallo sbarco sovietico sul satellite terrestre.

Finzione a parte, pochi oggi ricordano o conoscono, quanto sullo spazio si sia giocata una parte, non certo trascurabile, del confronto tra superpotenze nella cosiddetta guerra fredda. Un confronto che ebbe luogo anche da noi, il paese con il più potente partito comunista dell’occidente, che dunque visse quella stagione riproponendo, sui giornali e nella politica quel confronto.

Un confronto che, nella fase iniziale, continuava ad alimentare il mito dell’URSS anche da noi, come esperimento vittorioso di costruzione di un mondo nuovo, capace di vincere il nazismo prima e conquistare lo spazio poi.

Il progresso tecnologico sovietico, era dunque visto come conferma della supremazia del socialismo e della sua inevitabile vittoria dalle colonne de l’Unità o di Rinascita, mentre veniva visto come pericoloso e minaccioso dalla stampa democristiana o comunque legata all’alleanza con gli USA.

I missili che solcavano i cieli erano dunque un segno di progresso per una parte, non trascurabile, del Paese e un pericoloso presagio di Apocalisse (se pensati come vettori di testate nucleari) per l’altra Parte.

E’ questo il contesto in cui Stefano e Marco Pivano, collocano il loro I comunisti sulla Luna, un libro che affronta, in due parti, la corsa per lo spazio, vista dal nostro Paese. Se la prima parte è un racconto dell’influenza delle conquiste spaziali sovietiche in Italia, con alcuni divertentissimi cascami sul mito tecnologico sovietico che porta, soprattutto militanti, a credere che un Paese che invia il primo uomo sullo spazio sia in grado di produrre anche auto e trattori altrettanto avanzati (spoiler, non sarà così); la seconda parte del libro è un racconto di storia della scienza che sta dietro gli iniziali successi e l’incapacità successiva di reggere il confronto con il modello scientifico statunitense. In grado di primeggiare non solo per capacità di spesa, ma per meriti legati alla collaborazione e la fiducia che erano più difficili da ottenere in URSS anche rispetto al propellente dei razzi.

Un libro piacevole, a tratti divertente, certamente divulgativo e capace di incuriosire rispetto a un piccolo pezzo della storia del nostro paese e del confronto, politico e sociale, in corso tra i due campi e che ha segnato le storie di molti.

Stefano Pivato, Marco Pivato, I comunisti sulla Luna. L’ultimo mito della Rivoluzione russa, il Mulino, 2017.

Apparso su CulturaCommestibile, n. 430 del 15 gennaio 2022

Il lungo rapporto tra Socialisti e Stato liberale

La Fondazione dei socialisti francesi, la Fondation Jean Jaurès, ha pubblicato nello scorso agosto un piccolo libriccino a cura di Mathieu Fulla e Marc Lazar, che estrae e riassume un’opera imponente da loro curata, sul rapporto dei socialisti e socialdemocratici europei con le istituzioni statali dei rispettivi paesi.

Il rapporto tra socialisti europei e lo Stato è mutato profondamente nel corso del tempo. Da nemico da abbattere in quanto struttura del potere borghese e del capitale, sia attraverso moti rivoluzionari che all’interno dei poteri locali o delle forme di lavoro cooperativo.

Via via però che il movimento socialista si radicava, passando dai comuni ai Parlamenti, il rapporto con lo Stato si modifica, il nemico si identifica con le strutture repressive del potere (polizia e esercito), mentre si inizia a teorizzare che la struttura capitalistica si può modificare attraverso lo Stato stesso o che le condizioni per il processo rivoluzionario possono essere favorite da politiche di riforma attuate all’interno delle istituzioni liberali.

Non che le forme insurrezionaliste o localiste vengano meno ma o finiscono in minoranza o danno vita a scissioni.

Con lo scoppio della prima guerra mondiale queste tensioni esplodono e i residui dell’internazionalismo vanno in frantumi, nel dopoguerra le tensioni rivoluzionarie con la “competizione” coi comunisti prima e la lotta al fascismo poi radicheranno e ancoreranno ancor di più i socialisti (per la prima volta al governo in molti paesi) allo Stato; ma sarà col secondo dopoguerra che la coincidenza dei socialisti con lo Stato, da “occupare” per riformare avrà la sua epoca d’oro. Sarà anche in quegli anni che la base elettorale dei vari partiti socialisti e socialdemocratici europei si modificherà: perdendo molti consensi nella classe operaria (che si rivolgerà molto spesso ai partiti comunisti) e guadagnandone moltissimi tra i dipendenti pubblici fino a diventare, in molti casi, il partito di riferimento delle varie funzioni pubbliche.

Questo rapporto va  in crisi, ci raccontano i due autori, verso la fine degli anni settanta dove il paradigma neoliberale, rappresentato dai governi Tatcher e Reagan, ha finito per influenzare profondamente i socialisti europei fino a far diventare questi gli esecutori, negli anni ’90, della teoria dello stato “debole”, mero regolatore dei mercati e fornitore sussidiario di servizi non proficui.

