Victor Hugo aveva dedicato loro appena una pagina in quell’opera monumentale che è il suo I Miserabili. Due uomini al comando di due immense barricate, «due spaventosi capolavori della guerra civile», tali da risultare indimenticabili.
Poi una breve notazione sul destino di questi due uomini: uno toglierà la vita all’altro, in esilio passata la Manica, in quello che sarà l’ultimo duello mortale, all’ultimo sangue, in Inghilterra.
Da queste scarne ma precise note parte la curiosità di Olivier Rolin che alla vita di questi due uomini ha dedicato un bellissimo libro: All’ultimo sangue, pubblicato in Italia da Settecolori.
Un libro capace di intrecciare letteratura e storia, che si muove con maestria e rispetto, nelle vicende dei due personaggi e delle vicende storiche delle rivoluzioni francesi del XIX secolo, oltre che delle due città protagoniste del libro, Parigi che agita le rivolte, Londra che accoglie esuli e sconfitti di quelle rivoluzioni.
Ma partiamo dalle Barricate e per quale delle molte rivoluzioni dell’ottocento che segneranno la capitale francese saranno erette. È il giugno del 1848 quando i due mostri di masserizie e ingegno umano sbarreranno la strada agli assalti, la rivoluzione è quella, sociale, che scuoterà l’Europa, quella compulsata da Marx nella speranza di un divampare generale e che leggerà come primo dispiegarsi della lotta di classe a conferma del proprio pensiero.
Hugo ripartirà proprio da quelle barricate, da quel giugno del 1848 in cui «l’estate non abdica» per riprendere il lavoro del suo libro Le miserie che presto cambierà il suo titolo nel definitivo Les miserables. Hugo esiliato nell’isola di Guernsey dopo la presa di potere di Napoleone III però ambienta il suo romanzo nel 1832 quando altre barricate sorgeranno tra le vie di Parigi, e dunque quella del 1848 è una digressione dalla trama e dai personaggi del romanzo. Una digressione che, con tutta probabilità, ne cela un’altra e altre barricate, quelle seguenti al colpo di stato di Luigi Bonaparte, e che vedranno il pari di Francia Hugo combattere per la Repubblica, lui fino ad allora monarchico convinto.
È questa progressione di lotte e barricate, questa teoria di sconfitti, Gavroche, i due protagonisti del libro Emmanuel Barthélemy e Frédéric Cournet, e lo stesso Hugo che prende vita nelle pagine di Rolin. L’autore insegue i protagonisti prima e dopo le loro lotte, li vede scappare dalla repressione, li descrive nell’esilio inglese, quello protetto e isolato nell’isola del canale per Hugo, quello talvolta misero e spesso infelice londinese dei due protagonisti.
Ogni tanto anche l’autore fa capolino nelle pagine del libro. Una presenza in punta di piedi nella ricerca dei segni rimasti intatti, nel nostro presente, delle vicende del libro, dai punti di appoggio delle barricate sui palazzi parigini alle locande inglese in cui prese forma l’odio dei due protagonisti fino al loro duello, mortale almeno per uno dei due. L’unica deviazione che si concede Rolin al suo ruolo, rispettoso, di cronista è quando ripensa alla sua di rivolta, quel maggio ’68 in cui non si eressero barricate preferendo cercare il mare sotto i sampietrini.
Difficile catalogare All’ultimo sangue; non si tratta di un romanzo perché i fatti, tutti i fatti, narrati nel libro giura l’autore sono realmente accaduti e quando documenti e ricerche non consentono di ricostruire qualche curva della storia, con somma onestà, Rolin ce lo comunica e rinuncia ad inventare. Non è però un libro di storia propriamente detto, mancando di un apparato di note e possedendo invece un ritmo di racconto e una musicalità di lingua (resa benissimo nella traduzione italiana da Daniela De Lorenzo). L’autore nell’incontro fiorentino di presentazione a Testo lo ha definito un reportage e ci atterremo alla sua definizione.
In ogni caso si tratta di un libro magnifico, in cui l’intreccio dei tanti racconti non fa mai perdere lucidità alla storia, e la capacità di descrizione di Rolin ci cala nelle strade di Parigi e Londra, sia di quelle dell’800 che quelle attuali, mentre la descrizione del duello nella foschia della campagna inglese ha i toni del miglior Conrad.
Olivier Rolin, All’ultimo sangue: Intorno ad una pagina dei Miserabili, Settecolori, 2024. Traduzione di Daniela De Lorenzo.
Da un piccolo libriccino appena apparso da Adelphi – dal nome non originalissimo di Lost in translation – apprendiamo che Ottavio Fatica si sta cimentando con la traduzione italiana dell’inedito di Céline Guerra.
Il libro uscito lo scorso anno per Gallimard in Francia e subito divenuto un successo di vendite, oltre che per il suo contenuto è forse più interessante per la storia che sta dietro il suo manoscritto perduto e poi misteriosamente riapparso.
