Una nuova casa, una nuova proprietà privata

http://www.wiparchitetti.com/portfolio-item/housing-sociale-3/

Si potrebbe pensare che sia un segno di questi strani tempi che viviamo se un imprenditore, un immobiliarista, non proprio avvezzo alle teorie del marxismo leninismo intitoli un suo libro, La ville pour tous – repenser la propriété privée (La città per tutti, ripensare la proprietà privata), invece il volume di Robin Rivaton è stato scritto prima della pandemia e, infatti, non tiene conto delle riflessioni che quest’ultima ha posto di fronte alla città o al lavoro da casa.

La tesi del saggista e immobiliarista francese è che ovunque nel mondo lo sviluppo avviene nelle città, in particolare nelle metropoli. È lì dove si trovano i migliori lavori, i migliori servizi, le migliori opportunità. La frattura tra metropoli e campagna è dunque destinata ad aumentare e così le tensioni sociali. Il modello che pensava di tenere divise queste entità in base al costo della vita delle aree urbane non si è rivelato un valido deterrente perché comunque le metropoli rendono meno pesante la povertà, con le loro reti di assistenza o semplicemente con le maggiori possibilità di un lavoro anche precario come quello della GIG economy.

Dunque, occorre invertire questa corsa alla crescita del valore fondiario che è oggi la risorsa – ci dice l’autore – più rara del pianeta, perché niente (probabilmente nemmeno questa pandemia) fermerà questo fenomeno di inurbamento metropolitano che tocca tutti i paesi, quelli emergenti come quelli sviluppati.

Quale soluzione allora? Per Rivaton una “metropolizzazione” virtuosa è possibile a condizione di abbassare drasticamente il prezzo degli immobili e questo passa attraverso delle misure radicali: confisca, costruzione e controllo per meglio redistribuire le case ed il loro valore.

Per Rivaton, che si concentra sul modello francese, questo si deve attuare nella creazione di un’unica imposta su case e terreni che favorisca, a seconda delle stagioni della vita, l’acquisto e la vendita di case in base ai reali bisogni e non alla convenienza. Una tassazione che naturalmente agevoli la costruzione di immobili e la messa a disposizione di case ed appartamenti colpendo in modo feroce la rendita, fino alla confisca, seppur con indennizzo, degli immobili non locati.

Un progetto che se appare massimalista nell’enfasi della banda rossa della copertina del volume, in realtà rappresenta un approccio liberale ad un tema spinoso ma cruciale del nostro futuro.

Marc Rivaton, La ville pour tous, repenser la propriété privée, L’observatoire, 2019

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.394 del 27 marzo 2021

L’algoritmo pubblico per governare la rete

La nostra collaboratrice Maria Mariotti si è, giustamente, risentita per il fatto che Facebook ha cancellato, dal suo profilo, il suo articolo apparso sulla nostra rivista sabato scorso, che aveva come immagine a corredo una foto con tre donne etiopiche a seno scoperto.

Si trattava di una cartolina che i nostri coloni mandavano in patria per magnificare cosa trovavano nell’impero. Per ironia della sorte all’immagine di Maria è toccata la stessa sorte che sarebbe toccata alla cartolina fosse stata intercettata dalla censura del Ministero per l’Africa italiana che non vedeva di buon occhio tali pratiche perché toglievano purezza alla razza, come ricorda Emanuele Ertola in un bel libro Italiani d’Africa.

Ma il tema sollevato è molto più ampio e annoso. Le piattaforme informatiche, non solo quelle di social network, per anni si sono sempre considerate non responsabili dei contenuti pubblicati sulle loro pagine. Non degli editori quindi da dei meri fornitori di uno strumento. Essendo tutte nate negli Stati Uniti esse risentono di una certa inclinazione a far prevalere il diritto di espressione rispetto a quello di tutela dei dati e dell’onorabilità dei fruitori. A differenza di quello che avviene qui in Europa dove si ha una maggiore attenzione al secondo aspetto.

Tuttavia, fin dall’inizio della loro espansione le piattaforme social si sono poste il tema della “moderazione” dei contenuti che venivano pubblicati sul loro strumento. La prima impiegata assunta da Facebook a tale scopo fu assunta tre anni dopo la nascita del social network nel 2004. A differenza, infatti, di quello che normalmente si pensa la questione non è gestita soltanto dagli algoritmi e oggi Facebook ha diversi uffici sparsi per il mondo che controllano i contenuti postati e le segnalazioni con competenza, ognuno, per una determinata area geografica.

Il reporter del Newyorker, Andrew Marantz, ha dedicato al tema un bel volume, Antisocial, e numerosi articoli sulla rivista, uno dei quali proprio sul rapporto tra Facebook e la politica di gestione dei contenuti, apparso sul numero del 12 ottobre 2020 della rivista.

Quello che emerge dalle inchieste di Marantz è che Facebook, ma il discorso può valere anche per gli altri social, ha politiche rispetto a cosa viene pubblicato sulle proprie pagine diverse a seconda del contesto, della convenienza “politica” dell’azienda ma anche del “vento che tira”.

Unica costante, di cui ha fatto le spese la nostra collaboratrice, il nudo e i contenuti pornografici che paiono essere sempre e comunque boccati applicando l’adagio delle truppe sovietiche a Stalingrado, prima spara poi fai le domande.