Sono gli anni di Blair, Shröder, D’Alema e Jospin, gli anni in cui il sistema di welfare state su cui si è fondato il compromesso democratico europeo, si è costruita la ricchezza del continente e si sono sviluppate le nostre società, viene frantumato nella speranza di un mercato finalmente libero e globale.

Una stagione che, però, per i partiti socialisti ha coinciso anche con l’inizio della fine poiché, questa la tesi del libro, i socialisti hanno di fatto segato il ramo su cui erano seduti, andando a colpire proprio quell’elettorato fatto di pubblici dipendenti che, colpito e deluso, si è rifugiato molto spesso nella destra (anche in conseguenza della scomparsa di un’offerta politica di sinistra comunista credibile dopo la fine della guerra fredda). Tutto questo senza che ci fosse un ricambio elettorale da parte dei “ceti medi riflessivi” per dirla con le parole di Richard Florida, sociologo allora molto in voga.

Però, questa la tenue speranza instillata dal libro, dopo la crisi del 2008, crisi che di fatto non è ancora finita e si lega a quella attuale legata anche alla pandemia, il paradigma neoliberale è andato (o diciamo più scetticamente può andare) in crisi e quindi si potrebbe aprire uno spazio nuovo, per il pubblico in quanto tale e dunque per i socialisti.

Una speranza che il libro, non sviluppa come è inevitabile che sia per un’opera storica, ma che appare davvero difficile immaginare con gli attuali gruppi dirigenti, ci sia concesso di dire, che guidano ciò che rimane del socialismo europeo. Non tanto per le qualità dei singoli, che certamente molti di loro possiedono, ma per l’assenza di un quadro di riferimenti, di pensieri lunghi, non necessariamente nati all’interno del campo socialista (in fondo Keynes, sulle cui idee molti socialismi democratici hanno prosperato, era un liberale). Tuttavia, se le istanze e i bisogni di giustizia sociale e di progresso degli ultimi sono oggi più necessari che mai, occorre a chi ancora socialista si dice e si crede, interrogarsi su come alimentare tale fiaccola. Partire, come nel caso di questo libro, da ciò che si è stati può essere un buon inizio.

Articolo apparso su Culturacommestibile n. 426 del 4 dicembre 2021

Ci siamo già passati

Gustav Klimt Medicina https://it.wikipedia.org/wiki/Quadri_delle_facolt%C3%A0
Gustav Klimt, Medicina, ricostruzione del dipinto andato perduto nel 1945

Siamo sommersi dalle informazioni. Numeri, tabelle, grafici. Andamento dei casi, diffusione dell’epidemia, numero dei morti. Sui social ci scopriamo tutti virologi, come reazione alla nostra paura di non sapere.

Io in questi casi mi rifugio in quelli che sono stati i miei studi e quello di cui dovrei, ma non è necessariamente detto, capire qualcosa di più. Così mi sono letto il volume di Laura Spinney, 1918 L’influenza spagnola, la pandemia che cambiò il mondo, Marsilio editore.

Dalla storia non si apprende niente, mi dicevano i miei maestri, se pensiamo che questa si ripeta sempre uguale. Aggiungo io, nonostante l’affetto per il vecchio Karl, anche se pensiamo che si ripeta due volte sotto forma di tragedia e di farsa.

La storia può darci però un’indicazione sulle persistenze e sulle rotture. Su cosa rimane immutato (o cambia con lentezza estrema) e cosa muta, magari drasticamente, di fronte all’incalzare del tempo.

Vale anche per le epidemie e cercare nell’influenza che falcidiò il mondo tra il 1918 e il 1920 un modello ripetibile oggi sarebbe l’equivalente di affidarsi al volo delle rondini per predire il futuro.

Il mondo di oggi è completamente diverso, la tecnologia, la medicina, il fatto che non ci sia in Europa una guerra mondiale devastante in atto sono modificazioni gigantesche che rendono impossibile una comparazione.

Tuttavia, le linee di persistenza rimangono e forse aiutano a capire o magari consolano. Sapere che l’umanità è passata da qualcosa di simile potrebbe aiutarci. Sapere che siamo sopravvissuti a pandemie devastanti da Uruk a Perinto, da Ippocrate all’OMS, ci dona una speranza e un conforto di fronte alle nude cifre dei bollettini serali.

Ci dà anche un’idea se le misure in atto hanno una qualche efficacia e beh, spoilerando un po’, posso dire che sì, storicamente hanno avuto un senso. Mentre la tesi di Boris Johnson sull’immunità di gregge contrasta con il fatto che l’epidemia spagnola ebbe tre fasi acute e drammatiche e che le successive due colpirono gli stessi luoghi della prima. Questo in condizioni di contenimento dell’epidemia ben peggiori delle nostre e quindi con un contagio stimato tra il 70 e l’80 per cento della popolazione, ben sopra quelle che gli scienziati ci dicono essere le percentuali dell’immunità di gregge. Immunità che, probabilmente, si raggiunge davvero con un vaccino.

