Foto e racconti da Kyiv

Sono andato a vedere la mostra di Massimo Listri – Firenze Kyiv andata e ritorno (Sala d’arme di Palazzo Vecchio fino all’8 marzo) – mentre leggevo Diario di un’invasione di Andrei Kurkov (Keller editore) e l’effetto stereofonico di immagini e libro mi è rimbombato dentro in modo nettissimo.

Partiamo dalla mostra. Listri ha fotografato Kyev in guerra ma le immagini che troverete visitando la mostra sono ben diverse da quelle che potreste aspettarvi da un teatro bellico. Listri fotografa bellezze, artistiche e architettoniche. Le sue sono immagini colorate, che riportano il gusto un bel po’ barocco dell’architettura pubblica presovietica, delle chieste ortodosse. Ma anche il brutalismo sovietico, come nel caso della biblioteca nazionale di Kiev, abbellito da una pittura muraria anch’essa coloratissima al pari delle vetrate delle cattedrali. Qua e là, nelle foto, la guerra però appare. Sotto forma di sacchi di sabbia, per esempio, nella foto della scala d’onore del palazzo presidenziale.

Ai miei occhi Listri fotografa quello che non vorremmo perdere, quello che stiamo difendendo e che dovremmo difendere. Un punto di vista capovolto rispetto alle di distruzione, sventramento e tragedia che siamo soliti associare alle foto scattate in zone di conflitto. Non il bello che ci salverà ma quello da salvare. L’effetto è amplificato (come le videoproiezioni immense alle pareti della Sala d’Arme) dal luogo in cui siamo. Lo nota mio figlio. Il contrasto dei palazzi del potere ucraini minacciati e il luogo del “potere” della mia città, che non avrei mai immaginato, fino a due anni fa, potesse essere minacciato da una guerra; mentre oggi il pensiero, con annesso brivido, mi prende.

Veniamo quindi al libro. Sono le note che lo scrittore ucraino, di doppio passaporto inglese, ha redatto appena prima e subito dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022. Note in cui la guerra, prima minacciata, poi reale, irrompe in una quotidianità così simile alla nostra: la polemica, proprio nel febbraio del 2022, sulla riforma dei menù delle mense scolastiche, mentre centinaia di migliaia di russi incombono alle frontiere; i gruppi facebook sulla birra che arriva nella bottega del Paese, dove l’autore ha una casa di campagna, mentre lui è sfollato al confine occidentale del Paese e i razzi russi devastano larga parte della nazione.

Come si può vivere sotto un’invasione, con le bombe che fischiano, con la paura per sé e per i suoi cari. Come possiamo immaginare, anche qui, l’inimmaginabile per noi almeno fino a quel febbraio di 2 anni fa.

Ma anche domandarsi come si farà a ridurre tutto l’odio che da allora si è creato, cosa potrà essere, quando sarà, la pace.

La guerra in Ucraina, non è più speciale o più importante di altre, ma forse è la più “trasferibile” per noi (di sicuro per me), per la similitudine di luoghi e situazioni. Questo dovrebbe forse spingerci a capire il senso di minaccia che si porta dietro e il senso di un impegno a difesa di Kyiv da un lato e dall’altro lato, dovrebbe consentirci di trasportare questa urgenza anche sugli altri conflitti in corso, a partire da quello mediorientale, per annullare, almeno, l’indifferenza.

Articolo apparso sul CulturaCommestibile n.521 del 17 febbraio 2024

Le città postpandemiche

Parigi – urban farm

Per anni dietro le mie spalle, nel mio ufficio di allora, ho avuto un manifesto (se non ricordo male era dell’ARCI) con il motto medievale tedesco: “l’aria delle città rende liberi”. Ci ripensavo in questi mesi di pandemia quando l’aria delle città – più correttamente degli sprawl – appare quella meno salubre e più feconda per la trasmissione del virus. Ragionamenti che anche sociologi, urbanisti, amministratori, stanno provando a fare, approfittando del virus come occasione di ripensamento e ridisegno degli spazi del nostro abitare.

Non tanto come metodo di lotta al virus, si spera che i tempi di cura del COVID non siano quelli medi del ridisegno delle nostre città ma molto, molto, più rapidi, piuttosto un ripensamento che va in direzione di una sostenibilità ambientale e come precauzione per le prossime crisi, non necessariamente pandemiche, che come ci insegna David Quammen in Spillover ci troveremo, anche a causa del nostro sviluppo ad affrontare. Mentre qui da noi si oscilla tra archistar che blaterano di un ritorno ai piccoli borghi, amministratori che aborrono lo smart working per non far chiudere il baretto sotto la Regione e un generale senso di “add’ha passà a nuttata”, nel resto del mondo qualcosa si muove in direzioni diverse e interessanti. Rispondendo ad una intervista del Sole 24 ore del settembre scorso Richard Florida, l’urbanista guru della società della conoscenza che tanto ha plasmato gli anni dell’ottimismo obamiano, ha riletto la sua concezione di egemonia della classe creativa alla luce del COVID-19. Fine delle metropoli, ritorno alla media dimensione urbana. Va considerato che Florida parla del contesto americano e quelle che lui considera grandi città non sono certo le dimensioni delle nostre cittadine italiane. Dunque paradossalmente i nostri centri urbani potrebbero partire avvantaggiati rispetto a questa nuova fase. Anche perché il secondo elemento che Florida ritiene determinante nella città post pandemica è la piazza. Istituzione italiana per eccellenza, che non viene declinata al virtuale ma proprio come spazio di aggregazione e, perché no, di lavoro, legata allo smart working.

