Non avete da perdere che la vostra disuguaglianza

Un po’ a tutti è venuto il dubbio che per sortire dalle secche in cui è precipitata la sinistra, non solo italiana, congressi e beghe di partito non siano sufficienti figurarsi salvifici. Le dimensioni del tracollo, del distacco, denotano un cambio di fase che necessiterebbe di riflessioni ampie, di progetti politici che rimettessero in discussione gli ultimi 20 o 25 anni della sinistra, quanto meno di quella riformista che è statala spina dorsale del socialismo europeo dalla caduta del muro di Berlino.

Anche qui serve una prima distinzione: le tendenze più liberali o mercatiste di questa sinistra hanno trovato, o più correttamente stanno tendando, di trovare strade autonome: Macron in Francia, i liberali britannici, Calenda (forse) qui da noi; proseguono la strada di un governo della mondializzazione, banalizzando, continuando la terza via del riformismo degli anni ’90 del XX secolo che però pare essere proprio quello che l’elettorato europeo rifiuta come l’aglio i vampiri. La sinistra più radicale sembra invece rivolgersi al passato, riscoprendo un calore e una voglia di lottare che fanno piacere e potranno certamente tornare utili, ma appaiono guardare ancora più indietro nel tempo riproponendo ricette eticamente corrette ma in un contesto sociale e economico che non è in grado di accoglierle senza un mutamento complessivo, rivoluzionario si sarebbe detto un tempo.

Tra queste due tensioni ideali sembrerebbe necessario, almeno a chi scrive, trovare una strada diversa che non acconsentisse ai dogmi dell’economia mondiale di mercato ma che nemmeno implicasse come soluzione il ritorno a un eden socialdemocratico che non potrà tornare. In questo filone si colloca il manifesto di AG.I.R.E. , un gruppo di studiosi di cui fanno parte Maurizio Franzini, Elena Granaglia, Ruggero Palladini, Andrea Pezzoli, Michele Reitano e Vincenzo Visco e che si sono posti come obiettivo  dell’agire politico di un nuovo riformismo un nemico tosto come la disuguaglianza.

 Proprio come Keynes e i liberali britannici durante laseconda guerra mondiale immaginarono un mondo in cui l’economia di mercato dovesse essere temperata da azioni pubbliche che la regolassero e facessero godere i dividendi a quanti più cittadini possibile (certo anche per sopravvivere alla spinta del comunismo avanzante), il gruppo AG.I.R.E. immagina un mondo in cui redistribuire la ricchezza della rivoluzione informatica, ridefinire il ruolo di un governo pubblico (magari sovranazionale) non più mero regolatore e poter colmare il divario tra i primi sempre più primi e le masse sempre più ampie di ultimi.

Il volume è uno spunto interessante, seppur nella parte delle azioni politiche concrete sia piuttosto vago e poco incisivo, e cerca di  ridefinire alcuni parametri che parevano intoccabili (la globalizzazione buona e giusta, il mercato in grado di trovare da sé i correttivi, il pubblico come inevitabile fonte di sprechi e inefficienze) e di contrapporre argomenti al pensiero dominante degli ultimi 25 anni, in base al quale l’aumentare della disuguaglianza all’interno dei paesi “ricchi” sarebbe compensato dall’avvicinarsi dei paesi “poveri” a quelli ricchi con il conseguente aumento delle condizioni di vita dei più poveri di quei Paesi.

Altro aspetto interessante del volume è il mix di misure immaginate per combattere la disuguaglianza, intravedendo azioni macroeconomiche, cessioni di sovranità a organismi sovranazionali ma anche azioni di nudge economics applicabili a livello locale.

Insomma pur non ponendosi come un manifesto per la sola sinistra, il testo edito dal Laterza, appare in questi tempi bui come un piccolo faro di speranza, a patto si riescano a superare gli appassionanti dibattiti sugli inviti a cena, le ex stazioni ricolme di ego, il personalismo spinto e le scissioni di microrganismi politici che paiono essere, ad oggi, un delle poche ragioni di interesse dei gruppi dirigenti della sinistra italiana.

