Sul vagone dei rottamatori

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 novembre 2010 p.1

E alla fine il treno dei rottamatori è arrivato alla Stazione Leopolda, o per meglio dire da lì è partito. Sì perché tutto nella tre giorni fiorentina, dall’assenza dichiarata di programma alla non selezione di temi e interventi, era all’insegna dell’avvio, del movimento anche, forse, fine a sé stesso.

Una tre giorni iniziata senza relazioni introduttive ma conclusa da Matteo Renzi con un discorso che ricordava più un’introduzione che delle vere e proprie conclusioni. Grandi visioni, immagini, un repertorio di brillanti battute, temi evocati, sfiorati mai morsi per davvero, lasciati lì pronti per il prossimo appuntamento. Già perché scegliere oggi sarebbe equivalso a selezionare. Selezionare temi e proposte e anche qualcuno dei presenti, sopra e sotto il palco.

Evidentemente per Renzi non è ancora il momento, gli interessa più unire e consolidare il movimento e lo spirito di Firenze insieme alla propria indiscussa e inattaccabile leadership. Una leadership che Civati non può contendere, né oggi né mai, e infatti il consigliere regionale lombardo appare in tutta questa vicenda come uno dei personaggi dei film horror americani, uno di quelli che sai fin dalla prima inquadratura che non arriveranno in fondo al film.

Quello che ti colpisce della Leopolda è lo spirito. L’entusiasmo e la voglia di esserci e partecipare. E’ una bella sensazione, soprattutto nel vedere che è diffusa in ogni ordine e grado. Quello che colpisce è anche, per dirla con le parole di un caro amico, che ti aspetteresti una gran voglia di dare calci nel sedere e scopri una gran voglia di stringere le mani.

Un modo ben strano di iniziare una rivoluzione ma forse una garanzia per provare a finirla, visto come sono andate quelle con la rabbia addosso.

Non c’è rabbia nemmeno nel chiedere (chiedere e non esigere peraltro) il ricambio e la rottamazione nei molti interventi sul tema, l’unico forse realmente condiviso e digerito di qua e di la dal palco.

Per ora l’unico vero rottamato a Firenze è il veltronismo, con Renzi che si candida a occupare lo spazio dell’immaginario, del sogno. La prova nell’intervento di Giovanna Melandri a cui i due in consolle non avrebbero dovuto dare il gong alla fine dei 5 minuti ma tre canti del gallo.

Eppure tra Renzi e Veltroni qualche differenza corre. Non solo d’età. Di Veltroni possono non piacere tante cose (e a me non piacciono) ma quel che diceva ha provato a fare, rendendo azioni le parole spese, anche se discutibili e non sempre felici. A Roma si è inventato il festival del cinema, a Firenze abbiamo avuto il festival del gelato. Ha posto il tema del rinnovamento e ha portato in parlamento (certo con risultati non tutti felici) scrittori, ricercatori e imprenditori, a Firenze si chiama in Comune un dirigente neo-pensionato e non certo la precaria magari in attesa del posto della Finocchiaro.

Sul piano locale Renzi, consolida e certifica la propria egemonia nei confronti di amministratori e partito se il cuore degli interventi del segretario regionale Manciulli e del Presidente della Provincia Barducci sono, per il primo, “il rinnovamento lo stiamo facendo” e, per il secondo, che non serve il limite di tre mandati ma due sono addirittura troppi. Segno che il tema dei rottamatori non solo era giusto ma persino da perseguire e anticipare.

Ma anche a Roma, Renzi c’è e la tre giorni leopoldina, lo fa assumere a soggetto imprescindibile in quelle che saranno le dinamiche del PD del prossimo futuro, anche se la mossa di Gianfranco Fini di accelerare la fine del Berlusconismo rischia di giocare un brutto scherzo ai rottamatori, lasciando a Bersani e al gruppo dirigente nazionale l’onere delle scelte e delle decisioni e che soprattutto in caso di elezioni anticipate vedrebbero inevitabilmente il popolo democratico stringersi al proprio partito contro il centrodestra, diminuendo lo spazio per il dissenso.

Ma il treno è appena partito e crediamo che chi vi è salito e il suo conducente abbiano tutte le risorse, di capacità e di tempo, per giocare molte partite nel futuro.

Alla rivoluzione senza programmi

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 novembre 2010 p.1

Sia detto qui in cima a sorta di premessa: Evviva Renzi e Civati e il loro allegro rottamare. Evviva la tre giorni alla Leopolda.

