L’impietoso rito dell’analisi del voto

 

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 20 ottobre 2011.

Quando una vita fa facevo il giovane dirigente (e vabbé) politico una delle cose a cui ci insegnavano di dare più attenzione era l’analisi del voto. Rito pseudoscentifico che si compiva dopo ogni elezione, dunque molto spesso, in cui qualcuno ci spiegava, sulla base dei duri numeri, cosa era andato storto e cosa era andato bene, e dunque come modificare l’agire politico per essere più efficaci. Naturalmente ad ogni analisi gli errori erano sempre più o meno gli stessi segno che, evidentemente, tra un’elezione e l’altra non seguivamo molti di quei consigli. Deve essere per questo che oggi neanche più si aspetta la conta dei numeri per rilasciare dichiarazioni e dire le proprie verità sui risultati elettorali così come viene.

Non sfugge a questa “regola” neanche l’elezione in Molise. E dire che la prima analisi dei numeri dell’istituto Cattaneo (da cui riprendo le cifre di questo articolo) erano disponibili in contemporanea alle prime dichiarazioni dei nostri esponenti politici.

Proviamo ad andare con ordine. Tra i primi a dichiarare il Presidente della Regione Enrico Rossi che ha affermato che la colpa della sconfitta era da attribuirsi non solo ai grillini ma anche al fatto di aver scelto un candidato presidente troppo moderato. Ecco a giudicare dai dati questa analisi pare piuttosto deboluccia, almeno come gradimento degli elettori: il povero Frattura, di cui francamente ignoro la moderazione o il radicalismo, il suo l’avrebbe fatto guadagnando rispetto al suo schieramento un più 5,7% a differenza del vincitore Iorio che ha svolto la funzione di handicap rispetto al suo schieramento con un meno 9,4%.

Ma anche la vulgata, maggioritaria ed autoassolutoria, dei grillini responsabili della sconfitta lascia un po’ perplessi di fronte ai duri numeri. Il PD in Molise rispetto alle politiche del 2008 perde il 49,8% dei voti e l’Idv il 70,9%. Ben oltre i 10.000 voti presi dai grillini.

La sommatoria dei due dati, voto disgiunto e voti ai partiti, dimostra che il problema principale è stata proprio l’offerta politica del centrosinistra a non convincere gli elettori molisani che puniscono molto di più il centrosinistra che il centrodestra. Infatti nel momento più basso del berlusconismo il PdL perde, rispetto al 2006 23.787 voti con il PD che però ne perde ben 28.842.

Una causa tra le tante? Beh ecco, a modesto parere di chi scrive, dare un occhiata alle liste del PD aiuta. Non conosco nessuno dei candidati ma un dato balza all’occhio: nelle due circoscrizioni elettorali il PD ha candidato una sola donna. Una. In barba al proprio statuto, alla logica e al buon senso. Pensare di attirare in questo modo l’elettorato femminile e quello più politicamente “maturo” è, ad esser buoni, un suicidio neanche troppo assistito.

Se dunque il rito trito e ritrito dell’analisi del voto non va più di moda, cosa che ci può pure stare,  pare che le geniali strategie delle alleanze siano egualmente efficaci nel perpetrare i medesimi errori.

L’uccellino Italia e la volpe BCE

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 6 ottobre 2011.

La pubblicazione della lettera che la BCE ha inviato all’Italia mi ha ricordato la storiella dell’uccellino che cade nel nido e viene messo al calduccio nel fresco sterco di una vacca per poi esserne tolto dalla volpe per mangiarselo; con la morale che non sempre chi ti toglie dal letame lo fa per il tuo bene.

La ricetta infatti di Draghi e Trichet è infatti la ricetta che piace alla BCE, cioè a quell’organismo che ha per statuto la difesa dell’Euro e del sistema finanziario legato a questo. Non ha per compito quello di definire politiche economiche, linee di sviluppo e men che meno la sostenibilità sociale dei Paesi dell’Europa.

Se letta attentamente infatti quella lettera suggerisce misure tipicamente liberiste  che risentono fortemente dell’ideologia mercatista che in questi ultimi venti anni è stata egemonica e che, però, è in buona parte, anche causa della crisi che viviamo. Un‘ideologia che non è automaticamente di destra ma che può essere (ed è stata) declinata anche a sinistra talvolta con buon profitto.