Così non è stato invece per organizzazioni e gruppi neonazisti qui in Europa che hanno goduto a lungo di un diritto di tribuna piuttosto esteso e incontrollato e che hanno visto bloccare le loro pagine, immaginiamo del tutto casualmente, mentre l’Unione Europea affrontava il tema della privacy e della tassazione degli utili delle piattaforme.

Casi ancora più marcati riguardano le “concessioni” ai regimi mediorientali o a quello cinese che tutte le piattaforme hanno accordato per non perdere l’accesso al mercato cinese.

Anche negli Usa le cose non sono andate meglio. C’è stato il caso di Cambridge Analitica, il sostanziale “mani libere” accordato a Trump e ai suoi sostenitori per tutta la sua prima campagna presidenziale e per larga parte del suo mandato. Poi col cambiare del vento, qualcosa lì si è mosso. Ricorderete l’audizione di Marc Zukerberg al congresso americano, incalzato dalle domande della Ocasio Cortez e poi la scelta di Twitter (che ha costretto le altre piattaforme ad adeguarsi) prima a segnalare, poi a oscurare e infine a bloccare i tweet del Presidente in carica Donald Trump.

È oggi del tutto evidente che il tema della neutralità delle piattaforme non ha più senso. Da qui discende una necessità di chi e come si regolano i contenuti che hanno oramai in modo inconfutabile dimostrato la loro pericolosità sia a livello individuale che sociale.

L’idea che trattandosi di aziende private queste abbiano il diritto di autoregolarsi a piacimento, non è un concetto in contrasto con i dogmi del socialismo reale ma con i principi della democrazia liberale. Da sempre gli organi di informazione sono soggetti regolati e soggetti al controllo pubblico. Leggi, organismo, comitati di garanzia, da sempre e in ogni ordinamento democratico regolano la vita di stampa, radio e televisione.

Nel caso della rete il problema si complica di molto per due fattori su tutti. La quantità di utenti e contenuti e per la dimensione sovranazionale delle piattaforme.

Nel primo caso una proposta potrebbe essere quella di far sviluppare, gestire e implementare gli algoritmi di controllo non alle stesse piattaforme ma a soggetti regolatori pubblici o comunque indipendenti; mentre per il secondo punto occorrerebbe conferire il mandato del controllo ad agenzie sovranazionali in ambito almeno europeo, per quanto ci riguarda, e magari in ambito di nazioni unite per l’intero globo.

La trasformazione che questi strumenti hanno impresso alle nostre vite e soprattutto quella che hanno imposto alle nuove generazioni ci obbligano ad affrontare il tema e a dargli una risposta politica di dimensioni e confini nuovi ed inediti.

Articolo uscito su Cultura Commestibile n. 386 del 30 gennaio 2021

Le città postpandemiche

Parigi – urban farm

Per anni dietro le mie spalle, nel mio ufficio di allora, ho avuto un manifesto (se non ricordo male era dell’ARCI) con il motto medievale tedesco: “l’aria delle città rende liberi”. Ci ripensavo in questi mesi di pandemia quando l’aria delle città – più correttamente degli sprawl – appare quella meno salubre e più feconda per la trasmissione del virus. Ragionamenti che anche sociologi, urbanisti, amministratori, stanno provando a fare, approfittando del virus come occasione di ripensamento e ridisegno degli spazi del nostro abitare.

Non tanto come metodo di lotta al virus, si spera che i tempi di cura del COVID non siano quelli medi del ridisegno delle nostre città ma molto, molto, più rapidi, piuttosto un ripensamento che va in direzione di una sostenibilità ambientale e come precauzione per le prossime crisi, non necessariamente pandemiche, che come ci insegna David Quammen in Spillover ci troveremo, anche a causa del nostro sviluppo ad affrontare. Mentre qui da noi si oscilla tra archistar che blaterano di un ritorno ai piccoli borghi, amministratori che aborrono lo smart working per non far chiudere il baretto sotto la Regione e un generale senso di “add’ha passà a nuttata”, nel resto del mondo qualcosa si muove in direzioni diverse e interessanti. Rispondendo ad una intervista del Sole 24 ore del settembre scorso Richard Florida, l’urbanista guru della società della conoscenza che tanto ha plasmato gli anni dell’ottimismo obamiano, ha riletto la sua concezione di egemonia della classe creativa alla luce del COVID-19. Fine delle metropoli, ritorno alla media dimensione urbana. Va considerato che Florida parla del contesto americano e quelle che lui considera grandi città non sono certo le dimensioni delle nostre cittadine italiane. Dunque paradossalmente i nostri centri urbani potrebbero partire avvantaggiati rispetto a questa nuova fase. Anche perché il secondo elemento che Florida ritiene determinante nella città post pandemica è la piazza. Istituzione italiana per eccellenza, che non viene declinata al virtuale ma proprio come spazio di aggregazione e, perché no, di lavoro, legata allo smart working.

