Le regole del biliardo applicate al PD

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Articolo uscito su Corriere Nazionale – Qui Firenze del 16 maggio 2013.

A leggere le interviste alla fu maggioranza bersaniana del PD viene da pensare che il segretario e candidato premier fosse stato scelto, candidato e sostenuto da un’assemblea di autoconovocati o da una loggia segreta più simile ai Monty Python che alla P2. Il primo fu D’Alema che definì a pochi giorni dal voto Bersani “uomo dell’800”. Tuttavia, come spesso gli capita, alla dura critica non seguì il completo abbandono; diversa fu la scelta della Bindi che si dimise dalla presidenza del partito perché non voleva più giustificare decisioni alle quali diceva di non prendere parte. Buon ultimo Veltroni di cui ieri abbiamo letto le anteprime del nuovo libro in cui dice che il PD avrebbe dovuto proporre un governo del presidente a guida Bonino. Tocca dar ragione al Fatto che ieri si chiedeva “ma non poteva dirlo prima?”. Domanda che vale anche per l’ex sindaco e attuale europarlamentare Domenici che in una intervista ad Allegranti nel fine settimana ammette di non aver votato Bersani, anche se non ci rivela se la sua preferenza sia andata a Tabacci, Puppato o Vendola. Una rivelazione a mesi di distanza che fa venire il legittimo sospetto che non ci sarebbe mai stata se al governo oggi ci fosse Bersani e non Letta. A tutti questi dirigenti in cerca di una nuova legittimazione e purificazione dei propri errori (anche se dubito che questa volta persino i militanti più fedeli gli crederanno) consiglio in vista del dibattito politico e congressuale del PD di rileggere le regole del biliardo, dove i punti valgono doppi se si dichiarano ma solo prima di tirare.

Come si smacchiano i giaguari in tedesco?

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 01 dicembre 2011

Fossi in Pierluigi Bersani inizierei a chiedermi come si dice “smacchiare la coda ai giaguari” in tedesco, perché come notava giorni fa un amico su facebook, non è un gran problema se i socialisti han perso in Spagna, potrebbero persino riconfermare Sarkozy in Francia ma il tema vero è come far vincere l’SPD in Germania. Già perché è in Germania che la crisi si è arenata e rischia di portare conseguenze ancora più grandi. In fondo sia noi che soprattutto la Grecia abbiamo patito conseguenze più dolorose anche perché in questo anno si è votato a più riprese nei lander tedeschi e la cancelliera Merkel ha subordinato spesso e volentieri decisioni relative al fondo salva stati e più in generale le politiche dell’Unione alle spicciole campagne elettorali interne.

Certo nessun governante è immune all’andamento elettorale casalingo in un sistema in cui la rappresentanza politica e democratica diretta dell’Unione semplicemente non esiste ed è demandata all’accordo degli Stati e troppo tardi ci accorgiamo di quanto avessero ragione quelli che di fronte alla proposta di Costituzione della UE profetizzavano che il non aver, allora, ceduto sovranità ad un Unione politica lo avremmo pagato caro.

Dunque il tema di come riportare al centro del dibattito l’europeismo e di cedere a istituzioni comuni democratiche ed elette direttamente, pezzi di sovranità politica, economica e fiscalità è il tema di una possibile via di uscita dalla crisi che non sia l’imbarbarimento, la fine dell’Euro e quel che appare ancora più temibile il ritorno alle Patrie alle loro alleanze e ai loro interessi confliggenti.

In Germania, anche per il peso ingombrante della propria storia nel XX secolo, l’europeismo è stato un tratto comune delle forze democratiche, spesso anzi più marcatamente evidente nel campo democristiano che in quello socialdemocratico. Oggi non solo il governo Merkel ma l’intera società tedesca avverte come meno importante il legame europeo. Lo provano le molte discussioni alla corte costituzionale sui vincoli esterni alla legislazione di Berlino e i dibattiti sempre più manifesti sulla creazione di un Euro forte che abbandoni i paesi fuori dell’influenza tedesca. Un dibattito che ha ragioni più culturali e politiche che economiche visto che la Germania ha soltanto beneficiato finora dell’unione monetaria e che Berlino esporta nell’area Euro più di chiunque altro al mondo.