Quel manoscritto, insieme ad altri andati (si pensava per sempre) perduti, ossessionarono Céline fino alla sua morte avvenuta nel 1961. Secondo il discusso autore i manoscritti sarebbero erano stati trafugati dalla sua casa di Montmartre dai partigiani nel 1944 quando lui la dovette abbandonare.
Va detto che quello di Céline non fu un viaggio di piacere, in quanto la sua partenza dalla capitale francese era dovuta alla legittima paura di fare una brutta fine visto il suo ruolo di collaborazionista durante il regime di Vichy.
Da quel giorno Céline non smetterà mai di dolersi di quel “furto”, sia in pubblico ma soprattutto nelle lettere che scriveva, continuamente, a amici e colleghi.
Gli epuratori, come li definiva Céline, gli avevano portato via tutto ma soprattutto lamentava, per esempio in una lettere a Pierre Monnier nel 1950, la perdita del manoscritto di 600 pagine di Casse-Pipe il romanzo che doveva completare la trilogia di Voyage au bout del la nuit e Mort à crédit.
Queste lettere Céline le inviava, va sempre ricordato, dal suo autoesilio danese in cui si era rifugiato per scappare alla prigione in Francia. Perché se è indubbio il valore letterario di questo autore non si possono non ricordare i vergognosi pamphlet antisemiti pubblicati ben prima dell’occupazione nazista della Francia (Bagatelles puor un massacre – 1937, L’Ecole des cadavres – 1938).
Tuttavia aldilà delle lamentele dell’autore da allora dei manoscritti non si ebbe più traccia e tutti, più o meno, li considerarono perduti, gettati da un qualche Maquis o da qualche topo d’appartamento, con lo scopo di punire l’autore amico dei nazisti o perché considerati di scarso valore rispetto agli altri beni “requisiti” nell’appartamento parigino.
Questo fino al 2019 quando alla veneranda età di 107 anni è deceduta Lucette Destouches, ex ballerina e vedova dello scrittore. Passano infatti pochi mesi dalla scomparsa della donna che un uomo prende contatto, discretamente e un po’ misteriosamente, con un avvocato parigino noto per essere specializzato in diritti d’autore e casi legati a case editrici.
L’uomo misterioso si scoprirà essere Jean-Pierre Thibaudat, giornalista e critico teatrale, figlio di resistenti, per anni nella redazione del quotidiano di sinistra Libération, fino al suo pensionamento nel 2006.
Nella sua lunga carriera Thibaudat si è segnalato per numerose opere sul teatro, recensioni di libri e spettacoli ma non è considerato come un esperto, né un appassionato, di Céline. Eppure quest’uomo, come scoprirà l’avvocato Pierrat, può essere considerato l’uomo più importante per la storia e lo studio di Céline al mondo.
Quello che si porterà nello studio dell’avvocato parigino il giornalista sono infatti i manoscritti trafugati del 1944 che per decine di anni egli ha conservato senza fare parola alcuna, senza mai provare a venderli, pubblicarli o altro.
Ma come ne era venuto in possesso? In un’intervista apparsa su Le Monde il 6 agosto 2021 Thibaudat racconta la sua versione e cioè che un giorno un lettore di Libération si era presentato da lui con dei voluminosi sacchetti contenenti i manoscritti di Céline e che li consegnava a lui ad un’unica condizione: di non renderli pubblici fino alla morte della vedova dello scrittore. La motivazione di tale vincolo sarebbe stata quella di non arricchire ulteriormente la vedova di un fascista.
Quale che sia la veridicità di tale racconto – sulla quale da subito si sollevarono molti dubbi – vero è che fino al decesso della vedova il giornalista ha mantenuto la propria parola e ha conservato nel massimo riserbo un tale tesoro.
Va detto che Thibaudat si è rivelato un detentore di segreti degno della migliore spia se come dice lui ha tenuto questi manoscritti dalla fine degli anni ’80 e non ha mai, fatto il nome del “donatore”. Tuttavia in tutti questi anni non ha mancato di guardare, leggere e classificare quello che lui stesso descrive come circa “un metro cubo di fogli”.
Tra questi tesori le 600 pagine di Casse-pipe, un romanzo inedito intitolato Londres, 1000 fogli di Mort à credit e decine e decine di altri scritti e documenti. Un vero tesoro.
Quando questo tesoro finisce nelle mani dell’avvocato Pierrat, questo contatta immediatamente i detentori dei diritti dello scrittore. Da una parte l’avvocato François GIbault, all’epoca ottantanovenne, autore della monumentale biografia di Céline e dall’altra Véronique Chovin, “dama di compagnia” della vedova dell’autore.
I tre, sotto gli auspici del legale, si incontrano nello studio Pierrat in Boulevard Raspail Parigi, una prima volta l’11 giugno 2020 e qui nascono i primi problemi. L’anziano Gibault vorrebbe far pubblicare i manoscritti a Gallimard e, immaginiamo, godere della ricca commissione che l’editore sicuramente concederà, Thibaudat vorrebbe invece donare gratuitamente i fogli all’Institut mémoires de l’édition contemporaine (IMEC) che già conservava un corposo fondo Céline.
