Se vogliam fare gli americani.

Un mio vecchio amico usava spesso l’espressione “fare i tedeschi con la mentalità dei sudamericani”.

Mi è tornata in mente pensando alle primarie per il Sindaco di Firenze che come Pd ci apprestiamo a fare. Spero di sbagliarmi ma vedo una voglia matta di ripetere nella forma quello che avviene aldilà dell’oceano senza però introiettarne i contenuti, il rispetto e le modalità (se volete i riti) politici di quel modello.

Vedo slogan copiati (al candidato sbagliato però), convention, staff elettorali, gadget, immagino che arriveremo anche ai cartoncini coi nomi e qualche emittente televisiva organizzerà senz’altro un bel faccia a faccia.

Sia chiaro a me tutto questo piace. Tentavo, quando facevo quel mestiere, di organizzare campagne all’americana già nel 2001, figurarsi se non ci sguazzo in tutto questo.

Penso però che servirebbe anche imparare le regole del confronto, il senso delle riunioni che precedono gli interventi alle convention dei partiti, tutta l’arte della politica che permette ai candidati di lavorare per colui che vince, stringendo accordi assegnando incarichi (sì la politica è anche questo).

In sintesi ridando centralità alla politica aldilà dei metodi. E’ forse l’ora di credere nelle scelte che abbiamo compiuto. Non è più il tempo di gattopardismi in cui si cambia il metodo per mantenere la sostanza dei nostri rituali. Abbiamo scelto un metodo competitivo, dobbiamo attrezzarci a questo; regolare e riportare la competizione nell’alveo del confronto civile e serio. Servono contenuti oltre alle regole, non servono a mio avviso i proclami all’unità, vuote richieste di riduzione dei candidati.

Serve governare la complessità, trarne vantaggio e non averne paura. Servono dei dirigenti che sappiano far questo e che abbiano l’umiltà e la sapienza di non cercare la ribalta.

Assemblea di una sera di mezza estate

Ieri sera sono intervenuto all’assemblea cittadina del PD di Firenze. Il fato e l’arbitrio del segretario cittadino hanno voluto che parlassi dopo gli interventi del presidente della Provincia Renzi e, soprattuto, quello di Daniela Lastri che ha ufficializzato la propria candidatura alle primarie (tra l’altro complimenti a Daniela per il coraggio, merce rara di questi tempi!). Insomma un momentaccio, l’attenzione era poca ma ho provato a svolgere qualche ragionamento che riporto qui sotto.

Nell’approcciarci al lavoro sul programma così come definito dal documento approvato da questa assemblea il gruppo che ho avuto il compito di coordinare ha cercato di definire quelle linee programmatiche comuni in vista delle primarie.

Siamo partiti dall’analisi della nostra città, dal bilancio del lavoro svolto, dalle analisi che l’IRPET ha fatto sulla nostra area, convinti che una analisi corretta sia indispensabile se si vuole fare un buon lavoro.

Un’analisi che mostra un quadro non completamente positivo, dove gli elementi che rendono Firenze più competitiva sono in larga parti dovuti alle maggiori difficoltà degli altri piuttosto che alle nostre migliori performance. Elementi positivi che si legano spesso a quelli che troppo semplicisticamente accostiamo alla parola rendita, dimenticando che questa genera valore aggiunto ricchezza e rappresentano, come dimostra lo studio appena pubblicato dalla provincia insieme alla London school of economics, i campi di interessi (gli unici) degli investitori esterni.

E’ dunque emerso il bisogno di declinare una parola: cambiamento. Dopo un ciclo amministrativo di quindici anni di cui tutti noi diamo un giudizio positivo non abbiamo la necessità di inserire elementi di rottura. Serve portare avanti le scelte fondamentali, in primis quelle infrastrutturali, ma adeguandole alle conseguenze, sociali, economiche, fisiche che le nostre scelte (e non solo) hanno generato.

Un cambiamento se mi permettete di mutuare l’espressione dallo slogan della campagna elettorale di Mitterand che vorrei definire tranquillo.

Accanto a questo dobbiamo affrontare il tema della gravità, intesa quasi in senso fisico. Come quella forza che ci mantiene attaccati al terreno, alla concretezza, alla fanga. Un senso di responsabilità perchè i tempi appaiono difficili, appaiono tempi in cui non possiamo accontentarci dei sogni, anche perchè i sogni durano una piccolissima parte della notte.

Dobbiamo quindi lavorare, insieme, alla costruzione di una identità diffusa, non a ricette salvifiche, in cui porre il tema del limite delle risorse, fisiche, sociali ed economiche in cui svolgere lo sviluppo.

Uno scenario nuovo in cui il problema delle dimensioni non può essere più ignorato. Quel tema intuito tanti anni fa da Gianfranco Bartolini che oggi, con la proposta della città metropolitana può avere uno sbocco istituzionale compiuto.

Dobbiamo essere conseguenti alle nostre scelte. Quando si avvicinano i mercati, le comunità, quando si rompono i limiti anche fisici, nel nostro caso gli appennini con la TAV, si creano effetti irreversibili che devono essere governati per dirla con il Marx che descriveva la fine delle antiche civiltà.

Si aprono prospettive incredibili ma anche rischi enormi se non ci faremo trovare pronti. Non ci potremo accontentare di ridurre di mezz’ora, fosse anche un’ora, il tempo per arrivare a Milano dovremo porci l’obiettivo di essere perno di un sistema che lega Livorno e il suo porto con l’Europa, la Toscana al nord e il sud del Paese, conquistando così il ruolo di capitale della Regione, non per rango e storia ma per funzione ed interesse.