Inutile dire che la riflessione di Florida, così come la sua teoria più famosa, affronta il livello medio alto della società, quello che può telelavorare, quello che è sopravvissuto alla rivoluzione dell’ICT e che sopravviverà alla rivoluzione della robotica. Noi invece qualche problema su come sopravviveranno, anche in termini urbanistici, i milioni di lavoratori poco o per nulla qualificati nel processo di espulsione della loro forza lavoro ad opera dei robot vorremmo provare a porlo. Magari con soluzioni non troppo diverse, possibilmente, di quelle immaginate per la parte ricca (di soldi e di conoscenza) della popolazione.

Anche in Canada, precisamente in Québec, il tema è stato affrontato. Le smart city, il lavoro che cambia, le nuove generazioni iperconnesse erano alcuni dei temi della MTL Connect che si è svolta, per larga parte online, la scorsa settimana. In questo caso siamo già a i primi ripensamenti ad un ridisegno delle smart cities a partire dal fallimento di Toronto Google city.

Anche da questa parte dell’oceano però non si sta con le mani in mano. La città di Parigi ha iniziato il percorso di ridisegno del proprio strumento di programmazione urbanistica, ponendosi (prima del COVID) l’obbiettivo di un piano a bilancio ambientale positivo. Per cui dal consumo di suolo si passa alla restituzione di verde e aree umide in misura maggiore a quelle in cui si continuerà a colare cemento.

All’interno di questo processo, che prevede anche interessanti esercizi di democrazia partecipativa, Le Monde ha dedicato lo scorso 16 ottobre due pagine agli interventi di due urbanisti ed una sociologa sul tema del nuovo PLU (Plan Local d’Urbanisme). Ebbene tutti e tre gli interventi andavano nella direzione di Florida, del superamento della scala urbana della rottura della continuità del costruito. Più radicale, anche nella critica, l’urbanista Albert Levy che poneva come efficace non il limite della città (stiamo comunque parlando di Parigi) e nemmeno quello dell’aria ad essa confinante ma quello dell’intera regione parigina. Parlando in termini di difesa dai cambiamenti climatici, in particolare del surriscaldamento urbano, anche in termini sanitari. Scrive Levy: “lottare contro l’isola di calore urbano ed i suoi effetti sanitari deleteri deve divenire l’obiettivo prioritario dell’urbanistica bioclimatica, rinforzando il posto della natura nella città: ripiantare verde e alberi lungo le strade e nelle piazze, diversificare la vegetazione, rendere verdi facciate e tetti, sviluppare l’agricoltura urbana, gli orti comuni, i parchi, le trame verdi e blu, bloccare l’artificializzazione del suolo, demineralizzare il suolo, favorire l’infiltrazione naturale della pioggia, incoraggiare la fitoterapia, manutenere i corsi d’acqua”. Sono questi gli assi dello sviluppo urbanistico di Parigi, che però se vuole avere un senso deve avvenire a livello di scala regionale, avendo poco senso un salotto verde attorniato da banlieue cementificate, aeroporti intercontinentali e fabbriche inquinanti. Rompere il tessuto urbano, ridare soluzioni di continuità ad un tessuto che si è espanso senza fine e senza senso.

Queste le tesi anche di Agnés Sinaï e di Antoine Grumbach che vanno entrambi nella direzione della fine dell’urbanistica della congestione, la prima, e di una forse utopica riscoperta del territorio e della sua gestione armoniosa per il secondo.

Comunque il punto di fondo è la fine della megalopoli come modello di sviluppo, un ritorno a rotture tra città e campagna con quest’ultima fortemente collegata da infrastrutture tecnologiche e materiali ad impatto però ridotto.

Uno scenario che potrebbe vedere l’Italia e in particolare quel territorio centrale che va dagli Appennini alla Capitale come un unico scenario di sviluppo di queste nuove competenze, di un modello bioclimatico a cui si aggiungerebbero le bellezze architettoniche, artistiche, storiche e paesaggistiche ed un modello di sviluppo economico diffuso, ridisegnando e sostenendo in infrastrutturazione, ricerca e sviluppo il tessuto di medie e piccole imprese.

Potremmo essere capofila di un modello di sviluppo che per le parti più avanzate del pianeta vorrebbe dire cambio traumatico di traiettoria, mentre per noi, prosecuzione di un cammino millenario. Potrebbe, a patto di non limitare l’ottica ai dehors dei bar e ristoranti oramai vuoti, al museo da tornare a riempire e alla ZTL da perforare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile.com n. 374 del 24 ottobre 2020

Usare lo Stadio per ridisegnare la Piana.