Già perchè, aldilà delle critiche che anche qui verranno fatte, l’evento che si apre stasera qui a Firenze ha meriti incancellabili. Intanto pone un problema vero, quello di un gruppo dirigente del PD che ha passato indenne, senza che finora nessuno ne chiedesse conto, più di 10 anni di vita politica italiana, vincendo anche ma perdendo molto di più. Non innovando la società italiana quanto avrebbe avuto necessità e quanto, almeno con l’Ulivo, avevano promesso. Non portando a compimento un’unione ideale, politica e partitica dei riformisti italiani, come promesso col PD, ma riproponendo le antiche liti e beghe in un contenitore nuovo dalla grafica bruttina e dall’appeal modesto.

Eppure questi che oggi i rottamatori vogliono togliere dalla prima fila hanno avuto occasioni, contesto e capacità: l’Ulivo come stagione politica, la cosiddetta terza via come orizzonte ideale e la vittoria elettorale del 96 per trasformare quella idea in azione di governo.

Quella stagione fu l’ultima stagione di proposta e innovazione politica per il centro sinistra italiano, di obiettivi (magari non sogni ma raramente la politica del governo è sogno), di internazionalità, di superamento vero e non pubblicitario di steccati ideologici (dai progressisti all’ulivo c’è più rottura di tabù che in tre anni di PD). Da allora è stato un susseguirsi di riti, di fughe in avanti seguite da imponenti marce indietro, di leader consumati al ritmo di un merenghe, di vecchi programmi spacciati per nuovi, di GAD, FED e Unione, vocazioni maggioritarie e ritorni al Partito con la p almeno maiuscoletta. Una sorta di commedia dell’arte che mette in scena il solito canovaccio con le solite maschere.

E a quelle maschere si rivolge il dinamico sindaco di Firenze e quelle maschere svela nella loro immutata fisionomia, nel loro apparire sempre uguali, bidimensionali. E quelle maschere molto si arrabbiano. Lo giudicano irriverente, maleducato, sgarbato. E che diamine vi vuol seppellire, ci mancherebbe che fosse educato o garbato. Che poi lo foste voi quando spediste il vecchio Natta e tutto il rimanente gruppo dirigente comunista nemmeno alla Fondazione Gramsci ma direttamente in pensione? Le cronache dell’epoca ci dicono di no. E non poteva essere altrimenti. Certo vale per gli ex Pci ma che dire degli ex DC? Loro magari avrebbero potuto essere anche garbati ma non lo sapremo mai, visto che del ricambio (chiamiamolo così) nel loro partito se ne occupò la magistratura e non certo loro e da questo vizio d’origine (l’aver acquisito il comando senza l’aver combattuto) forse deriva quella loro innata titubanza, lo scarso coraggio dimostrato. Quel coraggio che avrebbe dovuto trovare in loro, i Franceschini i Letta, i veri esclamatori del rinnovamento nei confronti dei D’Alema, dei Veltroni e dei Bersani.

E invece ci son voluti Renzi e Civati, coi rischi che questi comportano, come giustamente si nota in questo dibattito sui rottamatori. La mancanza d’esperienza, la mancanza di contenuti. Come negarlo? Eppure se guardiamo da chi vengono queste critiche, seppur giuste, ci appaiono tardive, interessate. Come dare credito ai Rondolino, ai Velardi, o ai Morassut? Intelligenti spin doctor dei rottamandi leader che paiono più giustificare sé stessi e il loro pensiero che muovere una riflessione.

Ed allora tutto bene e trovata in Prossima Fermata Italia la soluzione ai problemi del PD? Magari, ma temiamo non sia così. Intanto l’assenza, dichiarata e voluta, di contenuti rischia di far tendere al minimo l’accordo che a Firenze si potrà trovare. Andare alla Rivoluzione senza programmi, come rivendica lo stesso Renzi su il Post, è infatti sicuramente d’effetto, molto moderno (o postmoderno) ma preannuncia, se le idee non sono semplicemente nascoste ma effettivamente assenti, un accordo sui mezzi che si trasformano così in fini e un minimo comun denominatore sui contenuti che è uguale (e contrario) alle mille pagine del programma dell’Unione.

In questo senso un po’ ci attraggono le trovate sceniche proposte (la consolle del dj, i video, la musica…), un po’ ci spaventano perchè quell’armamentario di presidenze, ragionamenti, interventi scritti, erano certo liturgia ma anche il modo che, finora, si era trovato per ragionare e discutere a un livello superiore di quello della chiacchera da bar.

