Il D’Alema dimenticato dal Kossovo.

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In questi giorni mi è capitato di leggere un volume, Nato’s Gamble, che ricostruisce le vicende della guerra aerea in Kossovo nel 1999. La prospettiva dell’autore Dag Henriksen , un giovane ufficiale della Reale Aeronautica Norvegese, è quella dell’uso del potere aereo come braccio armato della diplomazia dell’Alleanza Atlantica.

Aldilà del valore del libro, quello che mi ha colpito è stata la quasi totale assenza del nostro Paese nelle vicende narrate. Nell’indice delle occorrenze il lemma Italia ricorre solo due volte e dei nostri politici l’unico citato, per una sola volta, è Lamberto Dini all’epoca Ministro degli Esteri.

Eppure il libro non è scritto da un americano, seppure sia edito dall’U.S. Naval Institute Press, anzi si tratta della rielaborazione della tesi di Dottorato discussa dall’autore all’Università di Glasgow. Dunque un autore e una prospettiva europea. E difatti molta parte del libro analizza il ruolo (o il non ruolo) dell’Europa come entità autonoma e/o all’interno dell’Alleanza Atlantica. Proprio da quell’esperienza crebbe la consapevolezza della necessità di una voce unica del continente in politica estera e, non casualmente, l’allora chairman della Nato, Solana, divenne il primo rappresentante della politica estera europea.

Invece nel nostro Paese, all’epoca, la nostra partecipazione all’operazione Allied Force fu assai enfatizzata e, i sostenitori, utilizzarono proprio il ruolo del nostro Paese all’interno della NATO come elemento a sostegno della partecipazione attiva all’operazione.  Anzi l’activation order (l’ordine di mobilitazione delle truppe) fu usato come argomento principe per respingere la richiesta di Romano Prodi di nuove elezioni al momento della sfiducia da parte di Rifondazione Comunista al suo governo. Cosa accade è storia nota, alla fine grazie alla scissione dei Comunisti Italiani e all’appoggio di Cossiga Massimo D’Alema divenne Presidente del Consiglio.

Quell’intervento lacerò e divise soprattutto la sinistra italiana. Con parlamentari al governo che visitarono “il nemico/compagno” Milosevic  sotto le bombe, manifestazioni pacifiste contrapposte a manifestazioni interventiste che si alternavano a seconda della fase politica e un premier, che sul ruolo dell’Italia in Kossovo giocò tanta parte della legittimazione interna ed internazionale degli anni a venire. Il ruolo strategico di ponte verso i Balcani, il rapporto diretto con l’amministrazione Clinton, l'”internazionale socialista” che governava gran parte del continente. Insomma grazie a D’Alema il Paese era entrato nel club ristretto di quelli che contano.

Oggi però, leggendo Henriksen, di tutto questo non c’è traccia.  Ma anche sfogliando il poderoso volume di Joe Pirjevic (Le Guerre Jugoslave, Einaudi)  il nostro ruolo ne esce piuttosto ridimensionato.

Volendo azzardare un perché a questo nostro scarso peso (almeno nella storiografia) mi viene in mente un’altra parte del dibattito di quei giorni. Cioè quella parte riguardante il ruolo militare dell’Italia nelle operazioni.

Forse qualcuno si ricorda l’espressione “difesa attiva” coniata per l’occasione per i nostri aerei.  Il che significò tutto e il contrario di tutto. L’opinione pubblica non seppe mai davvero se i nostri aerei avevano regole d’ingaggio diverse da quelle degli altri Paesi membri dell’Alleanza e quindi partecipavano solo ai pattugliamenti difensivi, oppure se parteciparono alla più massiccia campagna di attacchi aerei dopo la seconda guerra mondiale calcando l’accento più sull’attiva che sulla difesa.

Quella dell’ipocrisia delle reali funzioni dei nostri militari nelle operazioni fuori aerea è un tema che ci accompagna almeno sin da Beirut 1982 e che crea ai nostri militari imbarazzi e reticenze. E che probabilmente penalizza il nostro Paese nel circolo di quelli che contano, insieme a uno strumento militare che fatica a mettersi al passo coi tempi e a restare up to date.

E non si tratta di un problema di colore politico. Oggi, col centrodestra al governo, nonostante La Russa vestito da TopGun, i nostri Tornado in Afganistan (peraltro ne abbiamo mandati solo 2) sono lì ufficialmente solo per compiti di ricognizione. Ma è stato così per l’invio di blindati, carri armati ed elicotteri da combattimento in quasi tutti i teatri: ex Jugoslavia, Somalia, Libano, Afganistan e Iraq. Oscillando tra il “si fa ma non si dice” e le varie versioni della “difesa attiva”.