Cosa accadrebbe se il nostro fornaio, una volta ogni 15 giorni, per far ben respirare il suo lievito madre, con cui fa quelle pagnotte che ci piacciono tanto, bloccasse la strada dove abitiamo costringendoci a faticose deviazioni, a parcheggi difficilissimi o a dover uscire da casa a orari impossibili per evitare il blocco? Probabilmente alla seconda volta che il fornaio interrompesse la strada chiederemmo l’intervento dei vigili e pretenderemmo da loro di sgombrarci la strada per la nostra casa. Eppure tutto questo avveniva ogni 15 giorni al Campo di Marte quando allo Stadio Franchi giocava la Fiorentina nell’epoca pre covid. Non che a porte chiuse non ci siano disagi se il post con cui il Comune annuncia le deviazioni alla mobilità per le attuali partite a porte chiuse non ci sta in un unico screenshot del telefonino.  Disagi che si ripetono ogni 15 giorni perché, lo dico tristemente da tifoso viola, la squadra da anni è quel che è e non si giocano le coppe europee, altrimenti la frequenza e i disagi (giocando nel mezzo della settimana) sarebbero maggiori.

Pochi si ricordano, per fortuna mi viene da dire, che ben prima della conferenza al Four Seasons dei Della Valle, nel 2008, fu una presa di posizione del Consiglio Comunale – a firma del sottoscritto, di Alberto Formigli e Dario Nardella, allora segretario, capogruppo dei DS il partito di maggioranza relativa e presidente della commissione cultura – a porre il tema dello spostamento dello stadio dal Campo di Marte. Lo facemmo in occasione della discussione del Piano Strutturale, partendo dall’assunto che lo stadio lì non consente, strutturalmente, l’ordinato dispiegarsi delle altre funzioni. Cosa che sarebbe considerata inaccettabile, in primis dai residenti della zona, in qualunque altra città del mondo.

Quello che è accaduto dopo è noto, con gli anni dei Della Valle in cui ho sempre avuto l’impressione, dal giorno della “presentazione” al Four Seasons in poi, che si giocasse una sfida a chi rimaneva col cerino in mano, su chi avrebbe detto di no al nuovo stadio, tra la proprietà della squadra e l’amministrazione comunale.

Con l’arrivo di Commisso però le cose sono parse muoversi verso una più chiara e determinata volontà dell’imprenditore privato, riaprendo anche la possibilità di un restyling del Franchi che rappresenta certo una sfida interessantissima sul piano architettonico ma non sposta di una virgola, oggi come 12 anni fa, le problematiche urbanistiche di un quadrante denso di residenza, schiacciato sulle colline e senza prospettive di nuova viabilità a supporto. Anche la proposta avanzata su queste colonne da Gianni Biagi pur prevedendo un ridisegno complessivo dell’area di Campo di Marte e quindi dando risposta non soltanto con un nuovo impianto ai bisogni della Fiorentina e dei tifosi ma anche, almeno in parte, a quelle dei residenti, non appare complessivamente in grado di risolvere lo stadio nel mezzo di un quartiere residenziale densamente popolato.

Oltre a questo ridiscutere del Franchi perché soluzione gradita al soggetto privato mentre il soggetto pubblico, da tre amministrazioni, ha discusso e deciso di trasferire la funzione altrove, andrebbe nella direzione opposta a quella che dovrebbe essere la potestà pubblica del governo del territorio e ben oltre quell’”urbanistica contrattata” che fu ampiamente contestata (e mi si permetta di dire che era cosa assai diversa) una decina di anni fa da chi oggi questa città governa. In questo senso il metodo che propone Gianni e prima di lui Domenici di una società di scopo per costruire e gestire l’impianto rappresenta un punto di equilibrio e di innovazione tra pubblico e privato da perseguire in ogni soluzione scelta.

Anche l’argomento che non si può spostare lo stadio perché poi non si saprebbe cosa fare del Franchi appare un argomento che sancisce il fallimento del pubblico e della sua capacità programmatoria e di ideazione, attrazione e governo delle funzioni. Tanto è vero che sempre su queste colonne sia Biagi che Andrea Bacci hanno ipotizzato funzioni assolutamente compatibili e qualificanti per il vecchio impianto. Se si fosse ragionato con l’idea di non saper che fare dei contenitori dismessi avremmo ancora l’Università in via Laura, il Tribunale in San Firenze e la scuola dei Carabinieri in Santa Maria Novella.

Tuttavia, con buona pace del dibattito che questa rivista e la città hanno intrapreso, è probabile dopo 10 anni di programmazione, ideazione, bandi, localizzazioni impossibili come la Mercafir, che non sarà sulla base di un ragionamento sulla bontà della collocazione per rispondere al bisogno “stadio” che l’impianto si farà o meno al Franchi a Campo di Marte o a Campi, ma sarà sulla base della convenienza del costo dei terreni che il soggetto privato, legittimamente, farà e sulla rapidità di esecuzione di un progetto che Firenze ha annunciato per tre amministrazioni ma mai avviato.