Articolo apparso sul  numero 283 del 3 novembre 2018 di www.culturacommestibile.com

Troppo poco e troppo tardi. Una lettura del manifesto Calenda

Non c’è dubbio che Carlo Calenda sia stato capace di costruirsi un ruolo e una visibilità da personaggio politico nazionale in un tempo relativamente breve, così come indubbie sono le capacità di comunicazione e dialettiche dell’ex ministro. In pochissimo tempo Calenda è diventato, forse insieme al solo Minniti, il volto pubblico del governo Gentiloni: infaticabile sui social non si è risparmiato nel dialogo coi cittadini e nelle polemiche molto spesso con esponenti del PD, Michele Emiliano su tutti. Iscrittosi, direttamente alla Direzione del Partito, al PD dopo la batosta elettorale ne è in breve diventato uno degli esponenti più in vista del partito in disfacimento ponendosi come alternativa renziente al renzismo diroccato (e per ciò inviso a Renzi e ai suoi accoliti). Da questa posizione ha iniziato a maturare pose da padre fondatore e, con indubbio merito e capacità, iniziato a proporre ricette che mercoledì scorso hanno dato vita a una specie di manifesto programmatico pubblicato su il Foglio.

Torneremo poi sulla scelta della testata, partiamo invece dai contenuti. Il manifesto dopo una non breve analisi delle colpe dei progressisti nel tentare di governare la prima globalizzazione e nel configurare un plausibile scenario, lacrime e sangue, di fine del lavoro tradizionale (scenario che ça va sans dire vedrebbe l’Italia messa peggio di quasi tutti i Paesi occidentali) ne evidenzia il rischio, da noi passato ormai dalla potenza all’essere, di una crisi profonda, forse irreversibile, della democrazia liberale. Per impedire del tutto questo scenario, ci dice Calenda, occorre andare oltre la rappresentanza di classe e dunque al “semplice” campo progressista dando vita ad una Alleanza repubblicana.

Tuttavia quello di Calenda non è un cartello elettorale o un fronte di resistenza temporaneo ma un vero e proprio patto politico che si fonda su una comunanza di alcuni temi, a sua scelta verrebbe da dire. Vediamo quali: in primis la sicurezza economica, intesa come adesione all’Euro e al sistema europeo, proseguendo con il “piano Minniti” per fermare gli sbarchi e proteggendo gli sconfitti rafforzando strumenti come il reddito di inclusione.

Naturalmente senza dimenticare i “vincenti”, garantendo loro infrastrutture materiali e immateriali, formazione e competitività, passando poi dal ribadire l’Europa come idea guida e dal combattere l’analfabetismo funzionale.

Tutte cose buone e giuste sia chiaro, difficile per chi non si dichiari oggi sovranista e populista non dirsi d’accordo; tuttavia col limite di presentare un minimo comun denominatore per un cartello elettorale e non certo un programma di governo per una alleanza all’altezza delle premesse di difendere la democrazia come l’abbiamo conosciuta nell’occidente da settant’anni a questa parte.

Se la socialdemocrazia ha fallito nella sua elaborazione degli anni ’90 del XX secolo nel pensare di poter governare la globalizzazione come tutti ormai tendono a dire (anche se il dibattito forse avrebbe bisogno di altro respiro, o almeno di un setaccio che non gettasse Amartya Sen insieme a Tony Blair), pensare di rifondare un pensiero progressista su questi punti ha il fiato corto prima ancora di mettersi in marcia.

Certo nemmeno Marx è partito da il Capitale ma qui manca l’accuratezza e la pesantezza almeno dei grundgrisse, il terreno utopico che è in grado di dare la dimensione del sogno, del riscatto se non per sé almeno per la nostra prole. E se non ripartiamo dal riscatto a partire dagli ultimi (ché chiamarli sconfitti come li chiama Calenda non da’ proprio un’idea di ottimismo), da una idea di speranza, come si può pensare di sconfiggere l’egemonia culturale della paura che oggi ha fatto trovare casa agli ultimi, insegnando a questi a odiare quelli ancora più ultimi?

Questo sui contenuti, ma che dire sulla proposta politica che traspare dal manifesto di Calenda? Che cultura politica rappresenta l’ex ministro? Ecco a mio avviso siamo di fronte a un riformismo elitario, espressione ennesima della borghesia illuminata, intellettuale e colta. Quella classe che di volta in volta ha dato vita a felici famiglie politiche e negli ultimi anni si è presentata come il volto tecnico della politica.