Inutile dire che la riflessione di Florida, così come la sua teoria più famosa, affronta il livello medio alto della società, quello che può telelavorare, quello che è sopravvissuto alla rivoluzione dell’ICT e che sopravviverà alla rivoluzione della robotica. Noi invece qualche problema su come sopravviveranno, anche in termini urbanistici, i milioni di lavoratori poco o per nulla qualificati nel processo di espulsione della loro forza lavoro ad opera dei robot vorremmo provare a porlo. Magari con soluzioni non troppo diverse, possibilmente, di quelle immaginate per la parte ricca (di soldi e di conoscenza) della popolazione.

Anche in Canada, precisamente in Québec, il tema è stato affrontato. Le smart city, il lavoro che cambia, le nuove generazioni iperconnesse erano alcuni dei temi della MTL Connect che si è svolta, per larga parte online, la scorsa settimana. In questo caso siamo già a i primi ripensamenti ad un ridisegno delle smart cities a partire dal fallimento di Toronto Google city.

Anche da questa parte dell’oceano però non si sta con le mani in mano. La città di Parigi ha iniziato il percorso di ridisegno del proprio strumento di programmazione urbanistica, ponendosi (prima del COVID) l’obbiettivo di un piano a bilancio ambientale positivo. Per cui dal consumo di suolo si passa alla restituzione di verde e aree umide in misura maggiore a quelle in cui si continuerà a colare cemento.

All’interno di questo processo, che prevede anche interessanti esercizi di democrazia partecipativa, Le Monde ha dedicato lo scorso 16 ottobre due pagine agli interventi di due urbanisti ed una sociologa sul tema del nuovo PLU (Plan Local d’Urbanisme). Ebbene tutti e tre gli interventi andavano nella direzione di Florida, del superamento della scala urbana della rottura della continuità del costruito. Più radicale, anche nella critica, l’urbanista Albert Levy che poneva come efficace non il limite della città (stiamo comunque parlando di Parigi) e nemmeno quello dell’aria ad essa confinante ma quello dell’intera regione parigina. Parlando in termini di difesa dai cambiamenti climatici, in particolare del surriscaldamento urbano, anche in termini sanitari. Scrive Levy: “lottare contro l’isola di calore urbano ed i suoi effetti sanitari deleteri deve divenire l’obiettivo prioritario dell’urbanistica bioclimatica, rinforzando il posto della natura nella città: ripiantare verde e alberi lungo le strade e nelle piazze, diversificare la vegetazione, rendere verdi facciate e tetti, sviluppare l’agricoltura urbana, gli orti comuni, i parchi, le trame verdi e blu, bloccare l’artificializzazione del suolo, demineralizzare il suolo, favorire l’infiltrazione naturale della pioggia, incoraggiare la fitoterapia, manutenere i corsi d’acqua”. Sono questi gli assi dello sviluppo urbanistico di Parigi, che però se vuole avere un senso deve avvenire a livello di scala regionale, avendo poco senso un salotto verde attorniato da banlieue cementificate, aeroporti intercontinentali e fabbriche inquinanti. Rompere il tessuto urbano, ridare soluzioni di continuità ad un tessuto che si è espanso senza fine e senza senso.

Queste le tesi anche di Agnés Sinaï e di Antoine Grumbach che vanno entrambi nella direzione della fine dell’urbanistica della congestione, la prima, e di una forse utopica riscoperta del territorio e della sua gestione armoniosa per il secondo.

Comunque il punto di fondo è la fine della megalopoli come modello di sviluppo, un ritorno a rotture tra città e campagna con quest’ultima fortemente collegata da infrastrutture tecnologiche e materiali ad impatto però ridotto.

Uno scenario che potrebbe vedere l’Italia e in particolare quel territorio centrale che va dagli Appennini alla Capitale come un unico scenario di sviluppo di queste nuove competenze, di un modello bioclimatico a cui si aggiungerebbero le bellezze architettoniche, artistiche, storiche e paesaggistiche ed un modello di sviluppo economico diffuso, ridisegnando e sostenendo in infrastrutturazione, ricerca e sviluppo il tessuto di medie e piccole imprese.

Potremmo essere capofila di un modello di sviluppo che per le parti più avanzate del pianeta vorrebbe dire cambio traumatico di traiettoria, mentre per noi, prosecuzione di un cammino millenario. Potrebbe, a patto di non limitare l’ottica ai dehors dei bar e ristoranti oramai vuoti, al museo da tornare a riempire e alla ZTL da perforare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile.com n. 374 del 24 ottobre 2020

Usare lo Stadio per ridisegnare la Piana.

Cosa accadrebbe se il nostro fornaio, una volta ogni 15 giorni, per far ben respirare il suo lievito madre, con cui fa quelle pagnotte che ci piacciono tanto, bloccasse la strada dove abitiamo costringendoci a faticose deviazioni, a parcheggi difficilissimi o a dover uscire da casa a orari impossibili per evitare il blocco? Probabilmente alla seconda volta che il fornaio interrompesse la strada chiederemmo l’intervento dei vigili e pretenderemmo da loro di sgombrarci la strada per la nostra casa. Eppure tutto questo avveniva ogni 15 giorni al Campo di Marte quando allo Stadio Franchi giocava la Fiorentina nell’epoca pre covid. Non che a porte chiuse non ci siano disagi se il post con cui il Comune annuncia le deviazioni alla mobilità per le attuali partite a porte chiuse non ci sta in un unico screenshot del telefonino.  Disagi che si ripetono ogni 15 giorni perché, lo dico tristemente da tifoso viola, la squadra da anni è quel che è e non si giocano le coppe europee, altrimenti la frequenza e i disagi (giocando nel mezzo della settimana) sarebbero maggiori.