A me pare dunque che oltre ai meriti urbanistici, vista la non volontà di praticamente nessuno di tornare all’ipotesi di Castello, la possibilità di costruire il nuovo stadio a Campi Bisenzio sia quella oggi che ha maggiori vantaggi di realizzabilità. Una scelta che avrebbe il vantaggio di costruirsi su un’area meno carica di funzioni ma che, proprio per questo, imporrebbe costi più elevati per realizzare le infrastrutture di mobilità, soprattutto su ferro, per rendere fruibile in modo sostenibile lo stadio. Un prezzo elevato che il pubblico potrebbe in parte sostenere, a mio avviso, sia impostando un modello di partecipazione mista come quello ipotizzato da Biagi e Domenici sia se lo stadio fosse una delle funzioni sulle quali si aprisse una stagione, finalmente, di pianificazione complessiva della Piana; in cui il capoluogo non scaricasse in quel quadrante solo le funzioni più impattanti o di servizio (aeroporto, termovalorizzatore, ecc…) ma tornasse, come avvenne per l’Università a Sesto, a pensare ad uno sviluppo complessivo e contemporaneo del suo territorio, insieme a quello di quei comuni. Per esempio coinvolgendoli in un ripensamento dell’intervento di Castello che, evidentemente, visto che la proprietà per prima non dà seguito alle previsioni di Piano, ha necessità di essere rivisto, ragionato e ripensato. Sia nella parte privata che in quella pubblica dato che il non avvio della prima non consente la realizzazione di quel parco della piana che comunque sarebbe oggi, praticamente ingestibile, per i costi di conduzione elevatissimi, da un’amministrazione comunale sola.

Approfittare quindi del nuovo stadio per ribadire il ruolo del pubblico invece di utilizzarlo per appuntarsi una mostrina da riscattare alle prossime elezioni. Riprendere in mano un governo del territorio che sia sempre più cura del paesaggio, difesa dell’ambiente e risposta a bisogni dei cittadini. Bisogni dell’abitare, del muoversi ma anche del divertirsi e, perché no, del tifare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 362 dell’11 luglio 2020

Idee per la città che verrà

Giovedì 28 maggio è andato in onda il primo webinar di Cultura Commestibile ; quasi due ore a discutere di come potrebbe essere la Firenze post coronavirus.

Una discussione molto interessante, pacata e speriamo fruttuosa. Ve la ripropongo anche qui.

L’angusta gabbia del palcoscenico nella terra di Tebe

In questo autunno che tarda ad arrivare ripartono consuete le stagioni teatrali: Pupi e Fresedde ha presentato quella del teatro di Rifredi lo scorso 27 settembre inserendo come spettacolo di apertura la prima produzione in italiano dell’autore uruguaiano Sergio Blanco. Tebas land è un testo potentissimo ed emozionante che Angelo Savelli, che cura anche la regia dello spettacolo, ha reso con una traduzione secca e asciutta. Lo spettacolo andato in scena in anteprima al festival di Todi questa estate vede un giovane parricida ed un regista confrontarsi nel campo da basket del cortile di un penitenziario.  Lo sdoppiamento tra la realtà carceraria e lo spettacolo che il regista vuole trarre da questo omicidio passa attraverso riferimenti letterari, primo su tutti quello di Edipo che ispira anche il nome dell’opera, ma anche e soprattutto attraverso i colloqui tra il regista, il parricida e il giovane attore che lo interpreterà sulla scena. Piani che si intersecano e definiscono la tragedia, a partire dal resoconto cronachistico di quanto accaduto per poi scavare e instaurare un rapporto tra l’autore e il detenuto, contrappuntato dall’attore che non è mera cartina di tornasole della riuscita dello spettacolo ma diventa pian piano ulteriore elemento di confronto e conoscenza. Uno spettacolo che ricostruisce il ristretto orizzonte carcerario ponendo lo spettatore sul palco a guardare la gabbia del campo da pallacanestro, asserragliato anche lui e privato del rassicurante confort della propria poltrona in platea. Messo al centro della scena il pubblico è quindi in grado di godersi appieno il gioco di attori che Ciro Masella ma soprattutto Samuele Picchi introducono anche fisicamente tra un rimbalzo di pallone e l’altro. Ancora una volta grande merito al Teatro di Rifredi nel  portare in Italia un autore affermatissimo non soltanto nei paesi di lingua spagnola come era già accaduto con Josep Maria Mirò, che sarà in scena sempre a Rifredi per il terzo anno con Il principio di Archimede o col francese Rémi de Vos con il nuovo spettacolo Tre rotture anch’esso nel cartellone rifredino. Tebas land sarà in scena a Rifredi dal 10 al 27 ottobre con ben 14 repliche che conviene prenotare per tempo visti i posti ridotti per l’allestimento scenico scelto.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 324 del 4 ottobre 2019

La curiosità come metodo politico

Di Riccardo Conti sono stato orgogliosamente “nipotino indisciplinato” e non è dunque facile scriverne a meno di due anni della sua prematura scomparsa. Tuttavia la pubblicazione, a cura della sezione Toscana dell’INU, del numero monografico di Urbanistica e Dossier a lui dedicato merita di cacciare indietro il magone e provare a ragionare su Riccardo Conti nel suo fare urbanistica, che è poi anche il titolo della pubblicazione.

Il volume raccoglie scritti di chi con Riccardo condivise una stagione amministrativa e riformista, come la chiamava lui, irripetibile.  Intanto per il metodo, un incontro di sapienti e di politici, così inimmaginabile nella stagione dei “professoroni”, dell’inesperienza come valore, dell’università della vita. Erano anni in cui i Direttori generali dei vari assessorati della Regione Toscana non avrebbero sfigurato nelle cattedre dei migliori atenei del Paese e in cui, noi capi di gabinetto, temevamo il maglio del CTP del giovedì molto più della scure della giunta politica del lunedì. Nel volume c’è appunto il racconto di Mauro Grassi che ci fu rubato dalla Cultura proprio per approdare all’assessorato di Riccardo e con lui coordinare una squadra formidabile che avrebbe disegnato una Toscana capace non solo di preservarsi ma di svilupparsi.