Naturalmente il nostro governo ha pensato bene di non far niente o quasi di quanto scritto nella lettera, nonostante a parole si professi debitore di quell’ideologia e liberale oltre ogni dove. La verità è che lo stato dell’attuale maggioranza è tale che chi ha capito cosa quella lettera diceva non ha modo e potere di attuarla mentre il restante pezzo (maggioritario) o non l’ha capita o ha altri interessi ben più spiccioli a cui pensare.

Nemmeno stupisce la reazione contraria delle forze delle forze a sinistra del PD: da quelle parti si porta avanti, talvolta con convinzione molto spesso per moda, un ragionamento sulla felicità della decrescita e del non-sviluppo che, quando fatto dignitosamente, pone un modello alternativo a quello pensato dai vari Draghi e Trichet.

Quello che invece colpisce è la reazione delle forze che si dicono riformiste. Basta pensare che il povero Fassina, responsabile economico del PD, per aver mosso qualche critica alla lettera è stato subissato di critiche da buona parte del suo partito che, evidentemente, rimane succube del modello neoliberale. Niente di male si potrebbe dire se non fosse che, di quel modello, o se ne prendono pezzetti alla bisogna (l’amore per il primo blairismo, la nuova razza padrona del D’Alema a palazzo Chigi, ecc…) per poi scaricarli con eguale facilità, applicandolo solo alla convenienza immediata mantenendo però in vita comportamenti, azioni e proposte di segno completamente opposto.

E stupisce ancora di più che di fronte a esponenti dichiaratamente debitori di tale ideologia, Matteo Renzi per tutti, che ne portano avanti coerentemente e (dal loro punto di vista) giustamente le idee facendone discendere proposte politiche,  chi li avversa e dice, a parole, di proporre un modello alternativo oppure una loro declinazione più legata alla coesione sociale e all’eguaglianza, non apra su questo un vero confronto e una riflessione. Unico modo, peraltro, per risolvere il problema dell’identità e del futuro del partito.

Chi quindi nutre ancora una qualche speranza di potersi ritrovare in un pensiero riformista, socialdemocratico deve ancora attaccarsi all’apporto di grandi vecchi che continuano a riflettere, come faceva ieri su La Repubblica, Giorgio Ruffolo e spera davvero che il rinnovamento generazionale sia magnanimo almeno con loro.

Se Matteo lanciasse Emma

dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 settembre 2011

Scriveva l’Ariosto: “forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore”. E così pare accadere in queste settimane a Matteo Renzi quando, intervistato per ogni dove, dichiara che prima di candidarsi alle primarie del centrosinistra preferirebbe trovare qualcuno di più adatto, preferibilmente una donna. Se dunque volessimo dar ragione al poeta e inseguire il vero celato dall’inverosimile, dovremmo iniziare a pensare che il Sindaco di Firenze abbia già in mente una donna pronta a guidare il Paese nei prossimi anni, non legata all’establishment democratico (e politico in generale), dinamica e capace di un agenda di riforme in sintonia con la rottamazione renziana.

Seguendo tali tracce non potremmo che imbatterci in Emma Marcegaglia. Non politica, dinamica, in allontanamento palesemente sonoro dal centrodestra e da Berlusconi; capace di calamitare su di sé le aree liberal dei democratici e i montezemoliani ben felici di superare così il ben poco appeal che il loro candidato perenne  suscita fuori e dentro il palazzo e probabilmente rispondente agli standard di moralità indicati dai Vescovi.

Appare dunque più chiaro forse, il senso dell’iniziativa dei giorni scorsi che proprio a Firenze ha visto l’intervento più politico della presidente di Confindustria, giocato di sponda con quel Mussari, presidente ABI e MPS da sempre perno della finanza rossa DS prima e democrat oggi e che ha avuto come padroni di casa i fratelli Bassilichi da sempre legati a Renzi e tramite di questo col mondo senese.