Ecco su questo occorrerà forse aprire una parentesi. E’ talmente introiettata in noi la cultura della politica come degenerazione, almeno dalla nefasta stagione apertasi nel 1992, che larga parte dei gruppi dirigenti del Paese ha visto con piacere e rassicurazione l’idea che siano dei tecnici a guidarci, senza comprendere che la tecnica andava sì invocata e ricercata ma non nella capacità di essere bravi direttori generali, ma nel formare tecnicalità della politica, che non sarà un’arte forse ma è di certo mestiere, inteso qui nel senso arcaico e artigiano del termine.

Siamo dunque arrivati al punto che non ci sogneremo mai di far riparare il nostro impianto elettrico di casa da un pescivendolo ma non ci poniamo il problema che chi ci governa abbia o meno il mestiere di governare tra le sue capacità; stupendoci poi se questa sfiducia nelle elites si trasla poi nei confronti degli scienziati e dei medici.

Insomma il tecnico di per sé non è salvifico e pure Calenda rischia la fine di Monti e Dini, pur non augurandogliela. Sì perché il suo è un liberalismo temperato da un po’ (invero poca) di socialdemocrazia e molto paternalismo: un partito d’azione senza il dirigismo, con meno dottrina sociale e qualche riflessione utopistica in meno.

Culture politiche che in questo paese mai hanno saputo raggiungere un popolo come invece avrebbe bisogno la sinistra oggi dove la sua estinzione non è tema da escludere a priori. Invece vedo in Calenda il ripetersi di vecchi errori, di quello che un tempo avremmo chiamato il problema del rapporto con le masse, escluso quasi a priori da queste culture politiche in virtù di una fede deterministica nella capacità del popolo di comprendere che chi sa lo guiderà al meglio. Paternalismo per l’appunto.

Infine, in questo solco, un’ultima riflessione sul mezzo scelto. Come è noto il mezzo non è mai neutro ma quasi sempre predefinisce e determina il fine. Se il tema è ridare speranza, agibilità e voti al popolo di sinistra, far pubblicare il proprio manifesto su il Foglio (sia detto da affezionato lettore seppur orfano della direzione di Giuliano Ferrara) quanto meno non rappresenta un inizio brillante.

Il rischio, riassumendo, è che si avesse l’ambizione di cambiare il mondo e ci si accorga che al massimo si potrà ambire ad un patto elettorale con Forza Italia. Il patto degli sconfitti peraltro; non proprio un augurio di buon lavoro.

Articolo apparso sul numero 269 del 30 giugno 2018 di CulturaCommestibile.

Lo spazio a sinistra

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Molto probabilmente avrei potuto esimermi dall’analisi del voto del primo turno delle amministrative, ma visto che gli amici de l’argine sono così carini da ospitarmi ho provato a trovare un punto di vista diverso. Se vi va lo trovate qui

Tutt’altro che brevi cenni sull’universo (i 60 giorni che inchiodarono la Repubblica).

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Siccome sono un po’ di giorni che i miei dieci lettori mi fanno troppi complimenti per quello che dico nella sintesi dei 140 caratteri di twitter, sento l’urgenza di fare arrabbiare un po’ tutti mettendo giù qualche nota sparsa sulla situazione politica e sugli ultimi estenuanti 60 giorni delle istituzioni politiche italiane. Nessuna pretesa di esaustività, anzi, né di una logica tra, e in, quello che scrivo. Giusto un po’ di pensieri sparsi da offrire e facilissimi ad essere smentiti persino nei prossimi minuti. Un’unica avvertenza di metodo, soprattutto a me stesso, nessun interesse al contingente, sia esso il governo, il destino di questo o quello o gli appuntamenti interni alla vita dei partiti, ma solo temi generali come si compete ad uno spettatore interessato.