Riccardo, cresciuto con la cultura onnivora di quelli per cui studiare era la prima forma di riscatto, declinava lo sviluppo territoriale come sviluppo economico, si ostinava a non vedere la terra che era stata della Galileo, del Pignone e della Piaggio a un’eterna Disneyland che consumava il suo passato o nella trasformazione in un Chiantishire fatto di vincoli ad ossimorum. La sua idea di progresso passava dalla città lineare da Firenze al mare, nell’alta capacità che univa Livorno a Rotterdam. C’era in lui un forse ingenuo sviluppismo, un mito di progresso che certo prevaleva su un ambientalismo da salotto, sull’immobilismo progressista che vedeva in una fabbrica di caravan un nemico di classe.

La Toscana di Riccardo era vigne a giropoggio, come aveva letto in Emilio Sereni, ma anche l’Arno Valley il cui poster era appeso nella sua stanza di vicepresidente della Provincia. Lo sguardo dritto e fiero nel futuro non lo abbandonava mai, ma era un futuro fatto sì di rispetto ambientale ma non certo di immobilismo luddista. A Riccardo piaceva il progresso e sognava riforme per sviluppare. Era felice la crescita per lui, mai il suo contrario.

Certo non fu semplice lavorare con Riccardo, rapportarsi con lui come ricorda il nostro Gianni Biagi anch’egli autore di uno scritto della monografia sui rapporti, talvolta burrascosi tra i piani regionali e quello comunale a cui forse un eccesso di critica da parte della Regione contribuì a far allungare il dibattito fino a che il vento che soffiava da Rignano ne decise la fine, più consona alla stagione nuova che rappresentava.

Ma il metodo di Riccardo era un metodo curioso, pedagogico. Intergenerazionale. Quanti giovani devono a Riccardo occasioni di confronto e crescita, opportunità di incarichi, tutti meritati, quanto meno per la qualità di quelli che ci sono succeduti. Ed ecco che è così bello leggere le pagine di Chiara Agnoletti, anche lei cresciuta alla scuola dei nipotini di Riccardo, mai geloso e sempre pronto a sorreggere anche quelli più riottosi di noi.

Quella stagione siamo certi non tornerà più e magari è meglio così, ma riappropriarsi di quel metodo, di quella curiosità, della mazzetta dei giornali esagerata sempre sotto il braccio di Riccardo, sarebbe oggi più che mai una necessità dell’agire politico.

“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” campeggiava in effige all’Ordine Nuovo gramsciano e Riccardo ne seguì fino all’ultimo il comando. Ricordarlo oggi continuando a studiare è il modo migliore per occuparsi del territorio, anche ferito, che ci circonda.

Articolo uscisto su Cultura Commestibile n. 298 del 2 marzo 2019.

La città e il lavoro che cambia

Pubblichiamo qui l’intervento tenuto il 21 settembre scorso all’incontro Firenze per il domani presso la Sala Spadolini del ristorante La Loggia di Firenze.

Nel nostro Paese il tema del lavoro, nonostante un po’ di decentramento tentato con la riforma del Titolo V della Costituzione, è per storia e prassi tema prettamente nazionale; e tuttavia è chiaro che l’organizzazione del lavoro influisce, tanto per dirne una, sull’organizzazione degli spazi della città mentre politiche di welfare determinano attrattività per capitali e lavoratori o al contrario respingono imprese e forza lavoro.

Come quindi ha influito e influisce il tema del lavoro sulla realtà di una città come Firenze? Si proverà qui a dare tre ambiti di riflessione sui quali poter impostare un discorso pubblico e un’ipotesi di città, partendo da tre linee di frattura, due già verificate e la terza in via di determinazione. Tre cesure che rappresentano altrettante distanze tra la sinistra riformista e una grande parte di quello che era il suo popolo, il suo elettorato.

La prima cesura è quella relativa al rapporto che in questi anni il centrosinistra, a Firenze come a livello nazionale ha avuto nel confronto del lavoro.

In questi anni, naturalmente a mio parere, l’aver concentrato larga parte della comunicazione sulle “eccellenze” ha finito per far sentire estranea larga parte dei lavoratori del Paese  (che molto spesso non hanno le condizioni per essere eccellenze né possono lavorare per una di queste) e questi hanno finito per non sentirsi parte del discorso pubblico del centrosinistra.

Brutalmente, pur capendone le ragioni (la ricerca dell’ottimismo e dell’esempio), si è parlato ad una platea amplissima mostrandogli esempi irraggiungibili, per le condizioni economiche e sociali del Paese o banalmente per una mera questione di tempo.

Porre come manifesto della imprenditoria della fase che si stava vivendo, per esempio, un imprenditore quale Farinetti, con la sua retorica del buono e bello nella produzione alimentare che messaggio ha dato a quell’imprenditore pugliese a cui una marca della grande distribuzione ha bloccato l’acquisto dell’intera produzione perché un grappolo, un solo singolo grappolo, di un intero pancale non era visivamente conforme?