Infine come dimenticare il legame tra il presidente dei giovani industriali, il fiorentino Morelli, e il giovane Sindaco; legame che si data dai tempi della presidenza della provincia da parte di Renzi. Ed è proprio il presidente dei giovani industriali uno dei suggeritori più ascoltati della Marcegaglia come dimostra l’insistenza sul sistema pensionistico a favore dei giovani che la presidente di Confindustria cita quasi ad ogni intervento.

Una comunanza di programmi che si sposa benissimo con quelle che il tink tank montezemoliano elabora da diversi mesi, grazie a esponenti provenienti in larga parte dalle aree più dinamiche del partito democratico veltroniano e che fa spesso rima con le proposte immaginifiche di Renzi.

Certo rimane un punto non di poco conto. Marcegaglia sarebbe perfetta per guidare un partito o forse anche un’alleanza di centro, ma sarà pronta la sinistra italiana a farsi guidare dalla presidente di Confindustria?

Il tatticismo di D’Alema e la debolezza del referendum.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 settembre 2011.

A differenza di molti amministratori e dirigenti locali del PD, Bersani e il suo gruppo dirigente sono apparsi e appaiono tiepidi rispetto alla raccolta firme per il referendum contro il porcellum.  Considerazioni di ordine pratico e di convenienza politica innanzitutto ma anche una certa difficoltà nel governare l’ennesimo esito imprevedibile. La cosa si potrebbe risolvere come spiega il solito D’Alema con la l’ennesima visione tattica del “grimaldello” per smuovere la maggioranza ad approvare una nuova legge elettorale, dimenticandosi che ogni volta che si è mosso così (cioè praticamente sempre) l’esito è stato molto diverso dalle aspettative e quasi mai favorevole alla sua parte: bicamerale e caduta del primo governo Prodi per tutte.

Se invece, come pare fare il più prudente Bersani, ci si ferma un attimo a ragionare sulla lettera del referendum si capisce che, come già era avvenuto per il quesito sull’acqua, si parla di pere e si scrive di mele. Il refendum infatti prevedrebbe l’abrogazione dell’intera legge elettorale e, secondo gli auspici dei promotori, questo riporterebbe in vita la precedente legge elettorale il cosiddetto Mattatellum. Un’interpretazione che, mi sia concesso, appare piuttosto sperticata e che rischia di far sì che la consulta non accetti nemmeno il quesito referendario, rendendo vani gli sforzi dei promotori e paradossalmente rafforzando il porcellum.

L’argomento portato dai promotori che la consulta terrà conto della percezione negativa che i cittadini hanno dell’attuale legge elettorale, ci pare ottima al bancone del bar ma un pochino più debole in un dibattimento di fronte alla Corte Costituzionale.

Certo nella cautela del PD gioca anche un non digerito amore per il proporzionale e una storia seppur recente che ha visto quel partito deliberare all’unanimità per il doppio turno alla francese, tentare l’accordo con Casini sul modello tedesco, far dichiarare al segretario la preferenza per quello ungherese e avere propri dirigenti nei comitati referendari sia per il ritorno al mattatellum che in quello per il ritorno al proporzionale. Tuttavia, per una volta, la prudenza del pd potrebbe tornargli utile non costringendolo in un angolo quando (e se) la corte dovesse non accogliere il quesito.

 

Grand. Uff., Lupett. Mann.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 21 luglio 2011

Maria Antonietta pare ebbe a rispondere a chi la informava che il popolo non aveva il pane: “che mangino  le brioches”; qui da noi al popolo che viene chiamato in ogni modo a sacrifici e costi, tra manovre, tassi dei mutui e investimenti che valgono ogni giorno meno, non si offre nemmeno un cornetto. Di tagli alla politica ognuno parla e poi, quasi tutti, rimandano o pontificano di quello che dovrebbe fare il vicino ma poi in casa propria nulla o poco si muove.

 Anche a Firenze il dinamico Renzi propone, come dice lui da anni, il dimezzamento dei parlamentari e consiglieri regionali ma nulla dice sul dimezzamento degli incarichi dei suoi consiglieri comunali. Vicenda sulla quale il giovane segretario del PD Mecacci vuol veder chiaro. Nobile intento e prassi assai apprezzabile ma che speriamo porti velocemente anche a qualche esito. Peraltro Mecacci avrebbe sulla questione tutto da guadagnare in termini di visibilità e autonomia politica e sicuramente metterebbe in sintonia il PD col suo elettorato e buona parte della sua base.