Siamo l’unico Paese al mondo in cui il Parlamento discute non sulle regole d’ingaggio generali (all’interno del contesto di alleanze definito) per le proprie truppe ma sull’uso del cannoncino Mauser di cui sono dotati i Tornado. Ci manca solo che i piloti prima di decollare chiedano l’autorizzazione alla competente commissione parlamentare piuttosto che alla torre di controllo.

Per non parlare poi delle polemiche sull’uso “facile” di fondi speciali per impedire/trattare per i rapimenti in Iraq o gli accordi presunti con i signori della guerra in Somalia che portarono a una crisi col comando Usa senza precedente, fino alle ultime polemiche sollevate dal Times sul nostro contingente in Afganistan. Anche ammettendo per certo che si tratti di pure invenzioni in tutti i casi non è forse necessario chiedersi il perché tutte le volte sorgano storie del genere? E’ ancora la retorica britannica della seconda guerra mondiale degli italiani pessimi soldati? Oppure le nostre ipocrisie e oscillazioni aiutano a costruire questo pregiudizio?

Peseranno queste considerazioni sulla scelta del prossimo responsabile della politica estera e di difesa dell’Unione Europea? Probabilmente sì ed è forse anche per questo che la candidatura, ormai ufficiale, del governo italiano di Massimo D’Alema riscuote così poca fortuna sia sulla stampa internazionale che tra i bookmakers inglesi. E forse, più che l’inesistente inciucio travaglista tra D’Alema e Berlusconi, all’ex premier costerà cara la politica bi-partisan della difesa attiva.

Stelle gialle e calzini turchesi

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La discussione se la Democrazia italiana stia scivolando verso un regime autoritario è in atto in questo Paese da molto prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi (strategia della tensione, distinzione tra norme precettive e norme programmatiche della Costituzione, vari tintinnii di sciabole, leggi speciali sul terrorismo) e in certi momenti della vita Repubblicana è ormai riconosciuto che il rischio di un sovvertimento dell’ordine democratico fosse più di una ipotesi di scuola.

Tuttavia gli anni che viviamo hanno immesso alcuni elementi pericolosamente sinistri nella nostra società. Una prassi di regime strisciante forse, in cui non si mettono in discussioni le forme della Democrazia rappresentativa ma si finisce per svuotarle di senso e significato. Una progressiva premierizzazione del Paese (a cui non è stato ne è immune il centrosinistra), che prima ha svuotato di senso le assemblee elettive locali con l’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia (anche per demerito e mancanza di capacità delle classi politiche locali incapaci di interpretare il nuovo ruolo che la Legge dava ai consigli) ed adesso il Parlamento che non muta la propria forma ma, con la nuova legge elettorale, avendo privato della rappresentatività elettorale i deputati li rende membri di bande devoti al capobanda che li ha fatti eleggere.

Ma quello che a me preoccupa di più è la costruzione di una opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa che ha molti tratti in comune con la costruzione del consenso nei regimi totalitari del novecento.

Si badi bene, non penso che la Storia si riproponga mai nelle stesse forme e nelle stesse modalità né, fino in fondo, penso che si ripeta una volta sotto forma di tragedia e l’altra sotto forma di farsa, ma credo che la comparazione tra alcune analogie sia fondamentale per chi ha a cuore il proseguo della Democrazia.

Alcuni fatti di questi giorni sono, a mio avviso, particolarmente significativi. Innanzitutto le arringhe dei due legali del premier durante il dibattimento sulla legittimità costituzionale del cosiddetto Lodo Alfano. L’argomentazione usata era, mi scuseranno i legulei per la sintesi e la non precisione, che de facto il premier è eletto direttamente dai cittadini e che quindi questa legittimazione popolare lo mette al di sopra dei suoi ministri e del popolo tutto. Argomentazione molto diversa da quella dell’Avvocatura dello Stato, per esempio, nello stesso dibattimento e che, vista la composizione della corte, avrebbe potuto avere maggiori fortune.