Se vogliamo bene all’Europa e anche, di conseguenza al nostro Paese, forse ci dovremo attrezzare a pensare più che alle nostre perenni (e sempre più ininfluenti) campagne elettorali a quella tedesca e fare il tifo perché prevalgano quelle forze, SPD su tutte, che spingono per un una Unione Europea più forte e più democratica.

Giocare la tripla sull’esito della crisi

Dal Nuovo Corriere del 10 novembre 2011

Risolto il problema Mihajlovic e arrivato Delio Rossi l’argomento di conversazione preferito, almeno  nel bar sotto casa mia, è “ma icche fa i’Renzi?” domanda speculare e complementare a quella su cosa succederà a Roma e al governo.

Premesso che dare una risposta in queste ore equivale a giocare la buona e vecchia tripla al totocalcio, tutti gli scenari sembrano plausibili dopo il voto e la salita al colle di ieri di Berlusconi, anche perché le volontà in gioco sono molteplici, contrastanti tra loro e soprattutto mutevoli. Certo a leggere la bella intervista del direttore de La Stampa a Berlusconi ieri si sarebbe tentati a pensare che le elezioni a febbraio siano possibili se non probabili e per di più con Angelino Alfano candidato premier del centro destra. Tuttavia le pressioni di molti, partiti, interessi, istituzioni internazionali, sembrano spingere con forza per una soluzione tecnica in grado di intervenire drasticamente sulla situazione economica e sui conti pubblici. Di certo posticipando la sua uscita di scena dopo l’approvazione della legge di stabilità Berlusconi ha di nuovo preso in mano il boccino dei tempi e dei modi della crisi, riprendendo l’iniziativa che i “traditori” gli avevano soffiato e lo ha fatto prospettando a Napolitano, in caso di dimissioni immediate, una crisi al buio, lunga e dagli esiti incerti che sarebbe stata fatale per il Paese nella turbolenza dei mercati.

In casa PD non pare davvero chiaro quale sia l’interesse prevalente, persino nello stesso segretario Bersani che parla (e pensiamo convintamente) di governo di larghe intese ma che probabilmente, se dovesse guardare al suo tornaconto, preferirebbe elezioni immediate che potrebbero consentirgli o di saltare eventuali primarie o di non consentire ai possibili comptetitor, interni ed esterni, di recuperare quel margine di vantaggio che ogni sondaggio gli accredita. Diversamente l’appoggio ad un governo “lacrime e sangue” lo esporrebbe alla critica di chi, da fuori, potrebbe predicare ogni giorno da posizioni non esposte. Se un minimo conosciamo Bersani sappiamo che l’interesse personale non prevarrà mai di fronte all’interesse generale (o almeno in quello che egli ritiene tale) e che dunque le scelte che farà il PD saranno dettata solo da questo pensiero. Tuttavia un buon dirigente deve tenere presente gli scenari futuri e pare che, in casa PD, molti pensino che, in caso di governo tecnico, sarà necessario far succedere a Bersani un altro candidato per la corsa alle primarie future.

Dunque per tornare alla domanda del bar sotto casa, è probabile che Renzi starà a guardare, pronto a tutti gli scenari anche ad una candidatura contro Bersani in improbabili primarie natalizia, ma con una (non tanto) segreta predilezione per uno scenario di transizione e di logoramento

Cosa va in onda nel Pd.

 

Da Il Nuovo Corriere di Firenze del 27 ottobre 2011

 Se per capire cosa accade nel PdL forse sarebbe necessario affidarsi ad una negromante, per capire cosa accade nel Pd è forse più utile un esperto di televisione. Sarà per questo che tra i nuovi spin doctor di Matteo Renzi nella preparazione del big bang appare anche Giorgio Gori artefice della stagione più innovativa delle reti Mediaset che coincise, casualmente, anche all’apice del berlusconismo politico.

