Le regole del biliardo applicate al PD

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Articolo uscito su Corriere Nazionale – Qui Firenze del 16 maggio 2013.

A leggere le interviste alla fu maggioranza bersaniana del PD viene da pensare che il segretario e candidato premier fosse stato scelto, candidato e sostenuto da un’assemblea di autoconovocati o da una loggia segreta più simile ai Monty Python che alla P2. Il primo fu D’Alema che definì a pochi giorni dal voto Bersani “uomo dell’800”. Tuttavia, come spesso gli capita, alla dura critica non seguì il completo abbandono; diversa fu la scelta della Bindi che si dimise dalla presidenza del partito perché non voleva più giustificare decisioni alle quali diceva di non prendere parte. Buon ultimo Veltroni di cui ieri abbiamo letto le anteprime del nuovo libro in cui dice che il PD avrebbe dovuto proporre un governo del presidente a guida Bonino. Tocca dar ragione al Fatto che ieri si chiedeva “ma non poteva dirlo prima?”. Domanda che vale anche per l’ex sindaco e attuale europarlamentare Domenici che in una intervista ad Allegranti nel fine settimana ammette di non aver votato Bersani, anche se non ci rivela se la sua preferenza sia andata a Tabacci, Puppato o Vendola. Una rivelazione a mesi di distanza che fa venire il legittimo sospetto che non ci sarebbe mai stata se al governo oggi ci fosse Bersani e non Letta. A tutti questi dirigenti in cerca di una nuova legittimazione e purificazione dei propri errori (anche se dubito che questa volta persino i militanti più fedeli gli crederanno) consiglio in vista del dibattito politico e congressuale del PD di rileggere le regole del biliardo, dove i punti valgono doppi se si dichiarano ma solo prima di tirare.

Il tatticismo di D’Alema e la debolezza del referendum.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 settembre 2011.

A differenza di molti amministratori e dirigenti locali del PD, Bersani e il suo gruppo dirigente sono apparsi e appaiono tiepidi rispetto alla raccolta firme per il referendum contro il porcellum.  Considerazioni di ordine pratico e di convenienza politica innanzitutto ma anche una certa difficoltà nel governare l’ennesimo esito imprevedibile. La cosa si potrebbe risolvere come spiega il solito D’Alema con la l’ennesima visione tattica del “grimaldello” per smuovere la maggioranza ad approvare una nuova legge elettorale, dimenticandosi che ogni volta che si è mosso così (cioè praticamente sempre) l’esito è stato molto diverso dalle aspettative e quasi mai favorevole alla sua parte: bicamerale e caduta del primo governo Prodi per tutte.

Se invece, come pare fare il più prudente Bersani, ci si ferma un attimo a ragionare sulla lettera del referendum si capisce che, come già era avvenuto per il quesito sull’acqua, si parla di pere e si scrive di mele. Il refendum infatti prevedrebbe l’abrogazione dell’intera legge elettorale e, secondo gli auspici dei promotori, questo riporterebbe in vita la precedente legge elettorale il cosiddetto Mattatellum. Un’interpretazione che, mi sia concesso, appare piuttosto sperticata e che rischia di far sì che la consulta non accetti nemmeno il quesito referendario, rendendo vani gli sforzi dei promotori e paradossalmente rafforzando il porcellum.

L’argomento portato dai promotori che la consulta terrà conto della percezione negativa che i cittadini hanno dell’attuale legge elettorale, ci pare ottima al bancone del bar ma un pochino più debole in un dibattimento di fronte alla Corte Costituzionale.

Certo nella cautela del PD gioca anche un non digerito amore per il proporzionale e una storia seppur recente che ha visto quel partito deliberare all’unanimità per il doppio turno alla francese, tentare l’accordo con Casini sul modello tedesco, far dichiarare al segretario la preferenza per quello ungherese e avere propri dirigenti nei comitati referendari sia per il ritorno al mattatellum che in quello per il ritorno al proporzionale. Tuttavia, per una volta, la prudenza del pd potrebbe tornargli utile non costringendolo in un angolo quando (e se) la corte dovesse non accogliere il quesito.

 

Il D’Alema dimenticato dal Kossovo.

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In questi giorni mi è capitato di leggere un volume, Nato’s Gamble, che ricostruisce le vicende della guerra aerea in Kossovo nel 1999. La prospettiva dell’autore Dag Henriksen , un giovane ufficiale della Reale Aeronautica Norvegese, è quella dell’uso del potere aereo come braccio armato della diplomazia dell’Alleanza Atlantica.

Aldilà del valore del libro, quello che mi ha colpito è stata la quasi totale assenza del nostro Paese nelle vicende narrate. Nell’indice delle occorrenze il lemma Italia ricorre solo due volte e dei nostri politici l’unico citato, per una sola volta, è Lamberto Dini all’epoca Ministro degli Esteri.

Eppure il libro non è scritto da un americano, seppure sia edito dall’U.S. Naval Institute Press, anzi si tratta della rielaborazione della tesi di Dottorato discussa dall’autore all’Università di Glasgow. Dunque un autore e una prospettiva europea. E difatti molta parte del libro analizza il ruolo (o il non ruolo) dell’Europa come entità autonoma e/o all’interno dell’Alleanza Atlantica. Proprio da quell’esperienza crebbe la consapevolezza della necessità di una voce unica del continente in politica estera e, non casualmente, l’allora chairman della Nato, Solana, divenne il primo rappresentante della politica estera europea.