Ancora una volta la figura di Thibaudat emerge in questa vicenda come un “eroe” singolare soprattutto se si pensa che, come dice lui sempre nell’intervista a Le Monde, “mai per un secondo ho pensato di venderli” anche se, secondo gli esperti, il valore di tali carte potrebbe superare il milione di Euro.
Dall’incontro del giugno parigino nasce naturalmente una causa legale. Da una parte gli eredi che ritengono i fogli come “la refurtiva” sottratta a Céline nel 1944, dall’altra il detentore dei fogli che vorrebbe “solo” donarli alla ricerca e allo studio.
Il tribunale di Parigi, per dirimere la questione, non può che cercare di capire cosa successe ai manoscritti a partire da quel giorno del giugno 1944 in cui “sparirono” dalla casa, ormai vuota, al quinto piano di un edificio di Rue Girardon quartiere di Montmartre, Parigi.
Per i partigiani trovare casa Céline non fu difficile. Durante tutta l’occupazione lo scrittore fu tutt’altro che discreto. Ripubblicò i suoi libri antisemiti, frequentava l’ambasciata tedesca nella Parigi occupata e non perdeva occasione per dirsi amico dei nazisti. Insomma aveva buoni motivi, una volta sbarcati gli alleati sul suolo francese, di pensare che non avrebbe avuto molti amici una volta liberata la città.
Per questo subito dopo lo sbarco angloamericano fuggì, insieme alla moglie, in Germania e poi in Danimarca dove, previdente, aveva già trasferito una piccola fortuna in oro per vivere “tranquillo”. Prima di fuggire con documenti falsi, per lui e la moglie, e con un lasciapassare fornitogli dagli amici nazisti fece però in tempo a passare dalla filiale del Crédit Lyonnais e ritirare gli ultimi lingotti d’oro lì custoditi. A quel tempo i manoscritti non gli sembrarono così necessari come l’oro ,anche se ne consegnò una parte alla segretaria, la fedele Marie Canavaggia, e ne vendette uno, quello del Voyage, pochi giorni prima di partire per 10.000 franchi e un piccolo Renoir.
Gli altri pensò che fosse sufficiente lasciarli sopra un armadio di casa sua e poi fuggì portando con sé, oltre l’oro, il loro gatto Bèbert. Dal viaggio e dall’incontro con il Maresciallo Pétain a Sigmaringen scriverà in D’un château l’autre.
Mentre Céline fugge, Parigi viene liberata, De Gaulle entra trionfante in città e le forze della Francia libera installano il loro quartier generale nella brasserie Junot a pochi passi da casa Céline.
Si può datare con una certa sicurezza, così ha ricostruito l’inchiesta della magistratura parigina, che la “perquisizione” dell’appartamento dello scrittore avvenne tra il 25 e il 30 agosto del 1944. Impossibile però risalire con precisione a chi effettuò l’irruzione.
Céline però non aveva dubbi. Fu sempre convinto che l’autore del furto fosse Oscar Rosembly, ebreo corso e partigiano. A lui sarà ispirato il personaggio del “juif Alexandre” nella prima versione di Féerie pour une autre fois.
Céline e Rosembly si conoscevano, seppur non particolarmente bene. Prima della guerra Rosembly era stato giornalista e collaboratore del ministro del Fronte Popolare Camille Chautemps, poi durante l’occupazione si nasconderà (a causa della sua lontana origine ebraica) presso il pittore Gen Paul che Céline frequentava.
Ma Rosembly era anche un resistente e come tale probabilmente incaricato, per la sua conoscenza di persone e luoghi, delle perquisizioni nel quartiere di Montmartre. Perquisizioni nelle quali però il maquis si approfittò del suo ruolo per “farsi giustizia da solo”, sottraendo dalle case dei collaboratori beni e preziosi. Verrà infatti arrestato e tradotto nel carcere di Fresnes in quell’estate del 1944.
Uscito di prigione si imbarcherà su un piroscafo diretto negli Stati Uniti e di lui si perderanno le tracce fino alla scomparsa nel 1990.
Improbabile che possa essere lui il misterioso lettore che consegnerà i manoscritti a Thibaudat molti anni dopo, anche se avrebbe potuto consegnarli ad un amico o un parente che li avrebbe conservati per lui.
Un’altra pista porta invece a Yvon Morandat, eroe della Resistenza (a lui è ispirato il personaggio di Jean Paul Belmondo in Parigi brucia?), amico di Jean Moulin che nel settembre del 1944 requisì l’appartamento di Céline e nel quale vivrà per alcuni anni. Céline fu sempre convinto che Morandat sapesse molto di più sulla fine dei suoi manoscritti e, infatti, rifiutò di incontrarlo nel 1951 quando amnistiato fece ritorno in Francia. Morandat voleva restituire alcuni manoscritti e dei mobili di rue Girardon ma lo scrittore li rifiutò perché i fogli erano “troppo pochi” e il donatore si rifiutava, secondo lui, di rendere il resto dei testi o almeno di dire la verità sulla loro fine.