Ma viviamo tempi complicati dove non solo Cesare ma persino l’autista di Cesare, deve essere specchiato e dunque l’auto con cui viaggia il segretario regionale del PD, auto piuttosto performante non c’è dubbio ma pagata dal partito e non dalle istituzioni, diventa tema di confronto politico decisamente inelegante all’interno degli stessi democratici. Certo ha vita facile la polemica in un partito che tiene in garage l’Audi e licenzia al primo piano i dipendenti.

Nel frattempo il solito Renzi da’ di Fantozzi ai propri dipendenti perché fanno la fila al badge confrontandoli con quelli di Google che il badge non l’hanno proprio e hanno persino la parete per l’arrampicata. Magari potrebbe provare a montare simile attrezzo anche nel cortile della dogana per vedere se aumenta la produttività degli stessi e rimuovere anche lui il badge. Naturalmente i dipendenti non l’hanno presa bene ma in molti hanno risposto con l’ironia modificando la propria foto del profilo Facebook con quella dei ragionieri Fantozzi e Filini e, per le donne, con l’immortale signorina Silvani. Inutile dire che ruolo sia toccato a Renzi: “Duca Conte, Lupett. Man., …”

Nel Pd facebook contro ficattole

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 7 luglio 2011.

Sono passati quasi tre anni dalle primarie fiorentine ma il PD locale non pare aver ancora metabolizzato quel passaggio. Quella che semplicisticamente sui giornali viene spesso descritta come una lotta tra renziani e antirenziani nasconde in realtà una diversa visione della politica e del rapporto di questa con la società.

Da una parte, volendo semplificare parecchio, c’è una parte del PD fiorentino, quella più legata alla tradizione dei vecchi DS, che considera quelle primarie e Matteo Renzi un accadimento temporaneo, un anomalia che prima o poi terminerà e tutto tornerà, se non proprio uguale, molto simile a prima. Dall’altra parte, quella meno legata ai vecchi partiti, assistiamo a una specie di fervore iconoclasta tutto volto all’innovazione, al nuovo e al superamento (spesso acritico) di quelle che una volta avremmo chiamato strutture e sovrastrutture.

Ficattole contro Facebook se vogliamo trovare un immagine anche delle polemiche di questi giorni tra partito “tradizionale” e Officine democratiche. Eppure se una cosa poteva insegnare l’esperienza di Matteo Renzi era che i due aspetti potevano e dovevano trovare una sintesi. Per il momento la sintesi il solo ad averla trovata è stato proprio l’attuale sindaco che però (ed è difficile dargli torto) ha esercitato questa capacità sempre in ambito amministrativo e mai in quello partitico, neppure quando ne guidava uno.

Dunque ai democratici fiorentini sarebbe necessario, almeno a parere di chi scrive, pensare di trovare una sintesi non tanto in un uomo solo ma in un modo di intendere il partito, anche perché il modello di riferimento, sociale e politico, antecedente alle primarie non potrà mai tornare, mentre il solo efficientismo che si volge alla società civile, rischia di non essere sufficiente a una forza politica che intende governare per davvero e non solo fare accademia.

E’ proprio in tempi in cui la politica subisce il maggior discredito presso la pubblica opinione che i partiti avrebbero necessità di ripensare sé stessi per svolgere, di nuovo, un ruolo di portatori e mediatori di interessi collettivi in sintonia però con la società che si ambisce governare.

Perchè sì perchè NO

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 giugno 2011

In un Paese normale domenica e lunedì saremmo chiamati a votare per abrogare o meno quattro norme specifiche e dunque impedire, nel caso, la messa in moto di un processo che porti al nucleare civile, una norma di salvaguardia giudiziale per alcune cariche politiche, la non rimuneratività degli investimenti nel campo della gestione idrica e il ritorno alle aziende municipalizzate di servizi.

