Liberalizzare non vuol dire obbligare

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 gennaio 2012

Il presidente della Regione, Enrico Rossi, ha annunciato ricorso contro il provvedimento del governo Monti sulla liberalizzazione degli orari e delle aperture dei negozi. Il principio su cui si basa il ricorso è, probabilmente, fondato dato che il titolo V della Costituzione prevede la potestà regionale in materia; tuttavia le motivazioni politiche su cui giustifica quel ricorso, a parere di chi scrive, molto meno.
Infatti ci dice Rossi che la liberalizzazione obbligherà i commercianti a stare aperti sempre e andrà a danno dei piccoli esercenti contro i grandi gruppi. Il punto di fondo, sta in quel verbo: obbligare. Se una cosa dovrebbero fare le liberalizzazione è togliergli gli obblighi e lasciare facoltà al cittadino di scegliere. Dunque con la liberalizzazione i negozi dovrebbero poter decidere se essere aperti e, nel caso di attività a conduzione singola o familiare, questo sarebbe un problema che al massimo attiene all’organizzazione di quella famiglia. Caso diverso laddove esistono dipendenti e, in quel caso, non solo è ammessa ma necessaria la regolamentazione del pubblico non limitando le aperture ma consentendo condizioni economiche e lavorative eque e degne ai lavoratori, come rispetto dei turni e pagamento di straordinari. Su questo, dovrebbe concentrarsi l’azione di politica e sindacati, non nell’impedire l’apertura perché non si è in grado di controllare e garantire le condizioni dei lavoratori. C’è infine un soggetto che nella nostra discussione sul mercato del lavoro stenta sempre a inserirsi: il cittadino consumatore o utente. Come se nella nostra vita fossimo soltanto lavoratori o inoccupati o al massimo elettori, mai invece tutelati nella nostra funzione di consumatori/utenti. Dei nostri diritti di consumatori o della nostra convenienza o della nostra organizzazione di vita o familiare (con le ricadute per esempio sul traffico) si stenta sempre a prendere coscienza di fronte ai (sacrosanti) diritti dei lavoratori. Come se fossimo persone diverse.
Caso diverso, invece, la tutela dei giorni di festa. In quel caso l’azione limitante delle Istituzioni è, a mio avviso, necessaria. La costruzione infatti di uno Stato, di un sentimento di identità comunitaria, passa infatti anche da riti e simbolismi come sono appunto le feste. E’ così da millenni e mantenere insieme uno spirito comunitario è compito delle istituzioni. In quel caso la singola libertà è valore minore della libertà collettiva che si celebra (sia quella del lavoro, della Liberazione o di un sentimento religioso condiviso).
Infine, sia detto per inciso, ci si poteva risparmiare il richiamo alle autorità cattoliche. Come se in questo Paese il monopolio delle festività e del riposo sia appannaggio di un’unica tradizione religiosa, seppur maggioritaria. Come se i cittadini (da sempre) abituati a pregare di giorno lavorativo avessero ancor meno tutela di quelli che alla domenica vanno a messa.

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