Dunque, non considerando Ghedini e Pecorella due stupidi, viene da chiedersi se tale strategia, quasi suicida sul piano giudiziario, fosse invece necessaria a un disegno politico più generale. A questo va aggiunto che il premier ha fatto propria tale argomentazione (in modo certo più rozzo ma temo più efficace) nei giorni successivi sia in polemica col Presidente Napolitano sia più in generale in una ulteriore autolegittimazione di fronte a un potere Repubblicano che si era mostrato a lui contrario.

Ora, come dimostra la sentenza della Corte, è evidente che tale legittimazione di voto popolare non c’è nell’attuale sistema costituzionale italiano, ma sfido chiunque a interrogare i cittadini e chiedere se non considera, de facto, il presidente del Consiglio eletto direttamente (e non solo blandamente indicato come prevede il Porcellum). Prova che la vecchia tecnica di ribadire ogni giorno falsità, o mezze verità, alla fine le rende reali.

Secondo punto l’utilizzo della categoria di anti-italiano per gli oppositori del governo. Se volete tale strumento è ancora più evocativo di passati tragici.

Cito: “Una volta che mi aggiravo nelle vie del centro [di Vienna] capitai improvvisamente su un personaggio dal lungo kaftan e dai riccioli neri. Anche costui un ebreo? fu il mio primo pensiero… ma quanto più lungamente fissavo quel viso straniero esaminandolo tratto per tratto, tanto più si trasformava nel mio cervello la prima domanda in una seconda: è costui anche tedesco?”

Questa è la prima (e fondamentalmente unica) giustificazione dell’antisemitismo in Adolf Hitler ed è tratta dal Mein Kampf.

Ora anche qui non si tratta di dire che Hitler sia uguale a Berlusconi. Quello che qui interessa è l’analogia di strumenti usati. L’argometo dell’anti-italiano è analoga (non identica) a quella dell’anti-tedesco che veniva usata per i nemici del Reich millenario così come per i nemici dell’Unione Sovietica. In quel caso essi erano nemici del Popolo e non dello Stato.

L’uso di una categoria così minacciosa è però assai strano in anni di spinte contrapposte alla disgregazione dello Stato nazione. Da un lato l’internalizzazione della società (e in parte delle istituzioni) dall’altro il richiamo alle piccole patrie. Ancora più strano in un Paese a scarso nazionalismo come il nostro. Forse spiegabile da un lato come la proposta di sé stesso quale difensore dell’unità italiana (l’unico in grado di tenere la Lega e l’MPA nello stesso governo in effetti) non tanto come insieme di valori condivisi (a quel ruolo paiono dedicarsi Tremonti e Fini temo solo fino a quando il babbo non gli dirà che è suonata la ricreazione) ma come contenitore a cui dare i confini che si vuole (Padania, Regno delle Due Sicilie…)  e in cui fare, per citare un Guzzanti d’annata, un po’ quel che cazzo ci pare.

Terzo punto. Il servizio contro il giudice del Lodo Mondadori fatto da una trasmissione di intrattenimento di Canale 5. Primo punto lo strumento. Non una trasmissione di approfondimento politico, nè un telegiornale. Ma una trasmissione dedicata, vista l’ora a cui va in onda, a casalinghe e pensionati.

Secondo la confezione del servizio. Un signore che non fa niente di strano. Passeggia, fuma una sigaretta, si siede una panchina, dipinto però come un sospetto anche a causa del suo abbigliamento.  Se vi rivedete la scena in cui l’assistente von Remchingen entra nel ghetto ebraico di Francoforte nel film Süss l’ebreo (la vendita il noleggio e la distribuzione del film è illegale in Italia) vedrete che i malvagi giudei sono vestiti in modo strano, hanno nasi adunchi e sono bassi e corpulenti ma non fanno niente di particolarmente strano. Eppure la costruzione della scena ve li rende ostili.

La costruzione del nemico attraverso stereotipi è tema classico nella comunicazione politica. In alcuni casi ha dato vita a veri e propri colossal (Scipione l’affricano) o a capolavori del cinema (l’Alexander Nevskiy di Ejzenštejn) a noi è toccato Brachino e mattina cinque.

Tuttavia dietro alla apparente scemenza dei calzini turchesi si possono intravedere i Kaffettani dei ghetti della civile europa degli anni ’20? Domanda di non facile risposta ma che per il solo fatto di porsela dimostra che il rischio di una involuzione della nostra Democrazia è possibile.

Ultimo fattore, forse il più evidente, la strutturazione della Lega Nord e la sua progressiva evoluzione (involuzione?) antidemocratica.