In Italia invece siamo convinti di andare a votare contro Berlusconi e per salvaguardare l’acqua pubblica. Il primo tema è l’ennesimo omaggio al totalitario motto “il fine giustifica i mezzi” per cui nulla ha senso in quanto tale ma per l’effetto che può produrre; mentre la seconda è una mistificazione frutto di una campagna di comunicazione, di certo efficace, da parte dei promotori del referendum.

Sul primo tema si spiegano le posizioni dell’IdV e del PD, pronti a cavalcare l’esito referendario in un possibile uno-due con le amministrative per mettere in crisi, definitiva, l’esecutivo. Solo questo può spiegare il ripensamento (visto che non è dato conoscere un eventuale esito condiviso di un dibattito interno ai due partiti sui temi del servizi pubblici) rispetto alle politiche attuate quando erano forza nazionale sullo stesso tema o su quelle locali anche qui in Toscana.

Quattro sì, poi, è molto più semplice da far capire che dover differenziare il messaggio, col rischio che uno non capisca, preferisca andare al mare e non contribuisca alla spallata. Eppure ci si dovrebbe aspettare di più da amministratori che sinora hanno detto e fatto tutt’altro soprattutto in tema di servizi pubblici locali.

Infatti il quesito sulla cosiddetta acqua pubblica non riguarda la sola gestione del servizio idrico ma tutti i servizi pubblici che tornerebbero secondo lo spirito con cui è proposto il quesito, in caso di vittoria del sì, completamente pubblici non nella proprietà (salvaguardata già oggi) ma nella gestione. Un cambio di rotta che, pur non volendolo giudicare, forse andrebbe giustificato da parte di chi ha votato norme opposte a quanto si prefigge di votare domenica prossima.

Cambiare idea non solo è legittimo ma spesso salutare, farci conoscere il perché sarebbe però altrettanto importante, spiegarci come si intende procedere per quanto riguarda le proprie competenze in tal senso sarebbe altrettanto doveroso, farci capire poi come si concilia “meno costi della politica” e ritorno al pubblico anche. Si badi bene non è automatico che il ritorno al pubblico debba per forza significare un aumento dei costi della politica o della lottizzazione dei consigli di amministrazione, tuttavia siccome spesso questo è accaduto sarebbe necessario, nel momento in cui si cambia rotta spiegare quali elementi si metteranno in campo per garantire l’efficienza e l’efficacia del servizio pubblico.

Il ritorno al pubblico comporterà, qui da noi,  il ritorno anche al localismo, all’impresa di ambito comunale? Oppure la strategia del dimensionamento di imprese di servizi pubblici per far fronte ad investimenti consistenti proseguirà in forma diversa? Lo chiedo perché sinora nel (poco) dibattito pubblico sul tema gli stessi che ci invitano a votare sì ci assicuravano che l’investimento privato era l’unico sistema possibile per risolvere questo problema.

Una proposta la avanza il governatore Enrico Rossi, battagliero in posa pannelliana con un cartello indicante i suoi 4 sì sul proprio profilo facebook: quella dell’azionariato popolare. Come questo si concili coi suoi sì ai quesiti non lo spiega però. L’azionariato popolare è un intervento privato, che dunque va bene se a farlo sono in molti ma va male se a farlo sono in pochi. Altro punto previsto da Rossi è la rimunerazione dell’investimento “diffuso” a tassi di poco superiori a quelli bancari. Ammesso che si trovino soggetti disposti ad investire con guadagni di poco superiori allo 0 la proposta di Rossi prevede, ci par di capire, una redditività certa dell’investimento, da attuare presumiamo attraverso la tariffazione e dunque l’opposto di quanto afferma votando sì al secondo quesito referendario.

E’ probabile che lo spirito con cui molti pensano alla fase successiva di una eventuale vittoria dei sì sarà quello di un ridisegno dei servizi pubblici che non precluderà affatto i privati nella gestione ma li limiterà fortemente e renderà i loro investimenti più difficili e meno remunerativi. Di fatto quindi tutt’altro del messaggio “l’acqua bene pubblico” veicolato in questi giorni e sul quale viene chiesto il voto. Non sarebbe la prima volta che un esito referendario verrebbe tradito, è già successo sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla responsabilità civile dei magistrati. Dubito però che sarebbe la strada giusta per riavvicinare i cittadini con la politica (come dicono di voler fare tutti) e per ridare fiducia all’istituto referendario che infatti da venti anni non raggiunge mai il quorum.