Guardiamo a Firenze con curiosità lo ammettiamo, ma anche con in mente le parole di Verazzoli sulla rivista di quel giovane ottantenne di Emanuele Macaluso: “contrariamente a quanto avvenuto sia tra i laburisti che tra i socialdemocratici, l’attacco sferrato da Renzi ai massimi dirigenti del Partito Democratico si è basato unicamente sulla necessità di una loro sostituzione; senza altre spiegazioni”.

Il che non significa che a Renzi, o a Civati, manchino idee o programmi. Il punto è quanto queste idee siano masticate, digerite e condivise tra di loro e tra quelli a cui si rivolgono.

Di sicuro è condiviso, largamente, il bisogno da loro posto, quello di svecchiare il PD; da questa tre giorni forse capiremo non tanto se avranno la forza per rottamare chi sta di fronte a loro ma se, una volta conquistato il ponte di comando, avranno una minima idea di dove mandare la nave.

Perchè Renzi ha già vinto il congresso PD

Dal Nuovo Corriere di Firenze di oggi.

E’ probabile che alla fine i candidati appoggiati da Renzi prevarranno, ma anche se così non fosse il sindaco, il congresso del PD lo ha già vinto. Per (molti) suoi meriti e per (molti) demeriti dei suoi avversari.

Intanto Renzi in questo anno e mezzo ha fatto il sindaco e mai il segretario di partito, a differenza del suo predecessore. Non ha messo bocca nelle vicende del PD fiorentino e poco anche in quelle del gruppo consiliare, ha conservato il suo ottimo rapporto coi cittadini, ha mantenuto consenso personale e ha occupato la scena della politica amministrando e facendo operazioni di comunicazione e di costruzione del consenso perfette come i 100 luoghi. Non occupando la scena del partito è riuscito ad occuparne il campo, a surrogarne i compiti e ad essere oggi lui l’unico soggetto politico.

Accanto a ciò ha ridimensionato o ammansito i suoi vecchi oppositori ed adesso lascia loro la (possibile) partita per le candidature alle prossime politiche. Un potere non piccolo direte? Una partita che Renzi, però, non ha bisogno di giocare. Il suo potere all’interno del PD non passa da qui. La partita di Renzi è ormai una partita romana, ha saputo diventare un leader nazionale e i suoi interlocutori sono Veltroni, D’Alema e Bersani non certo i loro luogotenenti locali.

Infine ha, anche qui per molti demeriti altrui, pressoché annullato la componente pistelliana approfittando della lontananza di Lapo, della frammentazione dei suoi simpatizzanti e della mancanza di leader possibili per capacità e autorevolezza riconosciuta. Risultato? La scomparsa di una componente organizzata che, sulla carta, poteva essere la vera “opposizione” interna.

Se questi i meriti di Renzi, quali i demeriti dei suoi avversari? Uno su tutti, lo sguardo rivolto al passato. Vale per Cioni e i cioniani innanzitutto. In una città che ha tripudiato Renzi in quanto fine del “regime” Domenici, come può apparire credibile l’ “opposizione” di Cioni e di Albini? Per quanto possano essere in buonafede i due rappresentano un sistema di potere che Firenze aveva finito per detestare e che nessuno vorrebbe oggi indietro. Ma lo sguardo al passato è lo stesso che caratterizza il competitor istituzionale Barducci. Per i metodi innanzitutto: caminetti nelle stanze di palazzo, accordi con sindaci e “potentati” locali. Anche i contenuti però non mancano: Barducci è stato per cinque anni il vice di Renzi, senza nulla da ridire né sui modi né sui contenuti.

Analogo discorso vale per i sindaci della Piana, prima hanno atteso la fine di Domenici confidando nella perdita di potere di Firenze per aumentare quello loro di veto. Quando poi si sono trovati davanti il dinamico Matteo non hanno fatto altro che esercitare quel veto. Posizione che forse renderà sul piano amministrativo ma di certo non costruisce egemonia.

Infine il cosiddetto “partito dei circoli”, che pensa di rispondere alla comunicazione in tempo reale di Renzi con documenti della base, assemblee e ritorno alle sezioni come luogo di mediazione degli interessi. Un po’ come dire che una volta inaugurata la TAV debba essere percorsa da locomotive a vapore.

Ecco perchè Renzi ha già vinto, perchè la sua è al momento l’unica chiave di lettura della città contemporanea, e quindi, qualunque sia il risultato dei congressi, lui resterà, se non l’unico e possibile, almeno il prevalente interlocutore dei cittadini nei confronti della politica sul versante PD.

Dunque non esiste alcuna possibilità per chi ha una visione politica diversa, non omogenea a Renzi? No qualcosa potrebbe esserci. Intanto Renzi non è il renzismo, anzi il renzismo non esiste. Renzi è ditta individuale, il suo non è un sistema di potere plurimo. Non che non esista un inner circle renziano di fidati e validi collaboratori, ma questi sono più “tecnici” che “politici”.