Ma torniamo al PD e al suo “palinsesto”. Da parte del leader Bersani è andato in onda nelle settimane scorse “il festival dell PD”, format classico, rassicurate che come il festival di San Remo è lì da sempre a tranquillizzare nonne e nipoti del passare del tempo. Magari non avvincente come una volta ma con un suo fascino. L’edizione del festival che si è vista al palazzo dei Congressi di Firenze non si è smentita, tra nuove proposte e big che calcano le scene da anni, riproponendo un  repertorio gradevole di facile ascolto e lettura. Poi, proprio come al festival dei fiori, quelli che han parlato vengono tutti, come i conduttori delle ultime edizioni del festival, dalla medesima scuderia, nel caso fiorentino quella dei DS. Immaginiamo che qualche problema a catturare l’audience, pardon l’elettorato, ex margherita questo lo ponga, ma non paiono curarsene troppo dalle parti del PD fiorentino.

Sabato e domenica scorsa invece è andato in onda lo spin-off della Leopolda dello scorso anno. Uno dei due protagonisti, Civati, un nuovo cast “giovane” e qualche guest star dai passati fasti a tentare di rivitalizzare un serial che partiva, nelle premesse, un po’ moscio. Ma si sa che gli spin-off (le serie che partono da una serie di successo sviluppandone temi o personaggi) sono difficilmente apprezzati dal pubblico salvo casi rari come quelli di CSI. In questo caso i due protagonisti Civati Serracchiani han tentato di “italianizzare” il format americano alla Renzi e han giocato la carta Rosy Bindi in una specie di Cameo alla Joan Collins, la cattiva di Dinasty, per attrarre pubblici anche un po’ attempati.

Che dire poi invece del sequel che andrà in onda questo fine settimana a Firenze? Stessa location intanto, la Leopolda, e format che ancora più della prima edizione punterà sul one man show, nonostante lui, la star, si spertichi nel dire che si tratta di un lavoro di squadra. Un atteggiamento che ricorda quello, rimanendo nel paragone televisivo, di Paolo Bonolis che non dimentica mai di parlare di squadra e poi occupa il video concedendo spazio solo al povero Laurenti, maschera utile a risaltarne le qualità e persino la magnanimità. In contemporanea, proprio come nelle controprogrammazioni televisive, la ditta Bersani mette in scena un appuntamento napoletano che forse vuole rincorrere i successi di “un posto al sole”.

Infine gli ultimi arrivati: i giovani curdi. Ci sia concesso ma al momento ci sembrano uno di quei programmi di nicchia che vanno in onda a tarda notte su Rai 3. Interessantissimi magari se il sonno o la noia non via hanno già portato su altri canali.

Il tatticismo di D’Alema e la debolezza del referendum.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 settembre 2011.

A differenza di molti amministratori e dirigenti locali del PD, Bersani e il suo gruppo dirigente sono apparsi e appaiono tiepidi rispetto alla raccolta firme per il referendum contro il porcellum.  Considerazioni di ordine pratico e di convenienza politica innanzitutto ma anche una certa difficoltà nel governare l’ennesimo esito imprevedibile. La cosa si potrebbe risolvere come spiega il solito D’Alema con la l’ennesima visione tattica del “grimaldello” per smuovere la maggioranza ad approvare una nuova legge elettorale, dimenticandosi che ogni volta che si è mosso così (cioè praticamente sempre) l’esito è stato molto diverso dalle aspettative e quasi mai favorevole alla sua parte: bicamerale e caduta del primo governo Prodi per tutte.

Se invece, come pare fare il più prudente Bersani, ci si ferma un attimo a ragionare sulla lettera del referendum si capisce che, come già era avvenuto per il quesito sull’acqua, si parla di pere e si scrive di mele. Il refendum infatti prevedrebbe l’abrogazione dell’intera legge elettorale e, secondo gli auspici dei promotori, questo riporterebbe in vita la precedente legge elettorale il cosiddetto Mattatellum. Un’interpretazione che, mi sia concesso, appare piuttosto sperticata e che rischia di far sì che la consulta non accetti nemmeno il quesito referendario, rendendo vani gli sforzi dei promotori e paradossalmente rafforzando il porcellum.

L’argomento portato dai promotori che la consulta terrà conto della percezione negativa che i cittadini hanno dell’attuale legge elettorale, ci pare ottima al bancone del bar ma un pochino più debole in un dibattimento di fronte alla Corte Costituzionale.