Nel 1918 la scienza e la medicina si presero, almeno nel mondo occidentale, la scena e contribuirono a far passare nelle persone l’idea della vaccinazione, dell’igiene, della profilassi; queste misure anche se non strettamente connesse alla battaglia contro l’influenza, contribuirono decisamente al miglioramento delle condizioni di vita delle persone. A New York questo si tradusse in un miglioramento della vita dei nostri emigrati che uscirono da una condizione di ghetti insalubri e pochi anni dopo arrivarono persino ad eleggere uno di loro sindaco, Fiorello La Guardia.

Ma lo studio dei comportamenti durante l’epidemia della spagnola ci aiuta anche a capire che ci sono alcune istintività contrastanti in noi da una parte scrive la Spinney “i numeri [illustravano] quello che le persone avevano compreso con l’istinto; un accadimento comincerà a esaurirsi quando la densità di individui suscettibili sarà scesa sotto una certa soglia”. Cioè stiamo a casa, isoliamoci, e il contagio terminerà prima. Dall’altra parte però “anche se i medici ripetono di tenerci lontani dagli individui infetti durante un’epidemia noi tendiamo a fare il contrario. Perché? Una risposta, valida soprattutto nei tempi antichi, potrebbe essere la paura di una punizione divina. […] Un’altra risposta potrebbe essere la paura dell’ostracismo sociale una volta passato il pericolo. O forse è semplicemente inerzia. [..] Gli psicologi suggeriscono una spiegazione ancora più interessante. Sono convinti che la resilienza collettiva nasca dalla percezione di sé stessi nelle situazioni di pericolo: non si identificano più come individui, ma come membri di un gruppo”.

Il che non giustifica quelli che vanno a fare passeggiate nei parchi cittadini invece che stare a casa ma forse ci aiuta a comprenderne le ragioni e convincerli che, secondo me, rimane sempre – anche durante una pandemia – preferibile al mandare l’esercito per le strade.

Naturalmente anche durante l’epidemia della spagnola non mancarono le polemiche sulle misure adottate e sul loro rispetto. Chiusure di esercizi commerciali, bar, teatri e cinema erano considerate a ragione essenziali dalla scienza ma malviste dalle autorità politiche che tardarono o evitarono del tutto di adottarle. Laddove, come a New York, furono adottate l’epidemia fece molti meno danni cha altrove. Sul mancato rispetto si distinse, soprattutto in Spagna, invece la Chiesa Cattolica che non rinunciò a riti e enormi processioni di massa per scacciare il contagio, che ebbero invece l’effetto di propagare il morbo. In questo la decisione di Francesco I di chiudere da subito le Chiese ha l’indubbio merito di aiutare la prevenzione del virus ma rappresenta, a mio avviso, uno degli elementi di rottura più epocali di questa pandemia.

Infine più controversa fu allora la decisione di lasciare aperte le scuole, ritenute più sicure e più salubri delle abitazioni per i fanciulli dell’epoca e naturalmente non mancarono anche allora forti polemiche e tensioni sull’uso delle mascherine. Fu tuttavia in quell’occasione che nacque la consuetudine per i Giapponesi di indossarla anche per il comune raffreddore. Chissà se lo faremo anche noi d’ora in poi.

Insomma ci siamo già passati, il che non elimina la paura, non cancella il lutto e non lenisce il dolore ma magari aiuta a passare più speranzosi il tempo.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.346 del 21 marzo 2020

Ask not

Ask not è il titolo di un gran bel saggio su John F. Kennedy e sul suo discorso d’inaugurazione il 20 gennaio 1961. E’ un saggio che ha il ritmo di un romanzo, scritto con quella prosa e quella capacità di creare immagini ed emozioni che hanno gli storici anglosassoni.

A partire da un discorso, quello che diventerà mitico proprio per quel “non chiedete cosa il vostro paese possa fare per voi…” Clarke ricostruisce la figura di Kennedy, i sogni e le speranze che la sua elezione portò.

Kennedy fu capace di interpretare la voglia di un Paese e soprattutto di una generazione, di assumere delle responsabilità e di rischiare. Mostrò agli americani, per dirla con Paolo Conte, che erano in “un mondo adulto, [in cui] si sbagliava da professionisti”.

Le pagine che descrivono la nevicata la notte prima del discorso sono stupende. Danno il senso della sospensione, dell’attesa. Come se quella neve fosse il confine tra il prima e il dopo, uno spazio quasi cinematografico in cui fermarsi a sperare che il giorno dopo iniziasse un nuovo mondo e non solo una nuova presidenza.

Quel giorno, […], molte persone, come ipnotizzate, guardarono dalla finestra la neve che si accumulava, mentre le conversazioni via via languivano e i cortili e i marciapiedi diventavano bianchi; le feste diventavano più allegre; mentre la neve smorzava i suoni della città e le stanze ben illuminate sembravano più piccole e più accoglienti mentre scendeva la sera e la neve si faceva più fitta”.

Doveva essere una bellissima sensazione. Mi piacerebbe davvero poterla provare. Mi piacerebbe che, nel piccolo potesse provarla la nostra città. Magari l’anno prossimo, quando una cerimonia d’insediamento (decisamente più modesta) accompagnerà un nuovo sindaco.

E’ rara la neve a giugno. Rara, ma non impossibile.