Un uomo solo, per quanto bravo e per quanto possa lavorare come Stakanov, resta un uomo solo, soprattutto di fronte ai problemi. Costruire su questo opzioni, non in contrasto, ma in ausilio alla politica del sindaco è uno spazio politico che si potrà aprire. Servono però competenze e idee da offrire, poco spazio per le ambizioni personali e un orizzonte che al momento può apparire lungo.

Altra strada da percorrere è quella di essere più contemporanei di Renzi. Di “sfidarlo” sul suo terreno, essendo capaci di parlare la lingua (avendo naturalmente qualcosa da dire) con la quale Renzi si rivolge ai cittadini. Occupare il suo stesso spazio politico. Non è un problema di anagrafe ma di freschezza mentale. Di riferimenti culturali e politici.

Quest’ultima è una strada ancora più lunga, significa rompere con rassicuranti abitudini e posizioni di rendita, di rimettersi a studiare e di fare sfoggio di umiltà. Di imparare dai propri errori e dalle capacità dell’avversario.

Alla fine però resta l’unico modo per costruirsi come alternativa o come interlocutore vero. Per rappresentare qualcosa di più di sé stessi o al massimo dei propri (pochi) iscritti.

Non c’è due senza tre

In Emilia Romagna il PCI/PDS/DS prima e il PD poi governa ininterrottamente la Regione dalla sua fondazione nel 1970. Larga parte dei comuni e delle provincie della regione, a partire dal capoluogo Bologna, sono stati governati dal PCI/PDS/DS e poi dal PD quasi sempre dal 1945 in poi. Quando il capoluogo passò nelle mani del centrodestra grazie a Guazzaloca, era il 1999, fu un evento inimmaginabile e comunque quella della destra fu una parentesi (almeno sinora) quinquennale in sessant’anni di storia repubblicana bolognese.

Il PD alle ultime europee ha ottenuto il 38,9% segno che, come notava correttamente Galli della Loggia nei giorni dell’affaire De Bono, con la fine della prima Repubblica la tradizione ex comunista e quella democristiana di sinistra avevano creato un unicum che, di fatto, aveva reso quella l’unica classe dirigente possibile per quella realtà (cosa che, secondo il professore, aveva però finito per far credere a quella classe dirigente di essere al di sopra dei giudizi morali e politici).

Ora in siffatte condizioni il PD, fosse solo per consuetudine ed inerzia, governa (anche senza volerlo) praticamente qualunque cosa. Dalle amministrazioni, alle confederazioni, dai sindacati alle aziende pubbliche, esprime centinaia se non migliaia di dirigenti, quadri, manager.Una regione che, tra l’altro, esprime anche il segretario nazionale del PD.

Ecco in una situazione di questo genere il PD ricandida per il terzo mandato il Presidente della Regione Vasco Errani.  Una candidatura che, aldilà dei meriti e delle capacità dell’uomo, pone non pochi interrogativi di opportunità. Già perchè esisterebbe in questo Paese una legge dello Stato che pone come limite di due mandati quelle figure monocratiche, quali sindaco, presidente della Provincia e, appunto, della Regione alla ineliggibilità degli stessi. Ma la norma, si sa, va interpretata e il PD emiliano, così come il PDL lombardo per Formigoni, la interpreta in modo favorevole alla rielezione di Errani.

Poco importa che la maggior parte dei giuristi italiani affermi che invece la norma si applichi proprio alle figure di Errani e Formigoni e poco importa che il risultato (dato che i due sono dati per strafavoriti) possa essere sottoposto al giudizio della magistratura amministrativa. Si sa anche  che in casi come questi è già pronta la leggina, bypartisan naturalmente, che sanerà a posteriori, la questione.

Ma aldilà degli aspetti legali restano tutti quelli politici. Resta il fatto che in Emilia Romagna col 38,9% il PD non trovi un assessore regionale, un sindaco, un parlamentare, un segretario persino un passante per sostituire dopo 10 anni il presidente della Regione; di più non ponga nemmeno una riflessione (almeno a livello nazionale) sull’oppportunità di sfidare una norma dello Stato e che, nel caso si decidesse a sfidarla, lo faccia a viso aperto motivando politicamente la scelta e affrontando per esempio la questione del limite di mandato, per esempio, proponendo la modifica della legge e dicendo che, per il PD, è una cosa sbagliata quella norma.