Certo nella cautela del PD gioca anche un non digerito amore per il proporzionale e una storia seppur recente che ha visto quel partito deliberare all’unanimità per il doppio turno alla francese, tentare l’accordo con Casini sul modello tedesco, far dichiarare al segretario la preferenza per quello ungherese e avere propri dirigenti nei comitati referendari sia per il ritorno al mattatellum che in quello per il ritorno al proporzionale. Tuttavia, per una volta, la prudenza del pd potrebbe tornargli utile non costringendolo in un angolo quando (e se) la corte dovesse non accogliere il quesito.

 

Il modello Bersani-Fassino

Da Il Nuovo Corriere di Firenze del 26 maggio 2011.

Il Bersani di Maurizio Crozza esordirebbe con “Ragassi non siam mica qui a dare il verde alle persiane”, sintetizzando in una battuta l’attitudine, tutta emiliana, del segretario PD di semplificare con un modo di dire le complessità della politica italiana. Una modalità di rappresentarlo che piace allo stesso Bersani che infatti usa maniere “crozzesche” sulla sua pagine facebook  o nelle sue partecipazioni televisive, soprattutto dopo il successo alle ultime elezioni amministrative.

Segno di un buonumore che il segretario si è conquistato. Perché dietro il successo del PD molto merito è anche del passo tranquillo, dell’attenzione rivolta al lavoro quotidiano, all’organizzazione che il segretario ha imposto con la sua direzione. Un modello di successo che già aveva, ai tempi dei DS, portato fortuna a quel partito (che era anche quello di Bersani) e al suo segretario di allora, Piero Fassino.

Fu Fassino infatti che raccolse i cocci della segreteria Veltroni, scappato prima della sconfitta nazionale a fare il sindaco di Roma perché diceva (come lo prendeva in giro Guzzanti) “non lo voleva fare nessuno”, e con basso profilo, testardamente e tenacemente rimise in carreggiata i DS e li riportò a vincere tutte le elezioni amministrative e regionali sino al “pareggio/vittoria” del 2006.

Anche a Bersani è toccato un partito da ricostruire dopo la cura (più intensa questa volta) di Walter Veltroni e anche lui si è approcciato col medesimo basso profilo e lo sguardo rivolto primariamente all’organizzazione. Le analogie però finiscono qui. Fassino aveva come obiettivo quello di far rinascere i DS però all’interno di un percorso segnato, definito e rassicurante. Il partito democratico era un progetto all’orizzonte e il capace neo sindaco di Torino era ben cosciente che quando questo progetto sarebbe passato in una fase creativa sarebbe toccato ad altri il compito di realizzarlo. Un raro esempio di senso dei propri limiti che premia ancor di più l’uomo prima che il politico.

Il compito di Bersani era (e resta) ben più arduo e la ricostruzione organizzativa ed elettorale del PD è quasi più un prerequisito che un fine. Per questo il risultato delle amministrative e dei prossimi ballottaggi non è che una tappa in un percorso più lungo e arduo che deve ancora definire programma, alleanze e leadership. Insomma verrebbe da dire che Bersani ha funzionato sinora  malgrado Bersani, ha vinto nel modo concreto, quotidiano, di intendere il partito e la politica,  nell’affrontare la sfida elettorale scegliendo temi e toni del confronto , mentre la sua “strategia” , a partire dalla larga alleanza col terzo polo, veniva smentita dal voto

Berlusconi ha perso, caccia al vincitore

Il testo integrale del pezzo pubblicato da il Nuovo Corriere di Firenze del 19 maggio 2011.

Bisogna ammetterlo, la migliore analisi del voto l’ha data Verdini. Il suo: “se si esclude Milano abbiamo pareggiato” ricorda la famosa battuta del pugile che tra una ripresa e l’altra chiede al suo secondo come sta andando e questi gli risponde: “se l’ammazzi fai pari”.

Più onesto La Russa che ha sostanzialmente ammesso il fallimento della strategia di spostare l’oggetto della contesa milanese dalla città al Paese e chiede oggi qual è il progetto di città di Pisapia, forse in difficoltà a porre la stessa domanda alla sua candidata che ha dimostrato talmente poco feeling col suo elettorato da risultare staccata di sei punti dall’avversario e di ben quattro punti dai partiti che la sostengono.

Tace invece per ora Berlusconi, probabilmente incredulo di non aver capito che, questa volta, stava sbagliando tattica e consiglieri come gli ha rimproverato a caldo Giuliano Ferrara probabilmente molto irritato (e i risultati gli han dato ragione) di essere stato scavalcato nei favori del premier da una come la Santacché.