In questo trovo assurda la fascinazione della sinistra per le capacità organizzative e di radicamento territoriale della Lega, come se la caratteristica dell’essere un partito popolare fosse prerogativa dei soli eredi del PCI (o al massimo della DC).

Il fenomeno di radicamento territoriale della lega è in atto dagli anni ’90, così come la Lega è sempre stata un partito dal voto popolare. Ma ciò, storicamente, non è certo il presupposto per essere una costola del movimento operaio. A meno che non si consideri che costole del socialismo novecentesco furono il fondatore del fascismo italiano e il partito a cui si iscrisse il giovane Hitler. Il partito nazionalsocialista appunto.

Quello che inquieta è la presenza di posizioni apertamente xenofobe, di programmi che coniugano attenzione al sociale ed esclusione sociale. Che parlano di diritti per pochi appartenenti allo stesso gruppo dall’identità territoriale.

Messaggi che trovano spazio in un mondo che la globalizzazione rende ogni giorno più insicuro e più economicamente fragile per chi non ha mezzi e risorse per stare sulla cresta dell’onda.

Il leghismo appare dunque l’altra faccia della medaglia del Berlusconismo. Quest’ultimo ti promette almeno 5 minuti di successo e la garanzia che il tuo orticello (spesso abusivo) sopravviverà comunque. Il Leghismo ti promette che recinterà ben bene il tuo orticello e scaccerà i corvi (neri) che vogliono insidiarlo.

E’ in questo contesto, ogni giorno sempre più egemonico, che ci troviamo a muoverci e forse da questa battaglia culturale servirebbe ripartire.

La maledizione del Box

Da babbibabbi.it:

Box

Come ad ogni neobabbo mi sono imbattuto nella maledizione del box.

Il box ha due caratteristiche. Prende un sacco di posto nella cameretta di vostro figlio ed è del tutto inutile.

Salvo rarissime eccezioni (studiate dai più prestigiosi dipartimenti di antropologia) i bambini passano all’interno del box circa 12 minuti per tutta la durata della presenza del box nella vostra casa.

Il mio credo si situi nella parte alta della classifica, nel senso che iniziava a piangere quando lo prendevo  in collo pensando di metterlo dentro.

Un povero inserviente di una lavanderia venuto a riportare alcuni capi a domicilio ha chiamato il telefono azzurro dopo aver sentito le urla di Giorgio appoggiato all’interno del box per evitare che gattonasse ovunque.

E a nulla vale l’aggiunta di generi di conforto o di giocattoli all’interno del box. Così alla fine resta inutilmente aperto in mezzo alla stanza a fungere da contenitore per i giocattoli o ripiegato in un angolo della stanza.

Il box ha poi un’altra caratteristica. Il box è un oggetto che nessuno ha mai comprato. Si tramanda infatti di famiglia in famiglia. Chiunque lo abbia avuto in pegno da un parente, un amico, un vicino, talvolta un passante, appena può tenta di sbolognarlo al prossimo neogenitore malcapitato.

Nessuno ne conosce l’origine. Se sia forgiato nelle miniere del Dio Vulcano o piovuto dal cielo come segno degli Dei. Qualcuno ha cercato di decifrare i segni e i disegni che affollano questo affascinante totem ma senza fortuna.

E’ successo così anche a me. Donatoci da una amica il bel box verde e giallo è stato una presenza ingombrante (abbiamo deciso di usarlo in configurazione aperta per tenere i giocattoli) sino a sabato quando, dopo aver tentato ingenuamente di renderlo alla precedente proprietaria, siamo riusciti a passarlo ai prossimi genitori.

Caricarlo in macchina, salire le scale e montarlo nel soggiorno di questi amici ha equivalso al superamento di un rito di passaggio. Così alla fine ho guardato il babbo successore e ho pensato a quante volte questa scena si sia ripetuta dalla notte dei tempi e a quanto presto il nuovo possessore cercherà il modo di liberarsi della maledizione del box.

On the air on babytv

Qualche giorno fa mi è stato chiesto, quale genitore 2.0, di scrivere anche sul blog babbibabbi, questo è il mio articolo che ripropongo anche qui

BabyTV

Da settembre l’offerta sky si è arricchita di un nuovo canale pensato apposta per i piccolissmi.

Siccome il mio pargolo rientra nella categoria, ha 14 mesi, è subito diventato un entusiasta del canale. Non come il babbo per foxcrime ma diciamo che è sulla buona strada.