Pochi si ricordano, per fortuna mi viene da dire, che ben prima della conferenza al Four Seasons dei Della Valle, nel 2008, fu una presa di posizione del Consiglio Comunale – a firma del sottoscritto, di Alberto Formigli e Dario Nardella, allora segretario, capogruppo dei DS il partito di maggioranza relativa e presidente della commissione cultura – a porre il tema dello spostamento dello stadio dal Campo di Marte. Lo facemmo in occasione della discussione del Piano Strutturale, partendo dall’assunto che lo stadio lì non consente, strutturalmente, l’ordinato dispiegarsi delle altre funzioni. Cosa che sarebbe considerata inaccettabile, in primis dai residenti della zona, in qualunque altra città del mondo.

Quello che è accaduto dopo è noto, con gli anni dei Della Valle in cui ho sempre avuto l’impressione, dal giorno della “presentazione” al Four Seasons in poi, che si giocasse una sfida a chi rimaneva col cerino in mano, su chi avrebbe detto di no al nuovo stadio, tra la proprietà della squadra e l’amministrazione comunale.

Con l’arrivo di Commisso però le cose sono parse muoversi verso una più chiara e determinata volontà dell’imprenditore privato, riaprendo anche la possibilità di un restyling del Franchi che rappresenta certo una sfida interessantissima sul piano architettonico ma non sposta di una virgola, oggi come 12 anni fa, le problematiche urbanistiche di un quadrante denso di residenza, schiacciato sulle colline e senza prospettive di nuova viabilità a supporto. Anche la proposta avanzata su queste colonne da Gianni Biagi pur prevedendo un ridisegno complessivo dell’area di Campo di Marte e quindi dando risposta non soltanto con un nuovo impianto ai bisogni della Fiorentina e dei tifosi ma anche, almeno in parte, a quelle dei residenti, non appare complessivamente in grado di risolvere lo stadio nel mezzo di un quartiere residenziale densamente popolato.

Oltre a questo ridiscutere del Franchi perché soluzione gradita al soggetto privato mentre il soggetto pubblico, da tre amministrazioni, ha discusso e deciso di trasferire la funzione altrove, andrebbe nella direzione opposta a quella che dovrebbe essere la potestà pubblica del governo del territorio e ben oltre quell’”urbanistica contrattata” che fu ampiamente contestata (e mi si permetta di dire che era cosa assai diversa) una decina di anni fa da chi oggi questa città governa. In questo senso il metodo che propone Gianni e prima di lui Domenici di una società di scopo per costruire e gestire l’impianto rappresenta un punto di equilibrio e di innovazione tra pubblico e privato da perseguire in ogni soluzione scelta.

Anche l’argomento che non si può spostare lo stadio perché poi non si saprebbe cosa fare del Franchi appare un argomento che sancisce il fallimento del pubblico e della sua capacità programmatoria e di ideazione, attrazione e governo delle funzioni. Tanto è vero che sempre su queste colonne sia Biagi che Andrea Bacci hanno ipotizzato funzioni assolutamente compatibili e qualificanti per il vecchio impianto. Se si fosse ragionato con l’idea di non saper che fare dei contenitori dismessi avremmo ancora l’Università in via Laura, il Tribunale in San Firenze e la scuola dei Carabinieri in Santa Maria Novella.

Tuttavia, con buona pace del dibattito che questa rivista e la città hanno intrapreso, è probabile dopo 10 anni di programmazione, ideazione, bandi, localizzazioni impossibili come la Mercafir, che non sarà sulla base di un ragionamento sulla bontà della collocazione per rispondere al bisogno “stadio” che l’impianto si farà o meno al Franchi a Campo di Marte o a Campi, ma sarà sulla base della convenienza del costo dei terreni che il soggetto privato, legittimamente, farà e sulla rapidità di esecuzione di un progetto che Firenze ha annunciato per tre amministrazioni ma mai avviato.

A me pare dunque che oltre ai meriti urbanistici, vista la non volontà di praticamente nessuno di tornare all’ipotesi di Castello, la possibilità di costruire il nuovo stadio a Campi Bisenzio sia quella oggi che ha maggiori vantaggi di realizzabilità. Una scelta che avrebbe il vantaggio di costruirsi su un’area meno carica di funzioni ma che, proprio per questo, imporrebbe costi più elevati per realizzare le infrastrutture di mobilità, soprattutto su ferro, per rendere fruibile in modo sostenibile lo stadio. Un prezzo elevato che il pubblico potrebbe in parte sostenere, a mio avviso, sia impostando un modello di partecipazione mista come quello ipotizzato da Biagi e Domenici sia se lo stadio fosse una delle funzioni sulle quali si aprisse una stagione, finalmente, di pianificazione complessiva della Piana; in cui il capoluogo non scaricasse in quel quadrante solo le funzioni più impattanti o di servizio (aeroporto, termovalorizzatore, ecc…) ma tornasse, come avvenne per l’Università a Sesto, a pensare ad uno sviluppo complessivo e contemporaneo del suo territorio, insieme a quello di quei comuni. Per esempio coinvolgendoli in un ripensamento dell’intervento di Castello che, evidentemente, visto che la proprietà per prima non dà seguito alle previsioni di Piano, ha necessità di essere rivisto, ragionato e ripensato. Sia nella parte privata che in quella pubblica dato che il non avvio della prima non consente la realizzazione di quel parco della piana che comunque sarebbe oggi, praticamente ingestibile, per i costi di conduzione elevatissimi, da un’amministrazione comunale sola.