Brutta aria anche dalle parti di via Bellerio dove al Carroccio si discute del fatto che non abbia pagato la strategia di smarcarsi dal Pdl e da Berlusconi e che anche la Lega paghi le difficoltà di governo, il mercimonio di parlamentari e sottosegretari e l’inazione dell’esecutivo a cui non han fatto argine gli annunci e pochi spiccioli trovati, all’ultimo da Tremonti. Tuttavia la lega, pare stare meglio del PdL e se deciderà di continuare a smarcarsi da Berlusconi a favore di Tremonti, può contare su un possibile recupero di appeal sul proprio elettorato.

Non pervenuto il terzo polo, Fini praticamente scomparso. Bisognerebbe oggi riprendere i tanti editoriali che ci avevano, nei mesi scorsi, spiegato l’importanza del polo di centro e la sua assoluta rilevanza. L’UdC da solo mediamente prendeva più voti di API, FLI e UDC messi insieme.

Tra i particolari in cronaca si segnala l’esperimento fasciocomunista, sostenuto da FLI, di Pennacchi a Latina che non arriva all’1%. Un segno che speriamo faccia considerare al vincitore dello Strega dello scorso anno di proseguire nella carriera letteraria in maniera esclusiva.

Il PD intanto gioisce e non gli mancano i motivi per farlo. Il partito di Bersani esce meglio di quasi tutti gli altri (l’idv a parte l’esploit di De Magistris è ben lungi dai risultati delle politiche, Sel non sfonda nemmeno dove esprime il candidato) ma si potrebbe dire malgrado sé stesso. Intanto se i ballottaggi di Milano, Napoli e Trieste dovessero andare tutti al centrodestra, il PD avrebbe conservato Torino e Bologna ma perso Napoli. Caso diverso se almeno uno dei tre ballottaggi vedesse prevalere il candidato del centrosinistra, come direbbe Catalano.

Oltre a questo il PD riesce difficilmente a poter trovare uno schema da questo voto: non scioglie il dilemma primarie sì, primarie no: a Milano è in testa il candidato che ha battuto il candidato ufficiale del PD alle primarie mentre a Torino vince al primo turno e bene quel Fassino “imposto” senza primarie al partito locale. A Napoli il pd non arriva nemmeno al ballottaggio e si vede costretto ad appoggiare un candidato che ha fatto tutta la campagna elettorale più contro il candidato democratico che quello del centrodestra. Dunque non scioglie nemmeno il tema delle alleanze (SEl o IdV?) visto che a MIlano deve sorreggere quello di SEL e a Napoli quello dell’IDV. Forse l’unico risultato (ma dubitiamo che andranno così le cose) sarebbe quello di porre fine alla telenovela della larga alleanza col terzo polo, che poi era (in estrema sintesi) la dottrina Bersani D’Alema.

Insomma il PD esce dal voto più forte ma senza aver risolto nessuno dei problemi che lo attanagliano: programma, alleanza, leadership autorevole (soprattutto al suo interno), tuttavia l’esperienza insegna che dopo un risultato positivo le cose si risolvono meglio.

Infine un cenno ai grillini. Che gli piaccia o meno (o che lo ammetta o meno) il comico genovese deve ammettere che il suo movimento va bene dove questo è strutturato, Bologna e Torino, ed è presente (assomiglia dunque a un partito) piuttosto che dove si affida ad uno spontaneismo giovanilista gonfiato dai sondaggi ma non dai voti come a Milano.

Quel che resta della Piazza


Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 febbraio 2011

Che c’entrasse poco con la dignità (in generale) delle donne, la manifestazione di domenica, lo han detto altre e altri ben più bravi di me. Che c’entrasse ancor meno col precetto rabbinico da cui prese ispirazione Primo Levi per il titolo della sua ultima opera e da cui il titolo, se non ora quando?, della manifestazione è anch’esso noto. Tuttavia le piazze di domenica sono state un indubbio successo politico da non sottovalutare né da archiviare in fretta proprio per il loro significato politico antiberlusconiano. Intanto perché mostrano limiti e potenzialità di una opposizione politica che, forse, potrebbe in caso di elezioni diventare un eterogenea ma possibile maggioranza parlamentare.