Invece no, si ricandida Errani nel silenzio generale, dando per scontata la cosa. Magari facendo spallucce e difendendosi con il dire che non c’era niente di meglio (col 38,9% dei consensi) oppure, un po’ più sinceramente, dicendo “ma a Errani se non gli facciamo fare il Presidente non possiamo offrirgli nient’altro”. E il PD lo fa mentre contemporaneamente pone, sacrosantamente, il tema della legalità e della pulizia del Paese.

In tutto questo anche l’integerrima IDV, ancor prima della “svolta di Salerno” dipietrista, non trova nulla da ridire, così come il resto degli alleati.

Gli emiliani avranno dunque per almeno un quindicennio un buon presidente di Regione e un partito egemone che li amministrerà fondamentalmente bene, ma che spaccerà loro la sua Ragion di Stato per Senso dello Stato.

Con quella faccia un po’ così

E’ stata la faccia contenta di Emma Bonino che usciva dal colloquio con Bersani. Una Bonino raggiante, distesa. E’ stata quella faccia a convincermi che stavolta i radicali ci credono. Sì perchè il gesto, tatticamente perfetto, di candidare la Bonino nel vuoto pneumatico delle candidature PD in una regione che lo stesso PD dopo il caso Marrazzo dava in bilico o peggio, aveva il segno della radicalata. Un grande gesto, una grande persona, un gran coraggio; un alta possibilità di ottenere un rifiuto e quindi di fare la vittima e incassare così un dividendo politico per sè e la lista Pannella Bonino, che dopo l’esclusione dal parlamento europeo, rischiava la propria sopravvivenza politica ed economica.

Dunque all’inizio, sinceramente, un po’ ho pensato che si trattasse dell’ennesimo colpo di genio del buon Pannella. Uno capace  di prodezze che ti lasciano a bocca aperta, che mandano in estasi la critica (meno il pubblico) ma che poi non influiscono sul risultato della partita, anzi talvolta sono producenti come le palle perse da Melo di fronte alla difesa della Juventus quest’anno.

E vedere il PD e Bersani che tergiversavano (sai la novità) e i radicali che di fronte alle seppur timide aperture del segretario rilanciavano col tavolo nazionale mi faceva pensare che della solita trama si trattasse. Io mi candido, voi mi dite di no, io a questo punto corro da sola, vi apro un emorragia di voti che ve la sognate, perdiamo tutti le elezioni ma intanto ribadisco la mia esistenza politica.

E invece, e invece pare che il PD, per scelta o per contrarietà, pensi proprio che la candidatura della Bonino possa essere quella giusta per farcela e la faccia della Bonino pare essere quella di una candidata convinta e convincente che vuole davvero provare a vincere e tenere insieme una coalizione. I meriti,  le capacità e la politica non gli mancano per essere un’ottima candidata del centrosinistra (speriamo non troppo ampio) laziale.

Tuttavia a questo punto Emma e i Radicali devono ancora fare un salto di qualità. Sono chiamati, per la prima volta mi pare, ad essere guida e faro della coalizione. Ad avere, si dice dalle mie parti, il boccino in mano. E questo non è cosa da poco per un movimento politico che è stato leader ma in altre fasi storiche e in contesti, quelli referendari, così diversi per durata e limitatezza di obiettivi. Costruire, legare e governare una coalizione prima, durante e (si spera) dopo il voto è affare lungo, spesso noioso e molto, ma molto, frustrante. Così come governare e amministrare una regione.

Per questo servirebbe sgombrare il campo da tutti i dubbi e i retropensieri. Sì perchè ho sentito la Bonino rispondere a radio radicale (e dove altrimenti?) sulla storia delle primarie che lei non è disponibile a farle adesso ma che se ne può parlare per quelle del 2013 per scegliere il leader del centrosinistra alle elezioni politiche. Lo so, si trattava di una battuta, ma a me ha comunque messo un brivido. Se candidatura per il centrosinistra nel Lazio sarà, la Bonino dichiari che intende fare il governatore del Lazio per l’intera durata della consiliatura e che non utilizzerà quella carica come trampolino per altro in quel periodo di tempo. Non serve solo (e forse poco) a tranquillizzare l’elettorato ma soprattutto serve a far capire alla sua coalizione che ella intende esserne principe e non solo autista di autobus.