Approfittare quindi del nuovo stadio per ribadire il ruolo del pubblico invece di utilizzarlo per appuntarsi una mostrina da riscattare alle prossime elezioni. Riprendere in mano un governo del territorio che sia sempre più cura del paesaggio, difesa dell’ambiente e risposta a bisogni dei cittadini. Bisogni dell’abitare, del muoversi ma anche del divertirsi e, perché no, del tifare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 362 dell’11 luglio 2020

L’attuale manzoniano della malagiustizia

Può apparire scontato, se non banale, che durante una pandemia si ripubblichi “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, non fosse che, come scrive Sciascia nella sua nota al volume per le edizioni Sellerio (nota che da sola vale l’acquisto), il testo del Manzoni sia uno dei suoi migliori quanto uno dei più misconosciuti. Come capita spesso ai testi che hanno fortuna di essere citati senza essere spesso letti o, peggio, capiti.

Testo di drammatica attualità e potenza quello di Manzoni che si interroga sull’ingiustizia della giustizia. Non sull’errore giudiziario, ma sul metodo accusatorio, sulla protezione che il giudice si costruisce da solo o come corporazione, sul bisogno di perseverare nella bugia una volta che questa è costruita per sostenere la tesi accusatoria, di piegare la legge alla consuetudine e al metodo di dover dare colpevoli alla folla.

Si parla di due untori, ma come nota Sciascia nel chiudere della sua nota, si potrebbe parlare dei terroristi degli anni ’70 e dei tanti imputati dei processi di oggi, condannati prima facendosi sfuggire intercettazioni e atti processuali che trovano ampia fortuna sulle pagine delle odierne gazzette e poi perdurando la pena del processo per anni e anni.

È quindi il metodo dello scritto del Manzoni che stupisce e convince. In punta di piedi, non volendo offendere in alcun modo l’illustre predecessore, nella premessa Manzoni, quasi scusandosi, dice che il suo lavoro si discosta da quello del Verri perché se quest’ultimo aveva come scopo combattere la tortura come metodo d’indagine, egli si pone il tema più generale della giustizia che sbaglia. E sbaglia consapevole di sbagliare come dimostra l’autore nell’entrare, forse pedantemente, nell’analisi delle norme e delle consuetudini che regolavano l’uso della tortura come metodo d’indagine ma soprattutto, nei meccanismi che regolavano la promessa di impunità che l’autorità poteva concedere per far confessare complici e mandanti agli accusati. Dunque non era, per il Manzoni, la tortura il problema ma l’arbitrio, l’abuso del giudice per ottenere non la Verità, ma un colpevole.

Storia vecchia direte, e qui ritorna Sciascia, la sua paura della legge sui pentiti, appena varata quando l’autore siciliano ripubblica per Sellerio l’opera del Manzoni e scrive la nota che accompagna quel volume e la ristampa attuale. E quanto attuale anche oggi può essere questa paura se pensiamo a Guantanamo, o per restare a casa nostra a quando venticnque anni fa nella solita Milano si pontificava di “metterli in galera qualche giorno per farli parlare”. Nell’applauso festante delle gazzette e degli inviati infreddoliti di fronte al maestoso (ma bisognoso di chiudi per stare in piedi come racconta Giorgio Fontana in un altro bel libro pubblicato sempre da Sellerio) Palazzo di Giustizia, con sfondo mobile di tram sferraglianti. Non stupisce a ripensarci oggi che poi uno veda anche la Madonna.

C’è poi un ultimo punto, ed è sempre Sciascia a farcelo notare, che è quello del reato di cui sono accusati gli sventurati protagonisti: di causare la morte per peste attraverso unguenti velenosi. Viene da dire superstizione da antichi da cui, oramai, siamo immuni. Non pare così, se si vuol dare retta a Sciascia, che ci racconta come la storia invece che essere una palla di cannone accesa è più spesso un arabesco che procede in avanti e indietro. Se infatti tra gli antichi vigeva il pregiudizio delle pestilenze come maleficio commesso da uomini per diabolici intenti, in quello che immaginiamo come buio medioevo si tendeva ad incolpare l’influsso degli astri o il castigo divino quali cause delle pestilenze.

Per tornare nel Seicento, raccontato dal Manzoni, a ricercar l’untore come capro espiatorio della non conoscenza e delle inefficienze della sanità lombarda, rifluendo invece nello scientismo dell’Ottocento che aveva a nemico igiene e ratti. Ma non occorre arrivare ai no vax attuali o ai complottisti del 5g per vedere che questo andirivieni di colpevoli aveva, ai tempi della spagnola, trovato nei governi i colpevoli. La prima guerra mondiale – scrivevano i complottisti dell’epoca – era finita troppo presto e occorreva diminuire ancora un po’ la popolazione mondiale attraverso qualche pozione venefica. All’obiezione che anche qualche potente fosse deceduto, si trovava facilmente rimedio nel dire che si era confuso tra veleno e antidoto.