1)      La generazione playstation. Ho sempre pensato che la fila fosse sinonimo di civiltà; si trattasse di prendere un autobus, fare un prelievo al bancomat, progredire all’interno di una organizzazione sociale. Oggi invece, anche a causa di un paio di generazioni messe a tappo dell’intera società italiana (i meccanismi di cooptazione non hanno saputo adeguarsi all’allungamento della vita), è diventato di moda saltare la coda e fare vanto della propria inesperienza, almeno in politica. Così non ci sogneremo mai di farci difendere in un processo penale in cui rischiamo la galera dall’ultimo dei praticanti di uno studio legale, abbiamo invece affidato buona parte della vita dei partiti e delle istituzioni a degnissime persone, spesso brave e preparate, che però hanno iniziato la loro esperienza politica un minuto prima (talvolta persino un minuto dopo) essere elette. Il fatto che tutto questo lo si sia ammantato di merito, intendendo per merito le capacità extrapolitiche che indubbiamente molti di questi nuovi protagonisti hanno, ai miei occhi risulta come aggravante. Così abbiamo oggi in molte istituzioni e partiti politici una generazione che non ha mai giocato davvero a calcio pensando che fosse sufficiente essere dei campioni alla playstation. Da qui una sottovalutazione delle prassi, delle liturgie istituzionali (la cui conoscenza è indispensabile se le si vuole sovvertire) che porta a innocue goliardate come votare Mascetti alla Presidenza della Repubblica (atto apparentemente innocuo ma significativo del clima da gita scolastica) o al pensare che male non farà dare un po’ di schede contro Prodi giusto per vedere l’effetto che fa. Solo che poi, mancando mestiere e regia, finisce che le schede sono troppe e tutto crolla.

2)      Questione Morale o questione politica. Passi trent’anni a dirti la parte sana e migliore del Paese e finisce che non solo ci credi ma condisci ogni dissenso dal tuo bene comune come tradimento o crimine. Ci riflettevo ieri sera quando un giovane, evidentemente non anagraficamente figlio delle tradizioni politiche novecentesche, ha detto “noi siamo il PD buono”. Allora mi è tornato in mente Natta (che mi pare Guido Vitiello giorni fa ha ritrovato su facebook) che criticava l’intervista di Berlinguer sulla questione morale. Diceva Natta che Berlinguer aveva commesso un tragico errore nell’avere posto non una questione politica ma una questione morale. Oggi possiamo dire che aveva ragione e che il clima di odio (sì odio) che si avverte nella società prima che nei gruppi dirigenti è la dimostrazione che la spaccatura nel Paese non è tra linee politiche ma tra linee morali, il bene e il male (sia chiaro analogo discorso vale a parti invertite dove anche larga parte del popolo di destra odia la sinistra). Occorrerebbe che la politica abbandonasse il campo immediatamente e non impostasse campagne elettorali involontariamente orwelliane (l’Italia migliore) e lasciasse alla cultura e persino alle religioni il compito di pacificare il Paese. Dovremmo impegnarci a farci almeno un amico (virtuale o reale) della parte avversa e conoscendolo vedere che ci somiglia molto più di quanto ci divida la scelta politica. Occorrerebbe anche rivalutare Natta, se non politicamente almeno culturalmente. Un operazione che la trasformazione in santino di Enrico Berlinguer ha sinora impedito. Penso e spero che a partire da quell’articolo che citavo presto qui o su qualche rivista possa proporvi una rilettura di Natta e della sua “diversità”.

3)      Un partito in Barca. Ho letto il documento di Barca. Occorrerà tornarci e discuterne approfonditamente. Conto di farlo da queste parti appena avrò un po’ di tempo per scrivere seriamente. La prima impressione è quella intanto di un metodo nuovo, seppur antico. Non ci si è limitati a una brochure colorata o una infografica ma si è scritto un saggio di 55 pagine con note e bibliografia. C’è fatica e c’è rispetto in siffatta maniera. Sul piano dei contenuti però la prima cosa che salta all’occhio è il tentativo, non proprio modernissimo, di coniugare Gramsci con Amartya Sen. Mi verrebbe da dire si accomodi. Sono circa venti anni che ci hanno (abbiamo se mi passate l’immodestia) provato. Ogni volta però il limite è stato di prendere in Gramsci le parti relative all’organizzazione e al partito e in Sen le parti economiche. Forse occorrerebbe prendere la lettura della società di Gramsci e il concetto di politica che deriva dalla declinazione di Libertà di Sen perché l’esperimento abbia buoni frutti.