Infine altro punto stavolta rivolto a tutti i radicali. Se con Bersani è stato necessario mettere in campo un discorso che avesse una valenza nazionale e che dunque la posizione del Lazio è legata al rapporto tra PD e lista Bonino Pannella, per l’amor del cielo bloccate la candidatura Toscani in Toscana. Primo per le dichiarazioni folli (d’altra parte la qualità prima di Toscani è proprio la follia) di Toscani stesso verso il PDL per chiedergli di sostenere la sua candidatura proprio contro il PD. E’ un po’ difficile chiedere un rapporto nazionale e poi candidarsi contro nella regione in cui il PD prende più voti; per far ste cose bisogna avere la faccia di gomma dell’UDC, mica la faccia allucinata di Toscani. Secondo pensare di combattere il “regime finto partitocratico” in Toscana alleandosi col PDL toscano e candidando Toscani visto che entrambi con quel regime hanno molto a che fare è, per dirla con le parole del compagno Ciuffoletti, una di quelle cose che dovrebbero almeno far venire un po’ di (San) rossore.

Ciao Meme

restagno

Il 2 dicembre del 2006 ci lasciava Manuele Auzzi. Lasciava, almeno per chi scrive, un vuoto umano incredibile  che non avrei saputo immaginare quando lui era ancora tra noi.

Ho difficoltà a inserirlo in un’unica categoria. Amico, mentore, compagno. Tutto questo e altro ancora che non riguarda le parole dette agli altri.

Una morte improvvisa che ha lasciato un vuoto umano ma anche politico. Un destino incompiuto non solo per Meme ma per la “sua” politica. Tanto che non è stato raro in questi anni ascoltare ex compagni dei DS ( ma anche tanti che ds non furono) sbottare nei momenti più tesi della vita politica della nostra città: “ah se ci fosse stato Meme!”

Ma quel vuoto, quel dolore collettivo, quell’affetto tributato al ricordo di Meme è stato anche il macigno sul quale un intero gruppo dirigente ha nascosto luci e ombre di una stagione politica.

La “mitizzazione” dell’uomo Meme non ha concesso l’analisi anche critica dell’operato politico suo e del suo gruppo dirigente.  Riconosciuto come l’artefice dell’equilibrio di potere che reggeva i DS e il governo della città di Firenze non si sono fatti i conti anche  con gli errori e le conseguenze che quell’equilibrio comportava.

Chi lo ha succeduto ha preferito sopire e spostare altrove (spesso annullare) un dibattito politico necessario al superamento di quell’equilibrio. Con il risultato di arrivare inevitabilmente a deflagrazioni (probabilmente anche salutari) inaspettate e al ridimensionameto cospicuo dell’esperienza dei DS (partito che superava il 30% in città) fiorentini.

Nel mezzo c’è stata la messa ai margini, o oltre, del gruppo dirigente che con Manuele aveva retto, nel bene e nel male, il partito. Un azzeramento ingeneroso perchè non avvenuto sulla base di un dibattito e di un giudizio su quei dirigenti e su quella esperienza.

L’immagine plastica della rimozione della politica di Meme è nella sede che porta il suo nome. Non è solo un problema economico: quello scheletro incompiuto è il monumento a una politica che non serve più agli attuali detentori del potere. Non giudico se sia meglio o peggio così;  mi sarebbe piaciuto discuterne in questi anni. Piuttosto che scannarsi sulle regole delle mille primarie e di elucubrazioni su partiti leggeri e pesanti.

Mi sarebbe piaciuto sapere se l’idea di un partito forte a partire dai luoghi simbolici della sua appartenenza era alternativa o poteva convivere con un partito di accordi segreti (scritti) sulla spartizione di consiglieri  e assessori regionali, perchè ne dava giustificazione politica programmatica. E mi sarebbe piaciuto discutere se quell’estremo tatticismo che era il tratto distintivo di Manuele non avesse ormai segnato il passo di fronte alla crisi profonda della politica e della società anche a Firenze.

Tutto questo non c’è stato, certo per cause esterne (primarie, elezioni, congressi…) ma anche e soprattutto per scarsa volontà dei dirigenti, tra i quali mi metto anch’io, troppo attenti a costruire destini e poco a scrivere una storia collettiva e a fare i conti coi propri errori.

L’addio di Rutelli al PD

MotoGuzziV7Sport

C’è un pezzo nella lettera di addio di Rutelli al Pd, pubblicata oggi da Europa, che mi ha molto colpito.

E’ questa: “Capisco che per alcuni di voi, assuefatti al realismo delle relazioni partitiche, il fatto che Bersani non mi abbia rivolto in cinque mesi neppure una telefonata (neanche quando gli ho inviato il mio libro con una dedica amichevole…) possa rientrare nel business as usual.
Ma è gravemente sbagliato. Chi è stato leale con me e, anche grazie a me, ha partecipato a un cammino importante, dimostra in questo modo una perdita di orientamenti fondamentali.”

