In questi giorni mi è capitato di leggere un volume, Nato’s Gamble, che ricostruisce le vicende della guerra aerea in Kossovo nel 1999. La prospettiva dell’autore Dag Henriksen , un giovane ufficiale della Reale Aeronautica Norvegese, è quella dell’uso del potere aereo come braccio armato della diplomazia dell’Alleanza Atlantica.
Aldilà del valore del libro, quello che mi ha colpito è stata la quasi totale assenza del nostro Paese nelle vicende narrate. Nell’indice delle occorrenze il lemma Italia ricorre solo due volte e dei nostri politici l’unico citato, per una sola volta, è Lamberto Dini all’epoca Ministro degli Esteri.
Eppure il libro non è scritto da un americano, seppure sia edito dall’U.S. Naval Institute Press, anzi si tratta della rielaborazione della tesi di Dottorato discussa dall’autore all’Università di Glasgow. Dunque un autore e una prospettiva europea. E difatti molta parte del libro analizza il ruolo (o il non ruolo) dell’Europa come entità autonoma e/o all’interno dell’Alleanza Atlantica. Proprio da quell’esperienza crebbe la consapevolezza della necessità di una voce unica del continente in politica estera e, non casualmente, l’allora chairman della Nato, Solana, divenne il primo rappresentante della politica estera europea.
Invece nel nostro Paese, all’epoca, la nostra partecipazione all’operazione Allied Force fu assai enfatizzata e, i sostenitori, utilizzarono proprio il ruolo del nostro Paese all’interno della NATO come elemento a sostegno della partecipazione attiva all’operazione. Anzi l’activation order (l’ordine di mobilitazione delle truppe) fu usato come argomento principe per respingere la richiesta di Romano Prodi di nuove elezioni al momento della sfiducia da parte di Rifondazione Comunista al suo governo. Cosa accade è storia nota, alla fine grazie alla scissione dei Comunisti Italiani e all’appoggio di Cossiga Massimo D’Alema divenne Presidente del Consiglio.
Quell’intervento lacerò e divise soprattutto la sinistra italiana. Con parlamentari al governo che visitarono “il nemico/compagno” Milosevic sotto le bombe, manifestazioni pacifiste contrapposte a manifestazioni interventiste che si alternavano a seconda della fase politica e un premier, che sul ruolo dell’Italia in Kossovo giocò tanta parte della legittimazione interna ed internazionale degli anni a venire. Il ruolo strategico di ponte verso i Balcani, il rapporto diretto con l’amministrazione Clinton, l'”internazionale socialista” che governava gran parte del continente. Insomma grazie a D’Alema il Paese era entrato nel club ristretto di quelli che contano.
Oggi però, leggendo Henriksen, di tutto questo non c’è traccia. Ma anche sfogliando il poderoso volume di Joe Pirjevic (Le Guerre Jugoslave, Einaudi) il nostro ruolo ne esce piuttosto ridimensionato.
Volendo azzardare un perché a questo nostro scarso peso (almeno nella storiografia) mi viene in mente un’altra parte del dibattito di quei giorni. Cioè quella parte riguardante il ruolo militare dell’Italia nelle operazioni.
Forse qualcuno si ricorda l’espressione “difesa attiva” coniata per l’occasione per i nostri aerei. Il che significò tutto e il contrario di tutto. L’opinione pubblica non seppe mai davvero se i nostri aerei avevano regole d’ingaggio diverse da quelle degli altri Paesi membri dell’Alleanza e quindi partecipavano solo ai pattugliamenti difensivi, oppure se parteciparono alla più massiccia campagna di attacchi aerei dopo la seconda guerra mondiale calcando l’accento più sull’attiva che sulla difesa.
Quella dell’ipocrisia delle reali funzioni dei nostri militari nelle operazioni fuori aerea è un tema che ci accompagna almeno sin da Beirut 1982 e che crea ai nostri militari imbarazzi e reticenze. E che probabilmente penalizza il nostro Paese nel circolo di quelli che contano, insieme a uno strumento militare che fatica a mettersi al passo coi tempi e a restare up to date.
E non si tratta di un problema di colore politico. Oggi, col centrodestra al governo, nonostante La Russa vestito da TopGun, i nostri Tornado in Afganistan (peraltro ne abbiamo mandati solo 2) sono lì ufficialmente solo per compiti di ricognizione. Ma è stato così per l’invio di blindati, carri armati ed elicotteri da combattimento in quasi tutti i teatri: ex Jugoslavia, Somalia, Libano, Afganistan e Iraq. Oscillando tra il “si fa ma non si dice” e le varie versioni della “difesa attiva”.
Siamo l’unico Paese al mondo in cui il Parlamento discute non sulle regole d’ingaggio generali (all’interno del contesto di alleanze definito) per le proprie truppe ma sull’uso del cannoncino Mauser di cui sono dotati i Tornado. Ci manca solo che i piloti prima di decollare chiedano l’autorizzazione alla competente commissione parlamentare piuttosto che alla torre di controllo.
Per non parlare poi delle polemiche sull’uso “facile” di fondi speciali per impedire/trattare per i rapimenti in Iraq o gli accordi presunti con i signori della guerra in Somalia che portarono a una crisi col comando Usa senza precedente, fino alle ultime polemiche sollevate dal Times sul nostro contingente in Afganistan. Anche ammettendo per certo che si tratti di pure invenzioni in tutti i casi non è forse necessario chiedersi il perché tutte le volte sorgano storie del genere? E’ ancora la retorica britannica della seconda guerra mondiale degli italiani pessimi soldati? Oppure le nostre ipocrisie e oscillazioni aiutano a costruire questo pregiudizio?
Peseranno queste considerazioni sulla scelta del prossimo responsabile della politica estera e di difesa dell’Unione Europea? Probabilmente sì ed è forse anche per questo che la candidatura, ormai ufficiale, del governo italiano di Massimo D’Alema riscuote così poca fortuna sia sulla stampa internazionale che tra i bookmakers inglesi. E forse, più che l’inesistente inciucio travaglista tra D’Alema e Berlusconi, all’ex premier costerà cara la politica bi-partisan della difesa attiva.
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