Neanche il processo intentato nel 2020, però sarà di aiuto a sciogliere il mistero. Interrogato dai gendarmi dell’Office central de lutte contro le trafic de biens culturels (OCBC), il giornalista Thibaudat si rifiuterà di fare il nome del donatore invocando il segreto rispetto alle fonti, sacro per ogni giornalista. Tuttavia, per dimostrare la sua buonafede, in occasione dell’interrogatorio consegnerà tutti i documenti in suo possesso agli agenti, esterrefatti, che impiegheranno diverse ore per stendere il verbale di sequestro.
A quel punto, dopo un breve soggiorno cautelare presso la Bibliothèque nationale de France (BNF), la procura di Parigi ordinerà che i fogli siano consegnati ai legittimi eredi dello scrittore, i quali dopo aver donato alla BNF il manoscritto di Mort à crédit, in modo da regolare le “pesanti” tasse di successione di tale eredità si accorderanno, immaginiamo sontuosamente, con l’editore Gallimard per la pubblicazione delle opere di cui Guerre nel 2022 è il primo volume uscito.
Anche il Tribunale di Parigi si arrenderà e il 21 settembre 2020 archivierà l’inchiesta sul furto dei manoscritti non essendo riuscito a recuperare sufficienti indizi circa la colpevolezza di alcuno dei soggetti indagati.
Misterioso dunque l’autore del furto così come quello del donatore dei manoscritti al giornalista di Libération. Di lui sappiamo solo, grazie ad un’altra intervista a Thibaudat apparsa su Le Monde il 20 novembre 2020, che all’epoca della consegna, alla fine degli anni ’80, aveva approssimativamente un’età tra i 40 e i 50 anni e che dunque, sarebbe stato poco più di un bambino, all’epoca della sparizione. Rimettendo così in campo la pista còrsa di Oscar Rosembly.
Tuttavia le indagini dell’OCBC rispetto agli eredi di Rosembly, a Parigi come a Bastia, non hanno permesso di arrivare a nulla di certo. Per farlo hanno anche messo sotto sorveglianza il telefono del povero Thibaudat non scoprendo però alcun legame tra lui e la famiglia Rosembly.
Mistero irrisolvibile dunque? Purtroppo no, perché neanche Jean Pierre Thibaudat saprà resistere, come Gollum con l’anello del potere, alla mancanza del suo “tesoro”. Così prima sul suo blog e poi, nell’ottobre 2022, ne il volume Louis-Ferdinand Céline, le trésor retrouvé, racconterà la verità sul ritrovamento e sul donatore. Va detto, per rispetto alla figura del giornalista, che egli ha ceduto interamente i diritti di questo libro ad un’associazione che aiuta i minori immigrati non accompagnati, non guadagnando dunque un centesimo in tutta questa vicenda e anzi facendo un ulteriore sberleffo al razzista Céline.
Come ogni verità che si rispetti anche questa non sarà all’altezza della leggenda che l’accompagnava; infatti in un giorno del 1982 rovistando nella cantina di casa, gli eredi di Yvon Morandat trovarono, seminascosta e dimenticata, una cassa in legno contenente i manoscritti che poi decisero di consegnare, con il vincolo della loro conservazione fino alla morte della vedova di Céline, a Thibaudat.
Se gli autori ci sono dunque noti, rimane almeno il dubbio del perché Morandat trafugò i manoscritti se per avidità o, come preferiamo immaginare, per punire per sempre il collaborazionista amico dei nazisti.
Se nel proprio nome (o cognome in questo caso) risiede una parte del proprio destino, Ottavio Fatica intraprendendo la traduzione del Signore degli Anelli ha molto probabilmente compiuto il suo.
Già perché le vicende editoriali di questi tre volumi, in Italia, non sono mai state facili e anche questa volta si confermano tali. Credo c’entri anche un’appropriazione politica del testo tolkeniano da parte dell’estrema destra e del neofascismo dagli anni ’70 del tutto incomprensibile all’estero e a chi ha davvero letto (e mi si permetta capito) la saga dei Baggins.
Ma le critiche al lavoro di Fatica non sono arrivate solo dai nostalgici, c’è infatti una moltitudine di ex adolescenti (come chi scrive) che sono cresciuti forgiati da quel libro che circolava con la sua copertina agreste dai contorni beige e apriva mondi che poi spesso portavano a pomeriggi di giochi di ruolo.
Ma facciamo un po’ di ordine e proviamo a ricapitolare in estrema sintesi le vicende del libro nel nostro paese. La prima traduzione del volume è quella, in realtà mai arrivata alle stampe, che la piccola casa editrice l’Astrolabio commissiona ad una allora giovanissima Vittoria Alliata di Villafranca. La Alliata che non era (e non sarà) una traduttrice fa, va detto, un lavoro enorme e per i suoi mezzi egregio, tuttavia fu poi affiancata da Quirino Principe che ne corregge molta parte per l’edizione Rusconi che uscì nel 1970.