E’ vero, come scrive un amico, che nessuna opposizione ha mai vinto con una manifestazione ma nessuna ha mai vinto senza, per cui quello che è sceso in piazza sabato è qualcosa di più di un corteo. E’ un popolo disponibile, direbbero i dottori della politica, alla grande alleanza dalemiana, no è il popolo del Tutto tranne Berlusconi ribatterebbe Ferrara. Di sicuro è una parte della popolazione italiana che è stufa di Berlusconi in quanto tale e che alla fine di quest’ultimo subordina qualsiasi cosa.

Il che è giustificabile in una folla un po’ meno in un partito politico. Lo sa bene il PD, che per la prima volta vede intorno a sé condizioni politiche a lui favorevoli. Intanto Di Pietro incapace di riprendersi da Scilipoti, chiuso in un angolo, coi consensi erosi da SEL e umori intercettati dalla società civile del Palasharp, poi Vendola e i competitor interni che l’accelerazione della crisi potrebbe mettere fuori gioco, così come le primarie (interne o di coalizione) che il precipitare degli eventi metterebbe gioco forza in naftalina, consentendo a buona parte del gruppo dirigente nazionale (in special modo quello di seconda fascia) di sopravvivere un’altra legislatura.

Un PD che è stato sicuramente essenziale nella manifestazione di domenica ma che deve fare i conti con un successo che è solo in parte suo, che fa intravedere (ancora una volta) il rischio di un partito portatore d’acqua a una guida esterna, sia essa Casini o il papa nero di Largo Fochetti.

Bersani questo lo sa e ha provato a trarvi rimedio. Intanto mettendo in campo una proposta politica economica con le 41 liberalizzazioni. A parte una scarsa capacità di comunicazione con le 41 proposte che in realtà sono 34 in attesa delle altre 7 (eppure bastava chiedere da queste parti come si fa a moltiplicare i punti di programma) e qualche scarso coraggio (si parla blandamente di riformare gli ordini professionali) hanno il merito di rispondere a chi dice che il PD non ha un idea.

Il bivio però che il PD ha di fronte è se cavalcare la protesta da CLN, come proponeva ieri Veltroni con l’idea di una manifestazione con le sole bandiere italiane, oppure provare a dare gambe e proposte politiche a questo movimento. Inutile dire quale preferisca chi scrive, anche se non si nasconde il rischio di perdere non poca di quella spontaneità che domenica era in piazza. Ma l’idea che, una volta sgomberato il campo da Berlusconi, tra le macerie il centrosinistra non abbia la minima idea di cosa fare e passi il tempo a litigare è una paura ben più grande.

Il paradosso di Fassino

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 31 dicembre 2010.

Un paio di settimane fa su queste colonne ho espresso una posizione piuttosto indulgente sul PD e sulla gestione dei giorni della mozione di sfiducia da parte del segretario Bersani. Come spesso accade il pezzo è stato commentato, criticato e ha ricevuto molti giudizi taluni dei quali negativi o confutativi.

Quello che mi ha colpito è che la maggior parte dei giudizi negativi o sfiduciati nei confronti della mia tesi venissero da iscritti al PD. Ora è evidente che la platea delle mie conoscenze, reali e virtuali, non rappresenta una platea rappresentativa essendo in massima parte soggetti che hanno, o hanno avuto, interesse per la politica coté PD in maggioranza. Tuttavia non può sfuggire una capacità autocritica molto sviluppata all’interno del maggiore partito d’opposizione. A questo si aggiunga poi che la maggior parte delle critiche veniva da esponenti che all’ultimo congresso avevano appoggiato proprio Pierluigi Bersani.

Negli stessi giorni Piero Fassino ha sciolto le sue riserve e si candida alle primarie per Sindaco di Torino. Ora, personalmente, conservo di Piero Fassino un ottimo giudizio e, dei vecchi dirigenti DS, è quello per il quale nutro grandissima stima, simpatia personale e affetto, dunque il mio giudizio su di lui è pregiudizialmente positivo.  Non so cosa possano pensare gli adepti della rottamazione ma trovo che un dirigente così importante decida di mettersi in gioco, di mettere a disposizione la propria esperienza e le proprie capacità per la propria città, sia un modo intelligente da un lato di fare ricambio nel gruppo dirigente nazionale e dall’altro di garantire, se eletto, un buon amministratore a una città importante.