E questo tipo di comunicazione è avvenuta anche a Firenze, anzi talvolta la nostra città ne è stata anticipatrice, dispiace dirlo. E questo ha vanificato anche le azioni politiche fatte o le politiche per il lavoro e i lavoratori che sono state intraprese in questo territorio ottenendo anche risultati.  Purtroppo però il discorso pubblico, certo per colpa anche dell’informazione sia chiaro, è ormai così compromesso che il 12 settembre scorso i giornali locali titolavano sulla bistecca patrimonio dell’umanità e non sulla rinascita della Seves.

Capisco che parlare di operai e facchini non sia eccitante come parlare con vinificatori, artisti o capitani di industria e che se la risposta è portarli a cena si va poco lontano, però questo tema, a mio avviso, è urgente e necessario. Per questi lavoratori la crisi non è mai finita e anzi, anche qui da noi, in alcuni casi rischia di iniziare ora.

La seconda cesura è una cesura fisica, materiale ed è più propriamente legata alla città e alle sue politiche. È questa una frattura che si determina visivamente nel territorio della città o meglio dell’area fiorentina.

Una mano anonima, ma non stolta, ha scritto a ragione, sui muri della facoltà di architettura qui a Firenze, la frase: “l’urbanistica è l’organizzazione capitalista dello spazio”; ecco partendo da questo assunto occorre ridefinire e determinare le scelte dello sviluppo della città, in questo caso della città metropolitana in base anche alla tipologia di sviluppo economico che si immagina per il territorio. A questo si lega lo sviluppo della rete infrastrutturale e dei servizi.

È avvenuta, ed è ancora in corso invece, una frattura fra una città che produce e una che consuma la propria storia e ricchezza. In questo la scelta di non far attraversare il centro storico dalla tramvia, aldilà dei giudizi che si dà all’operazione, ha determinato una cesura e una compartimentazione economica fra la città che si nutre sul turismo e la città (vasta) che produce ricchezza sugli altri settori.

È questa una cesura che può essere invertita solo con una riflessione sulla contaminazione dei due ambiti, con una nuova politica che riporti residenza, lavoro e non rendita nel centro storico e che definisca che la vocazione produttiva dell’area fiorentina è anche altro rispetto all’attrazione turistica, lo sfruttamento delle proprie bellezze e una vetrina per multinazionali ed eccellenze.

Messe in questo contesto, per esempio, scelte infrastrutturali quali l’aeroporto, l’alta velocità o lo sviluppo urbanistico dell’area fiorentina troverebbero materia di confronto un po’ più seria delle beghe di campanile e probabilmente anche una qualche soluzione.

Infine la terza frattura è quella potenzialmente più rischiosa, quella che può divenire un canyon. È ormai in atto nel mondo un processo di robotizzazione del lavoro che, seppur da noi con qualche ritardo, vedrà drasticamente cambiare il rapporto con il lavoro. La robotizzazione del settore dei servizi, dalla logistica all’assistenza, comporterà una espulsione di forza lavoro con numeri previsti enormi. Stiamo parlando di forza lavoro non qualificata e, a causa delle politiche pensionistiche di questi anni, in buona parte di età avanzata. È un processo globale, che necessita probabilmente di politiche sovranazionali, ma che, è facile profetizzare, avrà ricadute sulle nostre città, col rischio di creare ulteriori ghetti, di alimentare paure e insicurezze. Servirebbe arrivare pronti all’appuntamento, pensando già da ora politiche, spazi e azioni per l’inclusione, la mixitè e il reimpiego di questi uomini.

Perché l’alternativa a una politica che include e non esclude è già in elaborazione. Salvo che da noi, per l’approssimazione dell’attuale classe di governo, la discussione sul reddito di cittadinanza è proprio funzionale a gestire questa (temo lunga) fase di transizione di masse di lavoratori non più impiegabili, attraverso un sussidio assistenziale pagato con una (minima) parte dei guadagni che arriveranno con l’efficientamento dovuto alle macchine.

In un bellissimo libro sulle intelligenze artificiali scritto dal direttore del laboratorio su queste ultime dell’università di Oxford, questo passaggio epocale è descritto paragonandolo a quanto accadde ai cavalli dopo la II rivoluzione industriale. Lascio a voi giudicare se questo passaggio sia o meno auspicabile.

Racconta il professor Bostrom che con la seconda rivoluzione industriale la popolazione di cavalli dell’occidente fu decimata. Non servivano più né per il lavoro dei campi, né per il trasporto delle merci, sostituiti da trattori, camion e treni. Però, ci dice speranzoso Bostrom, dopo qualche decina di anni la popolazione equina è ricominciata a crescere e di molto. Il cavallo da animale da lavoro è diventato animale da sport, compagnia, persino cura e le razze selezionate sono oggi più forti e prestanti.

Questo è uno degli scenari, perché non divenga l’unico scenario occorre immaginare fin da ora come passeremo dai cavalli da tiro ai cavalli da salto, immaginando che nessuno di noi pensi a un presente fatto di carne in scatola.

Articolo apparso sul numero 279 del 6 ottobre 2018 di Cultura Commestibile

Il museo che diventa impresa

 

Mercoledì 4 luglio alle ore 18,00 a Bottega Strozzi, proprio dentro l’omonino palazzo, io insieme a Maurizio Vanni, Direttore del Lucca Center of Contemporary Art (Lu.C.C.A.), nonché professore ordinario di Museologia e Marketing museale e docente di Marketing emozionale e Marketing della Cultura e delle Arti, presentiamo il suo ultimo libro “IL MUSEO DIVENTA IMPRESA. Il marketing museale per il break even di un luogo da vivere quotidianamente“, Edizioni Celid.
Ne discutiamo assieme a Domenico Piraina, Direttore di Palazzo Reale di Milano, Direttore del Settore Promozione Culturale del Comune di Milano e dei musei scientifici milanesi.