Quella traduzione è quella sulla quale generazioni di lettori sono cresciuti e si sono affezionati. Tuttavia nel 2003 Bompiani proporrà, alla ripubblicazione dei volumi sull’onda del successo dei film tratti dagli stessi, quella traduzione, però corretta su indicazione della Società Tolkeniana Italiana.
Sì perché nel frattempo il Signore degli Anelli e più in generale l’opera di Tolkien stava uscendo dalle fogne del neofascismo e dall’underground di cosplay e nerd ed entrava di diritto nei canoni letterari e nelle aule universitarie. Da qui, all’approssimarsi della scadenza dei diritti della traduzione dell’Alliata, la pressione sull’editore per una nuova traduzione.
Non senza strascichi legali, cause e velenosi articoli usciti sui giornali della destra italiana si arriva dunque all’opera di Ottavio Fatica, traduttore di grande esperienza con un gran lavoro su prosa e poesia inglese. Ma in cosa si caratterizza questo lavoro? La più evidente differenza (e quella su cui si sono concentrate le maggiori polemiche) è la traduzione diversa di molti dei nomi iconici della saga. I Raminghi che diventano Forestali, il Puledro impennato Cavallino Inalberato, Gran Burrone Valforra e molti altri. Un lavoro che il traduttore ha sempre giustificato per una maggiore aderenza alle sfaccettature e alle etimologie dell’autore. Non va infatti dimenticato che Tolkien di mestiere faceva il filologo a Oxford e tutte le sue opere sono caratterizzate per scelte linguistiche precise e mai casuali. Anche la poesia degli anelli che più o meno tutti i fan conoscevano a memoria viene riportata ad una maggiore coerenza con l’originale ma non è facile mandarla a memoria nella nuova versione.
E tuttavia a Fatica e all’editore è mancato il coraggio di utilizzare tale metro per tutti i nomi della saga (da un certo punto di vista fortunatamente) e dunque Baggins non è reso con Sacconi. Una scelta certo comprensibile che però avrebbe potuto essere adoperata per altri personaggi ed evitare che ogni volta che ci si riferisca ad Aragon come forestale non venga in mente uno in uniforme grigia intento a controllare che scoppi un incendio nel bosco.
Ma le due, a mio avviso, più importanti novità della traduzione di Fatica sono l’uso di registri diversi da parte dei personaggi e una fluidità e musicalità del testo. Il primo punto fa sì, per esempio, che le modeste origini di alcuni personaggi, Sam su tutti, si riflettano nel loro parlato. Questo fa sì che l’opera acquisti le sfaccettature che l’autore volle dargli: non una semplice saga epica fatta di eroi ma un’allegoria di una quotidianità che si trasforma in epica. Gli Hobbit non sono eroi scelti dagli dei, ma (mezzi)uomini travolti dal fato che compiono imprese eroiche. Una stratificazione di classe che era ben presente in Tolkien e che lo allontana dalla mistica del superuomo (che aveva trovato spazio quasi solo qui in Italia infatti).
Pochi anni fa è uscita una serie Tv – in onda su Apple TV – che si apre con le immagini della discesa, nel luglio del 1969, da parte del primo essere umano sulla Luna. Un sovietico.
La serie, For All Mankind, racconta una storia distopica della corsa nello spazio, tra USA e URSS, in cui il vantaggio iniziale dei Sovietici, conquistato con lo Sputnik, Laika e Gagarin non fosse stato recuperato dagli americani ma anzi fosse incrementato ancor di più dallo sbarco sovietico sul satellite terrestre.
Finzione a parte, pochi oggi ricordano o conoscono, quanto sullo spazio si sia giocata una parte, non certo trascurabile, del confronto tra superpotenze nella cosiddetta guerra fredda. Un confronto che ebbe luogo anche da noi, il paese con il più potente partito comunista dell’occidente, che dunque visse quella stagione riproponendo, sui giornali e nella politica quel confronto.
Un confronto che, nella fase iniziale, continuava ad alimentare il mito dell’URSS anche da noi, come esperimento vittorioso di costruzione di un mondo nuovo, capace di vincere il nazismo prima e conquistare lo spazio poi.
Il progresso tecnologico sovietico, era dunque visto come conferma della supremazia del socialismo e della sua inevitabile vittoria dalle colonne de l’Unità o di Rinascita, mentre veniva visto come pericoloso e minaccioso dalla stampa democristiana o comunque legata all’alleanza con gli USA.
I missili che solcavano i cieli erano dunque un segno di progresso per una parte, non trascurabile, del Paese e un pericoloso presagio di Apocalisse (se pensati come vettori di testate nucleari) per l’altra Parte.