Invece nel nostro Paese, all’epoca, la nostra partecipazione all’operazione Allied Force fu assai enfatizzata e, i sostenitori, utilizzarono proprio il ruolo del nostro Paese all’interno della NATO come elemento a sostegno della partecipazione attiva all’operazione.  Anzi l’activation order (l’ordine di mobilitazione delle truppe) fu usato come argomento principe per respingere la richiesta di Romano Prodi di nuove elezioni al momento della sfiducia da parte di Rifondazione Comunista al suo governo. Cosa accade è storia nota, alla fine grazie alla scissione dei Comunisti Italiani e all’appoggio di Cossiga Massimo D’Alema divenne Presidente del Consiglio.

Quell’intervento lacerò e divise soprattutto la sinistra italiana. Con parlamentari al governo che visitarono “il nemico/compagno” Milosevic  sotto le bombe, manifestazioni pacifiste contrapposte a manifestazioni interventiste che si alternavano a seconda della fase politica e un premier, che sul ruolo dell’Italia in Kossovo giocò tanta parte della legittimazione interna ed internazionale degli anni a venire. Il ruolo strategico di ponte verso i Balcani, il rapporto diretto con l’amministrazione Clinton, l'”internazionale socialista” che governava gran parte del continente. Insomma grazie a D’Alema il Paese era entrato nel club ristretto di quelli che contano.

Oggi però, leggendo Henriksen, di tutto questo non c’è traccia.  Ma anche sfogliando il poderoso volume di Joe Pirjevic (Le Guerre Jugoslave, Einaudi)  il nostro ruolo ne esce piuttosto ridimensionato.

Volendo azzardare un perché a questo nostro scarso peso (almeno nella storiografia) mi viene in mente un’altra parte del dibattito di quei giorni. Cioè quella parte riguardante il ruolo militare dell’Italia nelle operazioni.

Forse qualcuno si ricorda l’espressione “difesa attiva” coniata per l’occasione per i nostri aerei.  Il che significò tutto e il contrario di tutto. L’opinione pubblica non seppe mai davvero se i nostri aerei avevano regole d’ingaggio diverse da quelle degli altri Paesi membri dell’Alleanza e quindi partecipavano solo ai pattugliamenti difensivi, oppure se parteciparono alla più massiccia campagna di attacchi aerei dopo la seconda guerra mondiale calcando l’accento più sull’attiva che sulla difesa.

Quella dell’ipocrisia delle reali funzioni dei nostri militari nelle operazioni fuori aerea è un tema che ci accompagna almeno sin da Beirut 1982 e che crea ai nostri militari imbarazzi e reticenze. E che probabilmente penalizza il nostro Paese nel circolo di quelli che contano, insieme a uno strumento militare che fatica a mettersi al passo coi tempi e a restare up to date.

E non si tratta di un problema di colore politico. Oggi, col centrodestra al governo, nonostante La Russa vestito da TopGun, i nostri Tornado in Afganistan (peraltro ne abbiamo mandati solo 2) sono lì ufficialmente solo per compiti di ricognizione. Ma è stato così per l’invio di blindati, carri armati ed elicotteri da combattimento in quasi tutti i teatri: ex Jugoslavia, Somalia, Libano, Afganistan e Iraq. Oscillando tra il “si fa ma non si dice” e le varie versioni della “difesa attiva”.

Siamo l’unico Paese al mondo in cui il Parlamento discute non sulle regole d’ingaggio generali (all’interno del contesto di alleanze definito) per le proprie truppe ma sull’uso del cannoncino Mauser di cui sono dotati i Tornado. Ci manca solo che i piloti prima di decollare chiedano l’autorizzazione alla competente commissione parlamentare piuttosto che alla torre di controllo.

Per non parlare poi delle polemiche sull’uso “facile” di fondi speciali per impedire/trattare per i rapimenti in Iraq o gli accordi presunti con i signori della guerra in Somalia che portarono a una crisi col comando Usa senza precedente, fino alle ultime polemiche sollevate dal Times sul nostro contingente in Afganistan. Anche ammettendo per certo che si tratti di pure invenzioni in tutti i casi non è forse necessario chiedersi il perché tutte le volte sorgano storie del genere? E’ ancora la retorica britannica della seconda guerra mondiale degli italiani pessimi soldati? Oppure le nostre ipocrisie e oscillazioni aiutano a costruire questo pregiudizio?

Peseranno queste considerazioni sulla scelta del prossimo responsabile della politica estera e di difesa dell’Unione Europea? Probabilmente sì ed è forse anche per questo che la candidatura, ormai ufficiale, del governo italiano di Massimo D’Alema riscuote così poca fortuna sia sulla stampa internazionale che tra i bookmakers inglesi. E forse, più che l’inesistente inciucio travaglista tra D’Alema e Berlusconi, all’ex premier costerà cara la politica bi-partisan della difesa attiva.