Non discuto la scelta di Rutelli. Non la condivido, penso però sia molto meno opportunista di quanto la dipinga molta stampa progressista e di come la viva una larga parte del popolo del PD.

Quello che mi ha colpito della frase è il livello di rapporti interni a un partito. E’ una condizione che molto (ma molto) più in piccolo anche io ho vissuto sulla mia pelle.

Dunque la frase di Rutelli ci interroga sul fatto che un partito sia qualcosa di più di un luogo in cui si ricerca (legittimamente, correttamete) e si esercita il potere al fine di un progetto, una visione, un ideale. Ci ricorda che i partiti sono comunità di donne e di uomini uniti da quel progetto, quella visione, quell’ideale. E ciò ha valso in modo maggiore nella tradizione dei grandi partiti di massa novecenteschi, sia popolari che socialisti (si pensi alle strutture dopolavoristiche della SDP tedesca) che per i comunisti italiani e francesi (si veda su questo il bel libro Maisons Rouges di Marc Lazar).

Quello che appare del PD, sia dalla piccola visuale personale che dalla lettura delle cronache nazionali, è la mancanza del senso di coesione comune, come se la vacuità del progetto, della visione e  l’assenza dichiarata e perseguita dell’ideale avesse impedito la creazione di legami di solidarietà e vicinanza umana che racchiudano in un ideale abbraccio ogni militante, ogni iscritto e ogni dirigente. Cioè facciano dei luoghi, delle strutture e delle occasioni aggregative del partito luoghi in cui ci si senta tutti a casa propria.

Ho già scritto del senso di estraneità che ho vissuto in molte assemblee piccole e grandi del PD. Oggi riconosco quel dispiacere nelle parole di Rutelli a cui però non posso non imputare parte della responsabilità di questa degenerazione.

Egli è responsabile di aver cercato, come gli altri del resto, di sopperire alla definizione di un contesto valoriale comune con la creazione di contesti più piccoli (correntizzi?) di sodali e/o fedeli che hanno caratterizzato e caratterizzano ancora il Pd ad ogni livello. Inevitabili nel contesto di una selezione interna fatta di un modello competitivo basato sulle primarie hanno finito per essere l’unico tratto distintivo dell’agire politico del PD.

Al congresso di Firenze ricordo un appassionato e umanissimo intervento di Massimo D’Alema rivolto a Fabio Mussi che usciva, insieme alla componente di sinistra, dai DS.  Ricordo la commozione dei due e dell’intera platea, ricordo che quella storia fatta anche di vecchie motociclette spiegava meglio di un saggio cos’era stato il PCI/PDS/DS.

Per questo ha sbagliato Bersani non a cercare di impedire a Rutelli di andarsene ma a dirgli che gli dispiaceva. E se non gli è dispiaciuto ha sbagliato due volte.

Chissà cosa ci sarà dietro? Nulla.

complotto

Sarà che è settembre e più o meno tutte le attività sono riprese. Sarà che mi è capitato di passare per il mio circolo un paio di volte (complice anche il congresso più bizzarro a memoria d’uomo), ma mi sono trovato a spiegare a un po’ di persone, di nuovo, che non ho più incarichi politici.

Il bello è che l’ho dovuto spiegare anche a qualche affezionato lettore di questo blog (sì stranamente ne esistono) che evidentemente si era perso questo post.

Ma la cosa che mi ha dato fastidio è la diffusa sensazione di incredulità che vedevo sui volti dei miei interlocutori e una sorta di “ma credi di farmi fesso?”. Come se nascondessi chissà che cosa e tramassi nell’ombra in attesa di un mio (?) rientro sulla ribalta.

Allora provo a precisare:

Non faccio più parte di alcun organismo del Partito Democratico essendomi dimesso dalla segreteria della città di Firenze lo scorso giugno  nella totale indifferenza del segretario. Resto membro del direttivo del mio circolo in attesa del rinnovo di tale organismo ma non ho alcuna intenzione di ricandidarmi nemmeno a quel piccolo incarico.

Non ero candidato a quella specie di elezioni svolte nei congressi di circolo, né sarò in lista il 25 ottobre prossimo.

Non sono membro di alcun consiglio di amministrazione, direttivo o altro organo di società partecipate da enti locali.

L’unica carica che ricopro è quella di membro del consiglio direttivo dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, su nomina del Consiglio Regionale. Incarico che non comporta compenso o alcuna forma di rimborso.

Non siedo in alcuna fondazione politica né ho altri incarichi, non lavoro in una segreteria di qualche assessore, gruppo politico o parlamentare  e il mio (poco) reddito deriva soltanto dalle mie prestazioni professionali che svolgo in una ditta privata e non da incarichi di alcuna sorta.