Un perno capace di essere quel centro di gravità di una Italia di Mezzo (Toscana, Umbria e Marche) omogenee per economia, composizione socilale e persino consenso politico, che non riesce a materializzarsi e rendere questa area competitiva nel contesto europeo.

Come vedete un ambizione alta e però al contempo concreta, inserita prepotentemente nel dibattito europeo delle città regioni, quel dibattito su cui si orienteranno le politiche dell’Unione e i finanziamenti ad esse legate.

Infine permettetemi di concludere con due riflessioni personali, che non sono frutto del lavoro del gruppo che presiedo.

La prima è che credo serva una sprovincializzazione del nostro dibattito, soprattuto quello che facciamo sui giornali.

Abbiamo bisogno di una elaborazione alta. Porto l’esempio delle infrastrutture e della mobilità-

Forse dovremo riuscire ad uscire da una concezione idraulica, come scriveva qualche tempo fa Walter Tocci in un bel saggio, del traffico. Un idea che pensa che così come per le tubature, aumentando il numero dei tubi e la portata di questi ultimi si distribuisca meglio l’acqua. E invece abbiamo visto, ovunque, che all’aumentare dei tubi è aumentata subito anche la quantità d’acqua da trasportare.

Dunque non credo sia utile affrontare il tema di nuove infrastrutture per la mobilità su gomma cercando le compatibilità tecniche, ambientali o paesaggistiche. Quelle di solito con un buon progetto si trovano. Il problema sono le compatibilità politiche. Come si coniugano, guardate lo dico senza voler dare un giudizio ma per svolgere un ragionamento, nuove strade con la cosiddetta cura del ferro, con l’ambizione di spostare il traffico privato sui treni locali.

Come si coniugano nuove strade, l’aumento del traffico che queste sempre portano, con quanto affermiamo due righe sotto cioè la diminuzione dell’inquinamento, delle emissioni nocive?

Come stiamo in un dibattito mondiale in cui persino la California discute su come chiudere e demolire qualcuna delle sue highway?

Non può valere qui la politica del ma anche, serve la definizione di una scelta.

Dunque e vado a concludere serve una sprovincializzazione dei temi, del nostro dibattito. Anche perchè altrimenti il rischio è quello dell’incapacità del partito non di trovare una leadership, un candidato ma un gruppo dirigente.

Abbiamo scelto, come fondante per il nostro partito, un modello competitivo basato sulle primarie. Dobbiamo svolgerlo in modo che questo non rappresenti l’affermazione di un sindaco ma di un intero gruppo dirigente per il PD e per la città, capace di precedere chi vogliamo amministrare, di indicare una strada, sperando naturalmente che sia quella giusta.

Serve rispetto e determinazione, coraggio e understatement non promesse. Serve indicare un cammino comune, non nascondendo le difficoltà che incontreremo ma mostrandoci pronti a fare insieme ai nostri cittadini quel pezzo di strada per quanto dura sia.

L’incapacità di scegliere porta a soluzioni endogene. Il salvatore esterno non può essere la soluzione ma solo la riproposizione dei nostri antichi mali e un passo verso l’indebolimento e la sterilità.

Siamo invece di fronte a un potenziale gruppo dirigente in grado si superare le distanza e le rotture del passato, in grado di portare alla città idee nuove e richieste di impegno comune, di dimostrarsi capace di cambiare, tranquillamente, la nostra città.

Ask not

Ask not è il titolo di un gran bel saggio su John F. Kennedy e sul suo discorso d’inaugurazione il 20 gennaio 1961. E’ un saggio che ha il ritmo di un romanzo, scritto con quella prosa e quella capacità di creare immagini ed emozioni che hanno gli storici anglosassoni.

A partire da un discorso, quello che diventerà mitico proprio per quel “non chiedete cosa il vostro paese possa fare per voi…” Clarke ricostruisce la figura di Kennedy, i sogni e le speranze che la sua elezione portò.

Kennedy fu capace di interpretare la voglia di un Paese e soprattutto di una generazione, di assumere delle responsabilità e di rischiare. Mostrò agli americani, per dirla con Paolo Conte, che erano in “un mondo adulto, [in cui] si sbagliava da professionisti”.

Le pagine che descrivono la nevicata la notte prima del discorso sono stupende. Danno il senso della sospensione, dell’attesa. Come se quella neve fosse il confine tra il prima e il dopo, uno spazio quasi cinematografico in cui fermarsi a sperare che il giorno dopo iniziasse un nuovo mondo e non solo una nuova presidenza.

Quel giorno, […], molte persone, come ipnotizzate, guardarono dalla finestra la neve che si accumulava, mentre le conversazioni via via languivano e i cortili e i marciapiedi diventavano bianchi; le feste diventavano più allegre; mentre la neve smorzava i suoni della città e le stanze ben illuminate sembravano più piccole e più accoglienti mentre scendeva la sera e la neve si faceva più fitta”.

Doveva essere una bellissima sensazione. Mi piacerebbe davvero poterla provare. Mi piacerebbe che, nel piccolo potesse provarla la nostra città. Magari l’anno prossimo, quando una cerimonia d’insediamento (decisamente più modesta) accompagnerà un nuovo sindaco.

E’ rara la neve a giugno. Rara, ma non impossibile.