Il canale è un orgia di disegni animati con “simpatiche” musichette, filastrocche (per lo più in inglese), bizzarri personaggi e colori i più sgargianti; che va in onda a ciclo continuo senza interruzioni pubblicitarie. Insomma un trip alla Sid Barrett con le musichette della Disney senza neanche leccare il francobollo.

Ora capita che da una certa ora, le 19.30 se non sbaglio, la programmazione cambia per favorire il riposo delle piccole creature.

I colori si fanno più spenti, le musiche più rilassanti i cambi immagine meno frenetici. Risultato? Voi dormirete beati sul divano mentre il vostro pargolo scarrozzerà col triciclo per l’intera sala canticchiando le canzoncine che la tv trasmette.

Chissà cosa ci sarà dietro? Nulla.

complotto

Sarà che è settembre e più o meno tutte le attività sono riprese. Sarà che mi è capitato di passare per il mio circolo un paio di volte (complice anche il congresso più bizzarro a memoria d’uomo), ma mi sono trovato a spiegare a un po’ di persone, di nuovo, che non ho più incarichi politici.

Il bello è che l’ho dovuto spiegare anche a qualche affezionato lettore di questo blog (sì stranamente ne esistono) che evidentemente si era perso questo post.

Ma la cosa che mi ha dato fastidio è la diffusa sensazione di incredulità che vedevo sui volti dei miei interlocutori e una sorta di “ma credi di farmi fesso?”. Come se nascondessi chissà che cosa e tramassi nell’ombra in attesa di un mio (?) rientro sulla ribalta.

Allora provo a precisare:

Non faccio più parte di alcun organismo del Partito Democratico essendomi dimesso dalla segreteria della città di Firenze lo scorso giugno  nella totale indifferenza del segretario. Resto membro del direttivo del mio circolo in attesa del rinnovo di tale organismo ma non ho alcuna intenzione di ricandidarmi nemmeno a quel piccolo incarico.

Non ero candidato a quella specie di elezioni svolte nei congressi di circolo, né sarò in lista il 25 ottobre prossimo.

Non sono membro di alcun consiglio di amministrazione, direttivo o altro organo di società partecipate da enti locali.

L’unica carica che ricopro è quella di membro del consiglio direttivo dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, su nomina del Consiglio Regionale. Incarico che non comporta compenso o alcuna forma di rimborso.

Non siedo in alcuna fondazione politica né ho altri incarichi, non lavoro in una segreteria di qualche assessore, gruppo politico o parlamentare  e il mio (poco) reddito deriva soltanto dalle mie prestazioni professionali che svolgo in una ditta privata e non da incarichi di alcuna sorta.

Insomma ho perso e sono tornato a lavorare. Segno che, se ci sono riuscito io, non era una cosa così straordinaria.

Piove sul bagnato dal 4 settembre nelle sale

locandina piove sul bagnato

Dopo la bella anteprima del Vis Pathè di venerdì scorso e risolti i problemi tecnici che avevano dato qualche problema in quella occasione, da venerdì 4 settembre esce nelle sale Piove sul bagnato.

Il film esce per ora in tre copie a Firenze al cinema Colonna, a Campi Bisenzio sempre al Vis Pathè e a Grosseto al Multisala.

Andrea Muzzi, Andrea Bruno Savelli, Max Galligani, Toto Barbato e il resto del cast saranno presente il 4 settembre allo spettacolo delle 21 al cinema Colonna di Firenze per l’anteprima fiorentina.

Anteprima nazionale di Piove sul Bagnato.

locandina piove sul bagnato

Ci siamo. Giovedì 27 al Vis Pathè di Campi Bisenzio ci sarà l’anteprima nazionale di Piove sul Bagnato il film che ha prodotto la Diogene, la società di cui sono amministratore.

Alla serata sarà presente tutto il cast del film. Dai due autori, registi e attori Andrea Muzzi e Andrea Bruno Savelli, la protagonista femminile Alessia Fabiani, Max Galligani, Toto Barbato, Carlo Monni, Daniela Morozzi e Bruno Santini.

Per chi fosse interessato può contattarmi per i biglietti anche qui sul blog o su facebook.

Vi apetto numerosissimi!

Quando la maglietta era troppo stretta per il regime argentino

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Le dittature oltre ad essere terrificanti sono anche molto spesso ridicole. L’ennesima riprova arriva dall’Argentina dove il Comitato federale per la radiofonia ha pubblicato l’elenco delle canzoni sgradite al regime.