Insomma ho perso e sono tornato a lavorare. Segno che, se ci sono riuscito io, non era una cosa così straordinaria.

Dove eravamo rimasti?

eravamo

Riprendo a scrivere sul blog dopo un po’ di tempo. Un po’ di tempo in cui ho resettato le  mie priorità e ho messo via un bel po’ di cose.

Scherzando dico che sono tornato nella società civile. Ho chiuso con la politica attiva. Alcuni mi dicono per ora. Io posso rispondere che è un per ora piuttosto lungo.

Esco da 18 anni di militanza molto intensi. Ho ricoperto molti incarichi e per larghi tratti la politica è stata la mia unica occupazione. Sono stato un funzionario di partito o ho svolto lavori che mi consentivano comunque di poter far politica quasi a tempo pieno.

Ho sacrificato tanto alla politica ma tanto ho avuto in cambio. Oggi però ho detto basta. L’ho detto non solo per un risultato negativo inaspettato ma perchè ho capito che si era rotto qualcosa. Come in una lunga storia d’amore si andava avanti per consuetudine, ma la passione era persa da un po’.

Si è persa a partire dalla nascita del PD. Non tanto per colpa dell’idea del PD ma per la prassi che esso ha instaurato almeno qui a Firenze e la rottura delle gabbie che tale evento ha creato. E’ come se lo spezzare le catene delle appartenenze avesse anche tolto dei freni inibitori e rotto molti degli elementi di solidarietà che i vecchi partiti avevano.

Se c’è una cosa che mi ha colpito è il silenzio.

Dei vecchi dirigenti dei DS che con me hanno condiviso anni e anni di militanza e coi quali mi lega affetto e consuetudini solo pochissimi sono quelli che mi hanno cercato, anche solo per chiedermi come va. E in maggior parte sono quelli che hanno scelto come me alcuni candidati.

Gli altri, quelli che avevano fatto altre scelte, sono semplicemente scomparsi, mi viene da pensare maggiormente coinvolti nelle vicende della corrente che nel portare umana comprensione a chi con loro tante volte era stato. Non nego che molto mi hanno ferito alcune cose lette sui giornali il giorno dei risultati o alcune mail ricevute subito prima. Quasi un’accusa di tradimento (vecchio retaggio di un passato che fu) perché non ero più dalemiano.

Ma il silenzio è anche quello del Partito inteso come gruppi e organismi dirigenti. E’ un silenzio lungo da tanto tempo e non solo recente.  E’ una sensazione di distacco, di non appartenenza. Di freddo. Del non sentirsi a casa in un luogo in cui mica ti ci ha obbligato il dottore a stare. E’ un gelo fatto di riunioni i cui si cavilla sulle regole. In cui ci si presenta come avvocati renziani piuttosto che pistelliani. Un partito che si riunisce all’inverosimile per discutere di regole e poi scompare per discutere di politica.

Alle mie dimissioni dall’esecutivo cittadino non ho ricevuto risposta. Solo un sms in cui mi si diceva che ci sarebbe stato un incontro.

Lo stile talvolta è la rappresentazione di una sostanza. O della mancanza di quest’ultima.

E’ un disagio, il mio, nei silenzi o nella distanza anche di chi, inteso come gruppo,  compagno di viaggio lo è più di recente, un viaggio in cui ho scommesso tutto e tutto ho perso anch’io. Non credo che il sentirsi parte, la condivisione  sia una bene da esigere  soprattutto in così breve tempo, ma nemmeno da escludere, anche perché la sconfitta è  stata talmente totalizzante da cambiar persino casa.

Credo che questi disagi non siano solo miei e che il PD debba affrontare un tema se pensa di sopravvivere. Come metabolizzare un modello competitivo (le primarie) senza lasciare  morti e feriti. Non serve tornare al passato in cui ci si sistemava cencellianamente tutti chi in un ente, chi in una cooperativa.

Penso che la politica italiana debba riflettere sul “dopo” dei propri dirigenti, perché non esiste alcuna democrazia in cui i cambi di classe dirigente arrivano solo per morte naturale, per arresto o per cataclismi e arrivano talmente tardi che arrivano completamente consumati intellettualmente, per cui il nuovo appare già vecchio.

Io continuo a credere che il PD sia ormai l’unico spazio politico per cui valga la pena animarsi.  Resto iscritto a questo partito. Voterò da militante al congresso e proverò a dare un contributo facendo quello che ho fatto sempre e per il quale ho sempre pagato pegno: pensare e agire aldilà delle convenienze personali.