E’ questo il contesto in cui Stefano e Marco Pivano, collocano il loro I comunisti sulla Luna, un libro che affronta, in due parti, la corsa per lo spazio, vista dal nostro Paese. Se la prima parte è un racconto dell’influenza delle conquiste spaziali sovietiche in Italia, con alcuni divertentissimi cascami sul mito tecnologico sovietico che porta, soprattutto militanti, a credere che un Paese che invia il primo uomo sullo spazio sia in grado di produrre anche auto e trattori altrettanto avanzati (spoiler, non sarà così); la seconda parte del libro è un racconto di storia della scienza che sta dietro gli iniziali successi e l’incapacità successiva di reggere il confronto con il modello scientifico statunitense. In grado di primeggiare non solo per capacità di spesa, ma per meriti legati alla collaborazione e la fiducia che erano più difficili da ottenere in URSS anche rispetto al propellente dei razzi.
Un libro piacevole, a tratti divertente, certamente divulgativo e capace di incuriosire rispetto a un piccolo pezzo della storia del nostro paese e del confronto, politico e sociale, in corso tra i due campi e che ha segnato le storie di molti.
Stefano Pivato, Marco Pivato, I comunisti sulla Luna. L’ultimo mito della Rivoluzione russa, il Mulino, 2017.
Ci sono vite che vale la pena raccontare, quella di Jean D’Ormesson è sicuramente una di quelle, ma siccome l’uomo ha fatto della leggiadria una sua cifra, la vita che si e ci racconta è un processo a se stesso. Ma non immaginate corti ampollose, lessico da tribunale, no Malgrado tutto direi che questa vita è stata bella (Neri Pozza) è un recit da salotto, una conversazione tra i ricordi. Ricordi personali che diventano i ricordi di un’epoca e di un Paese. Una certa Francia già scomparsa prima dell’avvento del giovane Macron all’Eliseo. Guerra, resistenza, gaullismo, gli intellettuali visti attraverso gli occhi di un aristocratico, repubblicano e conservatore, peccatore mai pentito, amante di quell’attivissimo non far niente che associamo, invidiandolo, agli intellettuali francesi, per l’appunto.
D’Ormesson passa dai castelli di famiglia alla direzione de Le Figaro potendosi permettere di sorvolare con molta delicatezza sui dolori e sulle cose brutte della vita, trasformandole (ma non tradendole) in ricordi che comunque han fatto quella vita, malgrado tutto. Un libro pieno d’amore, per la vita anzitutto, per gli uomini e le donne incontrate. Le donne, delle quali D’Ormesson parla col pudore e l’educazione del gentiluomo, non sfiorando nemmeno lontanamente il gossip per lasciarci visioni e sprazzi, intuizioni e immaginazioni.
Ci sono poi gli intellettuali, i politici, i grandi uomini incontrati all’Università, l’école normale invece della più prosaica ENA, all’UNESCO o nei salotti della Parigi che la fantasia al potere contesta ma, per l’autore, non arriva a scalfire.
D’Ormesson passa leggero facendoci capire, con una falsa modestia, che almeno per lui tempi e uomini così non torneranno più e che per il presente sia più interessante e utile applicarsi alla conoscenza del mondo e delle sue leggi, piuttosto che ai piccoli esseri che lo abitano provvisoriamente. Così, nel finale del libro, D’Ormesson completa quella che potremo chiamare la trilogia di Aragon, visto che questo come altri due suoi ultimi libri (Che cosa strana è il mondo e Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto entrami editi in Italia da Clichy) anche questo prende il titolo dal verso della stessa poesia di Aragon. Una trilogia verso la morte, il suo mistero, la sua inevitabilità. Un mistero che tutti accomuna e che mostra, anche nel grande uomo di cui abbiamo invidiato e amato la vita nelle pagine precedente, dubbi, paure e speranze. La speranza che titolo, ruolo, educazione e vita D’ormesson, ci lascia insieme alla sensazione di che sì, malgrado tutto, la sua vita è stata ben più che bella.