Il punto però, aldilà del consolarci o preoccuparci per la lunga durata del complottismo, è quando queste tesi trovano una Procura zelante, una inquisizione compiacente, un giudice svogliato e ti trovi a passeggiare per Milano, compiendo il tuo mestiere, con una boccetta d’inchiostro in mano, oggi magari con uno smartphone 5g, ed invece di trovare giustizia ti imbatti nella Legge.

Articolo uscito su Cultura Commestibile n.361 del 4 luglio 2020

Idee per la città che verrà

Giovedì 28 maggio è andato in onda il primo webinar di Cultura Commestibile ; quasi due ore a discutere di come potrebbe essere la Firenze post coronavirus.

Una discussione molto interessante, pacata e speriamo fruttuosa. Ve la ripropongo anche qui.

Cultura Commestibile in video

Cultura Commestibile si dà al video. In epoca di quarantena Cultura Commestibile, oltre all’appuntamento settimanale con la rivista sul www.culturacommestibile.com, ha “costretto” i suoi autori a metterci la faccia. Ci sono anche io che vi racconto Spillover di David Quammen equesto è il risultato…

Ci siamo già passati

Gustav Klimt Medicina https://it.wikipedia.org/wiki/Quadri_delle_facolt%C3%A0
Gustav Klimt, Medicina, ricostruzione del dipinto andato perduto nel 1945

Siamo sommersi dalle informazioni. Numeri, tabelle, grafici. Andamento dei casi, diffusione dell’epidemia, numero dei morti. Sui social ci scopriamo tutti virologi, come reazione alla nostra paura di non sapere.

Io in questi casi mi rifugio in quelli che sono stati i miei studi e quello di cui dovrei, ma non è necessariamente detto, capire qualcosa di più. Così mi sono letto il volume di Laura Spinney, 1918 L’influenza spagnola, la pandemia che cambiò il mondo, Marsilio editore.

Dalla storia non si apprende niente, mi dicevano i miei maestri, se pensiamo che questa si ripeta sempre uguale. Aggiungo io, nonostante l’affetto per il vecchio Karl, anche se pensiamo che si ripeta due volte sotto forma di tragedia e di farsa.

La storia può darci però un’indicazione sulle persistenze e sulle rotture. Su cosa rimane immutato (o cambia con lentezza estrema) e cosa muta, magari drasticamente, di fronte all’incalzare del tempo.

Vale anche per le epidemie e cercare nell’influenza che falcidiò il mondo tra il 1918 e il 1920 un modello ripetibile oggi sarebbe l’equivalente di affidarsi al volo delle rondini per predire il futuro.

Il mondo di oggi è completamente diverso, la tecnologia, la medicina, il fatto che non ci sia in Europa una guerra mondiale devastante in atto sono modificazioni gigantesche che rendono impossibile una comparazione.

Tuttavia, le linee di persistenza rimangono e forse aiutano a capire o magari consolano. Sapere che l’umanità è passata da qualcosa di simile potrebbe aiutarci. Sapere che siamo sopravvissuti a pandemie devastanti da Uruk a Perinto, da Ippocrate all’OMS, ci dona una speranza e un conforto di fronte alle nude cifre dei bollettini serali.

Ci dà anche un’idea se le misure in atto hanno una qualche efficacia e beh, spoilerando un po’, posso dire che sì, storicamente hanno avuto un senso. Mentre la tesi di Boris Johnson sull’immunità di gregge contrasta con il fatto che l’epidemia spagnola ebbe tre fasi acute e drammatiche e che le successive due colpirono gli stessi luoghi della prima. Questo in condizioni di contenimento dell’epidemia ben peggiori delle nostre e quindi con un contagio stimato tra il 70 e l’80 per cento della popolazione, ben sopra quelle che gli scienziati ci dicono essere le percentuali dell’immunità di gregge. Immunità che, probabilmente, si raggiunge davvero con un vaccino.

Nel 1918 la scienza e la medicina si presero, almeno nel mondo occidentale, la scena e contribuirono a far passare nelle persone l’idea della vaccinazione, dell’igiene, della profilassi; queste misure anche se non strettamente connesse alla battaglia contro l’influenza, contribuirono decisamente al miglioramento delle condizioni di vita delle persone. A New York questo si tradusse in un miglioramento della vita dei nostri emigrati che uscirono da una condizione di ghetti insalubri e pochi anni dopo arrivarono persino ad eleggere uno di loro sindaco, Fiorello La Guardia.