Infine siamo sicuri che il vuoto normativo che succederebbe inevitabilmente al referendum sarebbe colmato nella direzione in cui sperano? Dubito che l’attuale maggioranza di governo sia capace di legiferare in alcun senso; ma un’eventuale maggioranza di centrosinistra riuscirebbe a mettere mano al tema superando le posizioni della sinistra di Vendola che già nei precedenti governi hanno impedito riforme in questo settore?

Il modello Bersani-Fassino

Da Il Nuovo Corriere di Firenze del 26 maggio 2011.

Il Bersani di Maurizio Crozza esordirebbe con “Ragassi non siam mica qui a dare il verde alle persiane”, sintetizzando in una battuta l’attitudine, tutta emiliana, del segretario PD di semplificare con un modo di dire le complessità della politica italiana. Una modalità di rappresentarlo che piace allo stesso Bersani che infatti usa maniere “crozzesche” sulla sua pagine facebook  o nelle sue partecipazioni televisive, soprattutto dopo il successo alle ultime elezioni amministrative.

Segno di un buonumore che il segretario si è conquistato. Perché dietro il successo del PD molto merito è anche del passo tranquillo, dell’attenzione rivolta al lavoro quotidiano, all’organizzazione che il segretario ha imposto con la sua direzione. Un modello di successo che già aveva, ai tempi dei DS, portato fortuna a quel partito (che era anche quello di Bersani) e al suo segretario di allora, Piero Fassino.

Fu Fassino infatti che raccolse i cocci della segreteria Veltroni, scappato prima della sconfitta nazionale a fare il sindaco di Roma perché diceva (come lo prendeva in giro Guzzanti) “non lo voleva fare nessuno”, e con basso profilo, testardamente e tenacemente rimise in carreggiata i DS e li riportò a vincere tutte le elezioni amministrative e regionali sino al “pareggio/vittoria” del 2006.

Anche a Bersani è toccato un partito da ricostruire dopo la cura (più intensa questa volta) di Walter Veltroni e anche lui si è approcciato col medesimo basso profilo e lo sguardo rivolto primariamente all’organizzazione. Le analogie però finiscono qui. Fassino aveva come obiettivo quello di far rinascere i DS però all’interno di un percorso segnato, definito e rassicurante. Il partito democratico era un progetto all’orizzonte e il capace neo sindaco di Torino era ben cosciente che quando questo progetto sarebbe passato in una fase creativa sarebbe toccato ad altri il compito di realizzarlo. Un raro esempio di senso dei propri limiti che premia ancor di più l’uomo prima che il politico.

Il compito di Bersani era (e resta) ben più arduo e la ricostruzione organizzativa ed elettorale del PD è quasi più un prerequisito che un fine. Per questo il risultato delle amministrative e dei prossimi ballottaggi non è che una tappa in un percorso più lungo e arduo che deve ancora definire programma, alleanze e leadership. Insomma verrebbe da dire che Bersani ha funzionato sinora  malgrado Bersani, ha vinto nel modo concreto, quotidiano, di intendere il partito e la politica,  nell’affrontare la sfida elettorale scegliendo temi e toni del confronto , mentre la sua “strategia” , a partire dalla larga alleanza col terzo polo, veniva smentita dal voto

Un po’ più “oltre” di così

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 14 aprile 2011.

Ben strano partito il PD. Passa da un segretario che imposta un’intera campagna elettorale sul fatto di non citare mai il nome del principale esponente dello schieramento avversario a un altro che chiede alla presidente di Confindustria, dopo che questa si è lamentata del fatto che la politica e il governo hanno lasciato sole le imprese e il Paese, di fare un passo avanti chiedendo non di appoggiare il centrosinistra e il PD ma di liberarsi di Berlusconi.

Chiariamo non mi ha colpito la proposta di per sé, peraltro immediatamente rigettata da Marcegaglia con due argomentazioni piuttosto convincenti: Confindustria si è spinta già oltre con la prima dichiarazione supplendo a un compito di altri (tra i quali l’opposizione stessa) e la dichiarazione era rivolta sì principalmente al governo ma più in generale alla politica tutta e anche al PD.