Vi aspetto numerosi!

Un verde futuro, di qualche milione di anni ancora

Cambiare paradigma su millenni di evoluzione, abbassare la nostra superbia e dimenticare tutte le lezioni che ci hanno propinato dalle elementari in poi, “dell’uomo al vertice della catena evolutiva”. E’ questo l’insegnamento maggiore che ci danno Fritjof Capra e Stefano Mancuso nella loro conferenza organizzata nell’ambito del master dell’università di Firenze dal titolo Futuro Vegetale che si è tenuta il 5 maggio scorso al Teatro Niccolini di Firenze.

E’ proprio Capra ad insistere molto sul valore del cambio di metafora, sul nuovo punto di vista, non più basato su organizzazioni gerarchiche ma su reti diffuse ed espanse. Un modello chiosa Mancuso – da anni uno dei principali ricercatori mondiali di neurobiologia delle piante – molto simile a quello dei vegetali che, almeno numericamente, rappresentano i veri vincitori dell’evoluzione.

Mancuso infatti ci ricorda che il 99% degli esseri viventi del Pianeta afferiscono al mondo vegetale e che gli animali che consideriamo più evoluti, noi umani, sono su questo pezzo di universo da qualche millennio e potranno dirsi davvero “migliori” solo quando supereranno la vita media delle specie su questo pianeta, cioè circa 5 milioni di anni.

Insomma dobbiamo essere rimessi al nostro posto, è la tesi dei due conferenzieri, e con questo bagno di umiltà apprendere anche dal regno vegetale le strategie migliori di “sopravvivenza”.

Naturalmente, ed è questo il senso del master interdisciplinare dell’Università di Firenze, questi spunti e modelli vegetali possono essere adattati e riversati nei più disparati campi, dalle organizzazioni sociali e aziendali, all’urbanistica e all’informatica e al rapporto con le intelligenze artificiali.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.262 del 12 maggio 2018

La spinta di Angelo e il principio di Archimede

Va in scena da giovedì 15 fino al 25 febbraio , al Teatro di Rifredi di Firenze, Il principio di Archimede, opera inedita in Italia del pluripremiato drammaturgo catalano Josep Maria Mirò. Un testo forte, potente, su come le paure di questo nostro tempo si scontrano col nostro bisogno di affettività, un testo messo in scena e tradotto da Angelo Savelli che ne parla con la stessa passione di cui parla delle sue “creature”, un’opera che ha fatto sua e che sta per regalare al suo pubblico.

Il tema de “il principio di Archimede” ad una prima lettura sembra essere la pedofilia, invece, leggendo il testo si intuisce una profondità diversa, maggiore, intrecci e contraddizioni, anche punti oscuri che normalmente preferiamo dimenticare, cosa ti ha convinto a mettere in scena questo testo?

L’averlo visto dal vivo, sulla scena, al suo debutto a Barcellona nel 2012 nella magistrale  messa in scena dello stesso Miró, e la profonda emozione provata in quell’occasione. Un’emozione fulminante che mescolava insieme lo stupore per l’originalità del suo linguaggio narrativo – che esaspera il rapporto tra trama e intreccio in una sorta di straniante avanti ed indietro – e il malessere etico ed intellettuale per le sgradevoli questioni che getta sul tavolo attraverso una riflessione oggettiva ed impietosa, priva d’ideologismi o moralismi. Da allora non l’ho più mollato: me lo sono tradotto, l’ho fatto leggere a vari attori e colleghi, abbiamo cercato un coproduttore – che non abbiamo trovato – abbiamo conosciuto l’autore, apprezzato la sua umanità ed intelligenza, letto le altre sue opere, l’abbiamo invitato a Firenze per fargli conoscere il nostro lavoro e alla fine “Il principio di Archimede” va in scena a Rifredi in esclusiva per l’Italia. Nel frattempo il testo è stato rappresentato in mezzo mondo, sempre con grande successo. E giustamente, perchè è un testo originale, moderno e che parla drammaticamente di noi e della nostra società.

Viviamo in giorni in cui i mostri tornano a popolare le nostre strade e la paura è un elemento ormai, purtroppo centrale, delle nostre società? Sono elementi che si trovano in questo spettacolo, in questo senso possiamo parlare di teatro d’impegno, non tanto come si diceva una volta, in termini di militanza ma di bisogno di interrogarsi. Qui mi pare che l’interrogativo di fondo sia la nostra domanda di sicurezza (anche indotta) è così pressante da annullare persino spazi di affettività? L’autore risponde nel testo e lo vedremo in scena ma qual è il tuo punto di vista?