I primi sondaggi paiono peraltro confermare un giudizio largamente positivo su questa candidatura, appare dunque ancor più bizzarra (almeno ai miei occhi) una certa ritrosia nei circoli torinesi nel PD e una retorica del rinnovamento per il rinnovamento che ha accolto la sua candidatura. Un problema avvertito dallo stesso Fassino che ha tenuto a precisare come fosse forte il suo radicamento con la città e che lui non fosse un candidato imposto da Roma.

Un vero e proprio paradosso per colui che è stato il segretario del partito erede del PCI, un partito in cui l’investitura romana avrebbe garantito sostegno incondizionato almeno all’interno delle sezioni del partito, quelle che oggi sono forse le più ostili alla candidatura.

E’ un segno dei tempi che cambiano, probabilmente anche in meglio non c’è dubbio, ma non stupiscono, se consideriamo il dibattito intorno e nel PD a tutti i livelli, le parole di un autorevole  parlamentare del pd che descrive il suo partito come “sdraiato sul lettino dello psicanaliasta”.

Perchè Bersani non ha perso

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 dicembre 2010

Come non molti prevedevano Berlusconi ha intascato una risicatissima fiducia in entrambe le camere. Forte dell’ennesimo cambio di casacche parlamentare, come già quello che gli consentì nel 1994 di ottenere la maggioranza al Senato, Berlusconi incassa e prosegue. Pochi riescono immaginare per quanto e con quali risultati, visto che partendo da un distacco di quasi 100 deputati è riuscito a fare così poco anche prima degli strappi di Fini.

Chi esce ridimensionato, per non dire distrutto, è Fini che dimostra ancora una volta di essere un personaggio comunque di contorno nel panorama politico italiano, incapace di giocare autonomamente una partita e fiaccato dalla troppa tattica e dai pochi e non chiari orizzonti lunghi.

Chi invece salva la faccia, oltre al serafico Casini, e alla fine forse non porta a casa una sconfitta è il PD di Bersani.  Un PD fortunato per il calendario, con la manifestazione dell’11 dicembre caduta a fagiolo tra la compravendita dei deputati dipietristi e il voto “affondafini”.

Bersani è stato capace di smarcarsi infatti dall’alleato Di Pietro, lasciandolo solo di fronte all’ennesimo passaggio di parte di suoi parlamentari e svuotando così, senza alcuno sforzo, la retorica dell’”unica opposizione a Berlusconi”, risultando il partito dell’ex PM anzi decisivo per la vittoria del governo. Di più si è smarcato, anche qui senza clamore, da Fini il cui abbraccio avrebbe potuto essere mortale per il segretario emiliano. Lo ha fatto con una manifestazione di partito (a vocazione maggioritaria si potrebbe definirla), senza appelli ad essere in piazza agli alleati presenti, passati e futuri e giocando la sua carta migliore; quella retorica pragmatica, fatta di gente comune, di cenni alla vita reale e anche sul fatto di conoscere per davvero quanto costa un litro di latte, dimostrando di essere qualcosa di più e di meglio della sola alchimia di palazzo.

Nessun cedimento nemmeno a Vendola, al quale il PD ha dimostrato di essere capace comunque di una mobilitazione e di una possibile “narrazione” autonoma dalla tattica delle alleanze.

Un Bersani molto poco dalemiano se vogliamo, che si è posto (e il voto di fiducia paradossalmente rafforza) come capo unico e possibile dell’opposizione intanto parlamentare.

Un credito che dovrà esser bravo a salvaguardare, difendendolo dall’iper tatticismo di chi lo consiglierà di giocare la solita partita dell’alleanza con Casini, sia da chi da dentro e da fuori il partito lo bombarderà con critiche continue, seppur magari un po’ più deboli dopo recenti scivolate all’ora della merenda.

Per farcela il segretario dovrà semplicemente continuare come ha fatto in questi giorni, mettendo in campo la sua solita concretezza e rispondendo alle tattiche con quella semplice (ma efficace) domanda: “ma lei lo sa quanto costa un litro di latte?” .