Se dunque la dichiarazione di Bersani interessa poco sul piano dei contenuti rischia di essere rivelatrice del punto minimo (e forse massimo) delle aspettative del PD in questo momento: va bene qualunque governo, anche senza il PD, purché a guidarlo non sia Berlusconi. Il che sarebbe piuttosto bizzarro per un segretario di un partito politico che dovrebbe volere la vittoria del proprio partito come bene primario e la sconfitta dell’avversario come conseguenza della sua vittoria e non come fine a sé stesso.

Insomma pare dire Bersani: non m’importa che vinca la Fiorentina basta che perda la Juventus. Un modo piuttosto minimo, mi sia concesso, di declinare quell’”oltre” che campeggia sui manifesti del PD, soprattutto se raffrontato al tanto lavoro di elaborazione che il partito di Bersani ha fatto e sta facendo sui punti e su un possibile programma di governo.

E dispiace vedere uno come Bersani che è l’immagine stessa della concretezza di governo del PD perdersi da quando è segretario in alchimie elettorali e antiberlusconismo a prescindere: una “roba”, come direbbe lui, che non sta in piedi.

Subalterni e contenti

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 marzo 2011.

La rivoluzione si sa, non è un pranzo di gala. Nemmeno quella, col sorriso, di Matteo Renzi a Firenze sfugge a questa regola, e se uno dei tratti più innovativi del nuovo corso è la messa in discussione delle vecchie liturgie dei partiti e delle istituzioni e un riacquistato rapporto diretto tra governati e governante, questo a giudizio di molti osservatori è avvenuto a spese dei partiti e delle istituzioni quali giunta e consiglio. Così assistiamo, aldilà della promessa elettorale, a una giunta di facce nuove sì ma incompleta da quasi un anno di un membro (peraltro di genere femminile) per l’avvenuta promozione dell’assessora Scaletti (IdV) al soglio regionale. Un anno è un tempo che, nella vecchia politica, sarebbe stato impensabile, oggi appare naturale, e nemmeno il partito “sacrificato” sbraita più di tanto e si accontenta di annunci di rimpasto fatti dal sindaco che assomigliano alla Tempesta di Shakespeare, di cui in tutto il dramma si parla ma in scena mai si vede.

Non appare difficile dunque che David Allegranti possa, nel suo bel libro su Renzi, descrivere un quadro della giunta (e più in generale del renzismo) fatto di Matteo Renzi e di consiglieri fedeli posizionati principalmente al di fuori dalle istituzioni e dai gruppi dirigenti dei partiti, e dunque se non sorprende che qualcuno possa essersi risentito di questa analisi, questi ultimi abbiano però confuso il cronista con l’agente.

Altra rottura della liturgia istituzionale appare anche la recente vicenda della presidenza del consiglio comunale che, dopo la nomina di Eugenio Giani a consigliere regionale, presenta un caso di triplo incarico per lo stesso: presidente del consiglio comunale, consigliere comunale e consigliere regionale.

Seppur disponibile a lasciare il primo dei tre incarichi, Giani, ha rimesso tale decisione alla volontà del Sindaco il quale  pare abbia rinviato il tutto al solito rimpasto.  Un mix di stili politici vecchi e nuovi che, a modesto parere di chi scrive, indebolisce ancor di più il consiglio comunale e rafforza l’immagine di subalternità di questo non più rispetto ai partiti ma al sindaco stesso. Si badi bene è un modello, che deriva dalla legge elettorale, che Renzi sfrutta benissimo ma che certo non è sua invenzione.

Questo però avviene anche perché, evidentemente, al consiglio (e in particolare ai consiglieri di maggioranza) tutto ciò alla fin fine sta bene, perché nel caso dei comuni essi avrebbero non solo la sovranità formale ma anche quella sostanziale essendo eletti con le preferenze e non nominati come, per esempio, i loro colleghi regionali.  Un tema che sarà bene che si tenga a mente quando si riproporrà la cosiddetta frustrazione dei consiglieri rispetto all’esecutivo.