La perdita colletiva dell’innocenza, la scivolosa identificazione di omosessualità e pedofilia, la trasformazione fatale del dubbio in condanna, l’accettazione passiva e non verificata un tempo di un pettegolezzo e oggi di una fake virale, la rassicurante necessità di sbattere il mostro in prima pagina, l’ossessione della sicurezza che si trasforma in spirale di violenza e soprattutto la rinuncia all’affettività, all’empatia, in un clima di controllo e di sospetto generalizzato, sono i fantasmi che popolano questa opera che abilmente non prende posizioni definitive ma che vuole invece spingere lo spettatore a schierarsi facendogli sentire tutta la responsabilità e la difficoltà di una scelta, molto attuale, tra la sicurezza individuale e il rispetto del diverso, dello straniero, dello sconosciuto. Io personalmente, in quanto cittadino, non posso che rammaricarmi per la deriva egoistica e puritana della nostra convivenza civile e per l’isteria protezionistica che l’ha infettata; ma in quanto regista ho dovuto condividere con i miei attori la difficoltà di aderire senza pregiudizi a tutti i punti di vista dei vari personaggi che il testo ci propone in una sapientissima scansione.

Lo spettacolo si colloca in un unico spazio scenico chiuso, unico, lo spogliatoio della piscina dove il protagonista fa l’istruttore di nuoto e dove accade il fatto che dà vita alla vicenda. Nella tua regia come sfrutti questo elemento, come ne “esci” (se ne esci) da questo limite voluto dall’autore?

Non ne esco affatto. Anzi, l’ho accettato e amplificato. Una scelta che mi ha imposto una prova di rigore quasi chirurgica, rinunciando agli effetti luci, agli interventi musicali, ai movimenti scenografici e a concentrarmi sulla presenza fisica degli attori. Da qui anche la decisione di portare gli spettatori sulla scena, sia per coinvolgerli direttamente ed emotivamente nello spazio chiuso del dramma sia per avvicinarli alla prestazione intensa e a volte minimalista degli attori. Spero ne sia uscito uno spettacolo nitido, lucido, tagliente.

Il tempo della narrazione non è sincronico rispetto alla vicenda narrata, ma segue la visione dei quattro protagonisti, il loro punto di vista? Come hai lavorato con il cast rispetto a questo punto? Quanta libertà hai accordato agli attori visto che, dato il tema, le sfumature di senso possono essere determinanti rispetto al messaggio che intende far passare l’autore?

Questo è un testo che richiede una verità assoluta. Anche perchè uno dei temi dello spettacolo è proprio la percezione e l’ambiguità della verità. Il mio lavoro è stato dunque quello di accompagnare gli attori, mano nella mano, in questa ricerca della loro verità interiore rispetto al testo e ai personaggi, mantenendo larghi margini di ambiguità e muovendosi tra contraddizioni e depistamenti. Un lavoro certosino reso possibile non solo dalla totale adesione dell’intenso protagonista, Giulio Maria Corso, ma anche dalla bravura degli altri tre attori, Monica Bauco, Riccardo Naldini e Samuele Picchi, sempre puntuali e credibili, e sottoposti alla difficoltà di non poter svolgere cronologicamente il percorso dei loro personaggi e di essere costretti, ad ogni inizio di scena, a reinventarsi la loro condizione psicologica.

In questa occasione sei anche il traduttore del testo, come ti sei approcciato al lavoro di traduzione? Il testo italiano è un testo asciutto, per nulla retorico, immagino che in questo tu sia stato assolutamente fedele.

Fedele? Fedelissimo. Fino alla pignoleria. Ma una pignoleria di “scena”, fatta sul palcoscenico con gli attori. Io non mi arrogo la qualifica di traduttore. Non mi cimenterei mai con un testo letterario. Non ho studiato né lo spagnolo né il catalano (le due versioni del testo che ho avuto sotto gli occhi) ma capisco abbastanza bene queste due lingue neolatine per averle molto frequentate; ma soprattutto capisco, da teatrante, stando in scena, cosa un autore, che è anche lui un teatrante, vuole che si dica e, insieme, cosa serve linguisticamente ad un attore per esprimere agiatamente nella propria lingua quel determinato stato d’animo. Logicamente, nel primo approccio al testo, mi sono avvalso della collaborazione di un catalano verace, Josep Anton Codina, regista e operatore culturale di Barcellona. E, lungo tutto il percorso di traduzione/messa in scena, ho cercato di mantenere l’asciuttezza tagliente e quotidiana del testo di Mirò.

Ancora una volta portate a Firenze un autore innovativo e pluripremiato, come funziona il lavoro di ricerca? Un lavoro importante che il pubblico spesso ignora ma che credo sia determinante per il successo delle vostre stagioni?

Il Teatro di Rifredi ama le novità e le proposte originali. E la compagnia Pupi e Fresedde non è certo famosa per i suoi Shakespeare, Goldoni o Pirandello quanto piuttosto per testi, teatrali o letterari, sempre ancorati al presente, scritti nel presente o riscritti per il presente. Per realizzare questo progetto occorre essere sempre curiosi e guardarsi continuamente intorno, anche oltre confine, cercando artisti e spettacoli fuori dai canali che vanno per la maggiore non solo nei circuiti commerciali ma anche tra le conventicole di tendenza. E senza mai dimenticarsi che, in questo presente, la cosa più “presente” è il pubblico, il quale non ci mette niente a diventare “assente” se lo prendi in o lo deludi con un’insignificante routine o un’astrusa fumisteria.

Intervista apparsa su CulturaCommestibile.com n.249 del 10 febbraio 2018