La provvidenza rossa è come un universo parallelo che si srotola nella Milano del 1977, un universo in cui al normale vivere della città si contrappone, parallelamente convergente, un mondo regolato dai riti del Partito Comunista Italiano. Uno Stato nello Stato che replica le strutture della società borghese nei suoi pregi e nei suoi vizi. Questo mondo parallelo è il principale pregio di “la provvidenza rossa”, giallo di esordio di Lodovico Festa, che fu comunista milanese negli anni narrati nel libro. Un libro in cui il noir serve da alibi alla narrazione della vita comunista, dove la pervasività del mondo rosso si snoda tra personaggi al massimo bidimensionali che in realtà sono spesso solo maschere delle loro organizzazioni siano esse il Partito, la Lega delle Cooperative, il Sindacato (ovviamente la CGIL) o l’Arci. Un mondo non autosufficiente ma che dalla società borghese trae più che donare; un mondo capace di regolarsi da solo, quasi soffocante per i suoi iscritti che trovano in esso tutto, lavoro, divertimenti, famiglie, amori; seppure nella variante meneghina non arrivi ai tratti dominanti del comunismo emiliano. Mondi raccontati sinora o da storie sociali, come il magnifico “Maison Rouges” di Marc Lazar, o dal sarcasmo musicale di pezzi come “Robespierre” degli Offlaga Disco Pax. Quello di Festa è invece un libro, un romanzo, che ci riporta in un mondo che non c’è più ma che conserva traccia di sé nei profili degli ex militanti rossi, e in alcune prassi politiche che ci appaiono oggi tristemente ininfluenti nel mainstream populista e personalistico della politica dei leader. Invece nella Milano rossa di festa, il protagonista è il collettivo, pur se l’autore ci fa intravedere il futuro (non radioso) che si avvicina: quella Milano da bere, che sta appena scaldando i motori. Una Milano che è l’altra grande protagonista. Una città raccontata con amore, seppure di una città che non c’è più si tratti. La consolante Milano borghese, le cui architetture sono raccontate con più dettagli dei protagonisti, persino quando le architetture sono quelle razionaliste del ventennio. Una Milano che si ricostruisce e si riscatta nell’azione del Partito e nelle sue architetture non ancora appannaggio di archistar, una Milano in cui noi contemporanei forse fatichiamo a immaginare quanto abbia contato la sinistra (non solo comunista) e quanto popolo riuscisse a organizzare intorno a sé. Festa scrive questo libro con l’affetto della sua giovinezza alla quale concede però una lingua troppo da relazione al comitato centrale, soprattutto nei dialoghi, e che lo costringe a una nota finale ed a un artificio narrativo di cui non si sentiva il bisogno. Ma il pregio del realismo della vita e delle prassi comuniste ripagano ampliamente il lettore, soprattutto quello che seppur in un’altra epoca molto successiva e in altri contesti, si è trovato ad essere “l’uomo della federazione” o ad aver comunque vissuto all’interno del vasto mondo comunista e post comunista italiano. Altro grande pregio del libro è che l’autore non riversa nella storia il proprio giudizio sul PCI, un giudizio che lo porterà ad altri lidi e alla vicedirezione de il Foglio, ma anzi pare riacquistare il fuoco della passata militanza, soprattutto quella amendoliana, conservando per ingraiani e berlingueriani (ma anche per il migliorista Napolitano) le frecciate più acute.
Era il 1985 quando fu pubblicata la prima edizione italiana di Neuromante, romanzo fantascientifico di William Gibson, che l’anno prima aveva vinto il premio Hugo; il più importante premio letterario per la fantascienza. Quel volume uscito da noi nella serie oro dell’editore Nord, ha per sempre cambiato il rapporto della fantascienza con il futuro. Nel 1985 la rete, internet, era poco più di un esperimento, la globalizzazione non si sapeva cosa fosse in un mondo incardinato sul bipolarismo USA URSS e il potere dell’economia transnazionale non aveva dispiegato la sua forza. Eppure Gibson riuscì a disegnare un futuro in cui la connessione alle reti dati diventa fondamentale per la società, le multinazionali dominano la vita degli individui e l’urbanizzazione crea ammassi di città senza soluzione di continuità: lo sprawl o BAMA (asse metropolitano Boston Altanta). Certo la rappresentazione grafica del cyberspazio gibsoniano è totalmente diversa dalla normalità del nostro internet, le arcologie delle multinazionali non sono diventate la regola urbanistica (anche se certe tendenze di molte archistar hanno qualche debito con questa teoria) e soprattutto nessuna Las Vegas spaziale orbita intorno alla terra. Eppure il futuro di Gibson conteneva tante tracce del nostro presente, esasperate in un’allegoria come solo la migliore fantascienza sa fare. Per esempio l’individualismo estremizzato (Gibson scrive negli anni dell’edonismo reaganiano) e la totale assenza di ogni struttura politica o statuale ad esclusione del potere repressivo o la successione di guerre e conflitti. Gibson elabora ed esaspera, attualizza, il pessimismo di Philip K. Dick e ne riprende uno dei temi centrali di Do Androids Dream of Electric Sheep? (da cui Ridley Scott trarrà le varie versioni di Blade Runner) ovvero il rapporto tra uomo e macchina. Anzi tra uomo e intelligenza artificiale. Quelle che per Turing (omaggiato non a caso da entrambi gli autori) e la comunità scientifica sono in grado non tanto di apprendere ma di rappresentare la propria conoscenza. In parole povere di pensare, seppure in modo diverso da un essere umano (col paradosso che nessun essere umano potrà mai descrivere un modo diverso di pensare da quello con cui pensa). Ecco quel nodo e quel tema, l’interazione con Neuromante e Invernomuto o i replicanti di Dick, ci appare ancora oggi fantascientifico, irreale. Eppure anche quel futuro è molto più vicino di quello che speriamo. Software in grado di apprendere, potenze di calcolo inimmaginabili sono già oggi realtà e tutti i giorni ci sottoponiamo a test di Turing ogni qualvolta immettiamo un codice CAPTCHA (quelle combinazioni di numeri e lettere scritti strani) per accedere a servizi online e dimostrare così di non essere macchine. Insomma il futuro di Gibson rimane maledettamente attuale e la cultura pop americana continua ad interrogarsi sul rapporto tra uomo e intelligenza artificiale in un percorso che arriva fino agli Avengers che combattono Ultron in questi giorni nelle nostre sale cinematografiche, come nota Raffaele Alberto Ventura su internazionale.it, colpevole soltanto di non citare Gibson tra i riferimenti dell’ultimo blockbuster Marvel. A partire da Gibson abbiamo preso coscienza marxianamente che androidi, multinazionali e supercomputer continueranno a popolare i nostri sogni e incubi di cittadini occidentali e costituire un immaginario collettivo fondamentale in società modellate sempre più da comunità di informatici e scienziati, che prima di diventare tali, sono stati NERD divoratori di fantascienza.