4)      Divergenze tra me e il compagno Pannella. Criticare Marco Pannella non è mai operazione semplice, non tanto per la sua grande storia ma per la sua capacità spesso divinatoria di leggere la politica e la società italiana (una volta magari riusciti a dipanare qualcuno dei mille rivoli della sua oratoria). Però sulle sue critiche al presidente Napolitano mi spiace ma (per quel che conta) non sono d’accordo. Pannella parte dal condivisibile punto che Bonino sarebbe stata meglio di Napolitano e ne addita responsabilità anche allo stesso Napolitano. Certo il Presidente ha fatto un (grandissimo) discorso di (auto)investitura molto assolutorio verso se stesso e come lui ha inteso e agito la sua carica istituzionale nel primo settennato. Quello che però contesto a Pannella è una tendenza egualmente assolutoria nei confronti del suo partito (o della sua galassia). Ok il regime, ok la partitocrazia imperante ma forse causa dell’annientamento elettorale dei radicali è anche un gruppo dirigente tra i più immobili che il partito ha avuto nella sua lunga e gloriosa storia. Perché la partitocrazia e il regime sono ovunque ma in Puglia le firme le raccolgono nel nord no. Sia chiaro stiamo parlando di persone serie, preparate e con una passione e un impegno smisurati, tuttavia non capaci, a mio avviso, di essere nuovi, innovatori, come sempre sono stati i radicali. E non c’entra nulla la storiella di Pannella che mangia i suoi figli, Pannella quando dissente semplicemente si ferma e come ogni stella intorno alla quale ruotano sistemi solari, quando si bloccano i corpi celesti collassano su sé stessi. Credo che per il bene dei radicali (e dunque dell’intero Paese) una nuova fase politica di quel soggetto sia necessaria, aldilà delle figure e delle persone che la incarneranno.

5)      Avanti il gran Partito. Collegandomi con quanto scritto sopra l’ultimo punto lo dedico al PSI di Nencini. Nel marasma generale quel partito mi è apparso, almeno nel centrosinistra, la forza politica che meglio esce da questi 60 giorni di delirio. Una posizione coerente sul Presidente della Repubblica, nessun tradimento dell’alleanza e dei suoi leader e una posizione chiara sul governo. Certo, direte, è facile farlo quando non si è determinanti ma anche avere coscienza dei propri limiti è grande pregio per una politica in cui abbiamo visto partiti del 3% pretendere propri esponenti alla guida delle istituzioni, dettare linee di governo e pontificare sempre e comunque. Certo non dimentico che Nencini è quello dell’accordo in cassaforte con Manciulli o quello che mentre faceva le manifestazioni contro la riforma della legge elettorale per le europee perché estrometteva i piccoli partiti, contemporaneamente votava la riforma del “cinghialum” toscano che provocava lo stesso effetto. Tuttavia in questa fase, per me, si è ben mosso e la sua proposta di rimettere in piedi un ragionamento sulla sinistra laica e socialista mi pare una  vecchia novità necessaria non per dar vita all’ennesimo partitino ma perché quelle tradizioni non siano assenti da questo (speriamo non infinito) dibattito.

 

Ciao Vittorio

In fondo, mi dico, uno se lo poteva anche aspettare. Vittorio Foa aveva 98 anni, era ormai da tempo infermo e quasi cieco e non si muoveva dalla sua casa di Formia. Uno quindi se lo poteva aspettare ma mi dispiace lo stesso. Avevo conosciuto personalmente Foa molti anni fa. Lo avevo trovato straordinariamente più moderno di me. E in questi anni leggendo quanto via via produceva lo trovavo sempre più moderno di tanti commentatori e pseudo-intellettuali giovani e giovanilisti.

Era un socialista anomalo, veniva da mondi e culture che come studente di storia e poi nella mia piccola attività politica  mi hanno sempre affascinato e attratto. Penso che, come tutti, non tutte le avesse imbroccate. Soprattutto quando dalla teoria si tentava di passare alla pratica.

Mancherà a molti, molto più importanti di me, ma mancherà anche a me.