Ma lo studio dei comportamenti durante l’epidemia della spagnola ci aiuta anche a capire che ci sono alcune istintività contrastanti in noi da una parte scrive la Spinney “i numeri [illustravano] quello che le persone avevano compreso con l’istinto; un accadimento comincerà a esaurirsi quando la densità di individui suscettibili sarà scesa sotto una certa soglia”. Cioè stiamo a casa, isoliamoci, e il contagio terminerà prima. Dall’altra parte però “anche se i medici ripetono di tenerci lontani dagli individui infetti durante un’epidemia noi tendiamo a fare il contrario. Perché? Una risposta, valida soprattutto nei tempi antichi, potrebbe essere la paura di una punizione divina. […] Un’altra risposta potrebbe essere la paura dell’ostracismo sociale una volta passato il pericolo. O forse è semplicemente inerzia. [..] Gli psicologi suggeriscono una spiegazione ancora più interessante. Sono convinti che la resilienza collettiva nasca dalla percezione di sé stessi nelle situazioni di pericolo: non si identificano più come individui, ma come membri di un gruppo”.

Il che non giustifica quelli che vanno a fare passeggiate nei parchi cittadini invece che stare a casa ma forse ci aiuta a comprenderne le ragioni e convincerli che, secondo me, rimane sempre – anche durante una pandemia – preferibile al mandare l’esercito per le strade.

Naturalmente anche durante l’epidemia della spagnola non mancarono le polemiche sulle misure adottate e sul loro rispetto. Chiusure di esercizi commerciali, bar, teatri e cinema erano considerate a ragione essenziali dalla scienza ma malviste dalle autorità politiche che tardarono o evitarono del tutto di adottarle. Laddove, come a New York, furono adottate l’epidemia fece molti meno danni cha altrove. Sul mancato rispetto si distinse, soprattutto in Spagna, invece la Chiesa Cattolica che non rinunciò a riti e enormi processioni di massa per scacciare il contagio, che ebbero invece l’effetto di propagare il morbo. In questo la decisione di Francesco I di chiudere da subito le Chiese ha l’indubbio merito di aiutare la prevenzione del virus ma rappresenta, a mio avviso, uno degli elementi di rottura più epocali di questa pandemia.

Infine più controversa fu allora la decisione di lasciare aperte le scuole, ritenute più sicure e più salubri delle abitazioni per i fanciulli dell’epoca e naturalmente non mancarono anche allora forti polemiche e tensioni sull’uso delle mascherine. Fu tuttavia in quell’occasione che nacque la consuetudine per i Giapponesi di indossarla anche per il comune raffreddore. Chissà se lo faremo anche noi d’ora in poi.

Insomma ci siamo già passati, il che non elimina la paura, non cancella il lutto e non lenisce il dolore ma magari aiuta a passare più speranzosi il tempo.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.346 del 21 marzo 2020

L’angusta gabbia del palcoscenico nella terra di Tebe

In questo autunno che tarda ad arrivare ripartono consuete le stagioni teatrali: Pupi e Fresedde ha presentato quella del teatro di Rifredi lo scorso 27 settembre inserendo come spettacolo di apertura la prima produzione in italiano dell’autore uruguaiano Sergio Blanco. Tebas land è un testo potentissimo ed emozionante che Angelo Savelli, che cura anche la regia dello spettacolo, ha reso con una traduzione secca e asciutta. Lo spettacolo andato in scena in anteprima al festival di Todi questa estate vede un giovane parricida ed un regista confrontarsi nel campo da basket del cortile di un penitenziario.  Lo sdoppiamento tra la realtà carceraria e lo spettacolo che il regista vuole trarre da questo omicidio passa attraverso riferimenti letterari, primo su tutti quello di Edipo che ispira anche il nome dell’opera, ma anche e soprattutto attraverso i colloqui tra il regista, il parricida e il giovane attore che lo interpreterà sulla scena. Piani che si intersecano e definiscono la tragedia, a partire dal resoconto cronachistico di quanto accaduto per poi scavare e instaurare un rapporto tra l’autore e il detenuto, contrappuntato dall’attore che non è mera cartina di tornasole della riuscita dello spettacolo ma diventa pian piano ulteriore elemento di confronto e conoscenza. Uno spettacolo che ricostruisce il ristretto orizzonte carcerario ponendo lo spettatore sul palco a guardare la gabbia del campo da pallacanestro, asserragliato anche lui e privato del rassicurante confort della propria poltrona in platea. Messo al centro della scena il pubblico è quindi in grado di godersi appieno il gioco di attori che Ciro Masella ma soprattutto Samuele Picchi introducono anche fisicamente tra un rimbalzo di pallone e l’altro. Ancora una volta grande merito al Teatro di Rifredi nel  portare in Italia un autore affermatissimo non soltanto nei paesi di lingua spagnola come era già accaduto con Josep Maria Mirò, che sarà in scena sempre a Rifredi per il terzo anno con Il principio di Archimede o col francese Rémi de Vos con il nuovo spettacolo Tre rotture anch’esso nel cartellone rifredino. Tebas land sarà in scena a Rifredi dal 10 al 27 ottobre con ben 14 repliche che conviene prenotare per tempo visti i posti ridotti per l’allestimento scenico scelto.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 324 del 4 ottobre 2019