Articolo apparso su www.culturacommestibile.com n.121 del 2 maggio 2015
Scrivere dei libri degli amici non è mai semplice. Se non ti piace il libro ti dispiace ferire l’amico, se ti piace hai paura che il giudizio sulla persona renda meno credibile il giudizio sull’opera. Tuttavia quando un amico scrive un libro come La memoria dei Pesci, diventa difficile non parlarne.
Pippo Russo arriva al suo terzo romanzo e lo fa spiazzandoci un altra volta. Tre libri, tre storie completamente diverse e tre stili di scrittura sempre nuovi.
Questa volta siamo in un futuro talmente prossimo da essere presente, il 2011, e in una Firenze talmente vera da farti male, con le sue contraddizioni, i suoi luoghi estranei alle guide turistiche. I suoi colori e i suoi sapori. In questa città solare ma cupa al tempo stesso si muove Brando, un antieroe la cui vita all’apparenza di successo, deraglia sia sentimentalmente che professionalmente. E deraglia a partire dall’intreccio di reale e virtuale in cui Brando, come tutti noi, è immerso. Così tra second life, costruzione di biografie digitali (l’invenzione e il lavoro di Brando), donne amate per l’immagine che danno di se sull’iphone, Brando è chiamato dal mondo virtuale a fare i conti con se stesso e la sua memoria.
Un’ educazione sentimentale di un adulto dei nostri giorni. Un uomo, un maschio, verso cui l’autore non è affatto indulgente e che risalta, in negativo, per contrasto alle donne splendide che ha intorno.
Una scrittura decisa, spigolosa come il personaggio, sottolinea un libro che ci dice molto di come siamo e cosa stiamo diventando.
Pippo Russo, La Memoria dei Pesci, Cult Editore, 2010.
Polillo è un piccolo editore. Un piccolo editore coraggioso. In questi anni ha lanciato una collana che si chiama i bassotti e che raccoglie una selezione di gialli inglesi e americani degli anni trenta e quaranta. Quella che viene, a ragione, definita l’epoca d’oro del thriller.
Polillo è andato a scovare un romanzo inedito (qui in Italia) scritto da Hellen McCloy nel 1944. Una storia di spie, codici segreti e panico. Panico che è appunto il titolo italiano del romanzo, traduzione fedele dell’originale Panic inglese, e devo ammettere che il titolo è azzeccato.
Raramente un libro mi ha tenuto così in tensione soprattutto nelle descrizioni delle notti insonni della protagonista in uno sperduto casolare perso nei boschi senza elettricità.
Un romanzo di genere ma colto e intelligente, così come la sua autrice, versatile giornalista americana con un profondo retroterra culturale europeo.
Una scrittura cinematografica che ti trascina all’interno della storia e te la mostra in tutti i dettagli. Suspence compresa.
Sarà un debito di riconoscenza per averlo chiamato in Parlamento e, grazie alla legge elettorale, eletto nelle fila del PD ma l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, barese già magistrato e oggi parlamentare, è decisamente veltroniano. Per carità Carofiglio ha sempre una scrittura scorrevole, è capace di farsi leggere con facilità e le sue storie filano sempre lisce fino al finale, eppure questa volta lo spleen del suo avvocato Guerrieri tracima e infarcisce le pagine con un catalogo di film, canzoni, luoghi, cibi memorabili. Un Album Panini dei ricordi, un amarcord generazionale che ha completamente assente quella leggera cattiveria e ironia che invece caratterizzava, per esempio, il primo Nick Horby.
Dunque l’avvocato Guerrieri stavolta lascia le aule di tribunale per trasformarsi in un Marlowe sbadato, viaggiatore in una Bari che rimane, al lettore che non la conosca di suo, sconosciuta dalla pagine del libro; c’è la ricerca di una ragazza scomparsa, le ex escort (potevano mancare a Bari?) proprietarie di locali notturni, le studentesse universitarie che non sono quello che sembrano e un giro di cocaina che circonda il tutto.
Peccato, Carofiglio coi suoi primi due romanzi pubblicati da Sellerio ci aveva abituato male e ci aveva fatto sperare che fosse possibile una via italiana al legal thriller.
(Gianrico Carofiglio, Le Perfezioni provvisorie, Palermo, Sellerio, 2010)