Non è una novità. Il nostro fascismo faceva altrettanto. Il Duce arrivò a censurare persino “Un’ora sola ti vorrei” canzone d’amore assolutamente apolitica solo perchè chi non gradiva troppo il regime, passando innanzi ai ritratti del Duce, era solito canticchiare:”un’ora sola ti vorrei/per dirti quello che non sai”.

I militari argentini hanno avuto lo stesso zelo. Dunque sul sito del Comfer si trovano sette pagine dattiloscritte di titoli non graditi.

Scorgendo i titoli delle canzoni si rimane stupiti. Perchè si capisce che la censura colpisse Victor Jara, un po meno quando ad essere censurati sono Malgioglio o Toto Cutugno.

Non va meglio ai Queen o ai Pink Floyd e nemmeno Rod Steward è risparmiato. Il censore poi non gradisce nemmeno la regina della Disco Donna Summer. Dai titoli ci par di capire che la politica, i riferimenti alle droghe, ma anche una certa pruderie sessuale, possono essere i criteri coi quali i solerti censori si muovevano. Poi si trova Mi pequeňo gran amor, cioè la versione spagnola di Piccolo grande amore di Baglioni, e lì si perde ogni riferimento a meno che quella sua maglietta fina non fosse troppo osè; ma si sa che è “osceno tutto ciò che provoca un’erezione a un giudice”.

Ancora una volta appare evidente l’intento disumano di ogni dittatura. Quello di sostituire il giudizio di ognuno con una imposizione massificata decretata da menti malate e troppo zelanti.

Non è sempre detto che sarà una risata a seppellirli. Forse servirà anche qualche canzonetta.

Il Presidente può essere anche di colore il tuo avatar no.

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Uno studio di quattro ricercatori statunitensi recentemente pubblicato su new media & society ha preso in considerazione l’appartenenza etnica, il genere e l’età dei personaggi dei videogiochi in circolazione negli Stati Uniti.

L’esito della ricerca è sconfortante. La stragrande maggioranza dei personaggi sono giovani uomini bianchi. Solo il 3% sono ispanici (la cui maggior parte come protagonisti non giocabili dall’utente) mentre le donne arrivano a malapena al 10%.

Gli afroamericani sono invece rappresentati in percentuali più simili alla composizione percentuale della popolazione americana ma a tale dato si arriva solo grazie ai titolo sportivi o a giochi di “gang” con personaggi quindi altamente stereotipati.

Il rischio, notano i ricercatori, è che, non sentendosi rappresentati e quindi difficilemente immedesimabili nei personaggi dei giochi, i giovani membri di queste comunità abbiano meno voglia di avvicinarsi alla tecnologia, mantenendo e ampliando il cosiddetto digital divide:

Latino children play more video games than white children. And they’re really not able to play themselves. For identity formation, that’s a problem. And for generating interest in technology, it may place underrepresented groups behind the curve.

Ironically, they may even be less likely to become game makers themselves, helping to perpetuate the cycle. Many have suggested that games function as crucial gatekeepers for interest in science, technology, engineering and math.”

In momenti in cui da noi si discute sul dialetto come preselezione per gli insegnanti si tende a dimenticare che  la costruzione dell’identità globale passa anche per i nostri avatar nei nostri videogiochi preferiti.

Piove sul bagnato

locandina piove sul bagnato

Siccome non mi faccio mancare niente, coinvolto dal mio amico Andrea Bruno Savelli, ho prodotto un film. Cioè per meglio dire sono l’amministratore di una società, la Diogene, che ha prodotto un film.

Il film si chiama Piove sul Bagnato. Lo hanno scritto, diretto e interpretato Andrea Muzzi e Andrea Bruno Savelli. Insiema a loro nel cast Alessia Fabiani, Max Galligani, Toto Barbato, Andrea Monni, Daniela Morozzi e tanti tanti altri.

Ora, dopo averlo girato, editato, montato, musicato (con le musice originali dei Martinicca Boison) esce nelle sale fiorentine il 28 agosto.

Il film è una commedia a mio parere molto divertente e ha tutte le caratteristiche per andare bene. Lo ammetto il mio è un parere di parte ma mi consola che tutti quelli che lo hanno visto in questi mesi di lavorazione e post-produzione ne danno un giudizio molto positivo.

Dunque dal 28 agosto vi aspetto al cinema, per ora vi posto i due trailer.