La fase complessa dell’editoria italiana

Arrivando al Salone del libro di Torino la prima cosa che noti entrando nel padiglione 3 è lo stand arabeggiante degli Emirati Arabi Uniti. Dopo le polemiche di due settimane sulla libertà di informazione, la libertà in genere, il fascismo e la democrazia, come direbbe un vecchio comunista, capisci che la fase è e rimane complessa. Poco più in là lo stand della Repubblica Popolare cinese con in bella mostra le copie in tutte le lingue del mondo del bestseller del leader Xi Jinping, “Governare la Cina” (edito per inciso in Italia da Giunti), conferma la sensazione di disagio. Si dirà che il tema era il fascismo ritornante, l’egemonia della nuova destra nel nostro Paese, non la democrazia nel mondo. Sarà ma rimango perplesso. Altaforte non c’è più al salone, espulso dagli organizzatori dopo la pressione mediatica e la denuncia di Sindaca di Torino e Presidente della Regione per apologia di fascismo. Denuncia che qualche avvocato definirebbe temeraria per quella che è la giurisprudenza prevalente sulle cosiddette leggi Scelba e Mancino, non solo negli ultimi anni ma da sempre. Il tema però era politico anche se, come al solito, in Italia la politica per nascondere la sua debolezza ricorre all’aiuto della giustizia. Ma il tema politico, sollevato per primo da Cristian Raimo – consulente del salone stesso – e poi amplificato dai Wu Ming c’era tutto e poco senso hanno le critiche che negli anni scorsi editori neofascisti erano già stati al salone del libro. Negli scorsi anni gli editori neofascisti non pubblicavano il libro del ministro degli interni, il tema della conquista dell’egemonia gli scorsi anni non era posto, oggi sì. Si può discutere dell’efficacia del boicottaggio, su chi colpisce, a chi fa male – a me che ho comprato i biglietti mesi prima in base al programma o all’editore neo fascista – ma non sulla legittimità che hanno alcuni lavoratori – seppur intellettuali – a non svolgere il loro lavoro per protesta. Ma, mi perdoneranno gli scrittori boicottanti, dubito che il loro gesto avrebbe ottenuto il risultato atteso senza che una sopravvissuta ai campi di sterminio, la presidente del museo di Auschwitz avesse posto il suo sovrappiù di forza morale dicendo o lei – venuta a celebrare il centenario di Primo Levi – o i fascisti. Ma una volta impacchettato lo stand di Altaforte, ristabilito l’equilibrio antifascista del salone, i problemi son finiti? Certo che no, nessuno lo pensa. Perché prima del salone Einaudi pubblicava il rossobruno Fusaro e non nella collana delle supercazzole, ma tra i piccoli saggi che vedono tra i colleghi del “filosofo” i Montanari, i Settis e i Ginsborg e dopo il salone il solito Furfaro esce con Utet con il suo nuovo libro. È poi notizia degli ultimissimi giorni che Di Battista – che di fascistissimo ha sicuramente il babbo – curerà addirittura la saggistica per Fazi, editore che sul finire degli anni novanta andava piuttosto di moda tra la sinistra engagé e che pubblicava l’esordiente Simona Baldanzi con Figlia di una vestaglia blu che oggi, infatti ripubblica con Alegre.

Nel frattempo, come ricorda la copertina di questo numero di Cultura Commestibile, il governo giallo verde sta per chiudere Radio Radicale, la cui vita è legata a un tenue emendamento leghista mentre si scrive, e ci si chiede cosa faccia al riguardo la #brigatavoltaire costituita da Pierluigi Battista per difendere la libertà di espressione di Altaforte. Probabilmente è troppo intenta a riciclare i libri comprati su Amazon dal giornalista e gettati nel cestino senza leggerli. Almeno D’Annunzio volava su Vienna per gettare i volantini.

Lo dicevamo all’inizio, osservando le donne velate e mascherate intessere un tappeto allo stand degli Emirati Arabi Uniti che la fase era complessa e quindi occorrerebbe non limitarsi alla manichea indignazione di un momento, alla protesta della settimana. Leggere, di solito (visto che di libri in larga parte si parla) è normalmente un buon antidoto. Per esempio, leggere anche solo l’incipit del libro intervista di Chiara Giannini a Salvini aiuta molto. Bastano poche righe, ancor prima del trauma infantile del pupazetto di Zorro sottratto all’asilo al bimbo Matteo, per capire che cambiano i tempi ma non le argomentazioni. In quel Salvini uomo più desiderato dello Stivale dalle italiche femmine, risuona il rapporto, invero molto propagandistico, della virilità maschia di Mussolini che possedeva il Paese come le donne che a lui, vogliose, si concedevano. Che lo scriva una donna che è stata più volte in Afganistan a seguito dei militari italiani, può fare specie ma che la signora avesse qualche problema col senso del ridicolo lo dimostra la sua dichiarazione, a seguito del non poter essere al Salone al banchino del suo editore, di sentirsi come una sopravvissuta dei lager, seppur piccolissima come dice lei. Ecco forse è proprio il senso del ridicolo l’arma da impugnare perché chi fa ridere spesso ha già l’egemonia delle masse. Non credo sia un caso che, come nota Angela Nagle, l’Alt Right americana sia cresciuta coi meme sarcastici sui social network e non coi saggi dei grandi autori. Un modello che anche da noi la lega salviniana ha saccheggiato a man bassa. Da qui discende che “le migliori frasi di Osho” siano più efficaci dei Wu Ming? Probabilmente no, ma data la complessità della fase di cui sopra, appigliarsi alla speranza che una risata li seppellirà rimane comunque consolatorio.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.309 del 18 maggio 2019