Propongo qui la mia trauzione integrale dell’intervento svolto dal Presidente del Consiglio dei Ministri francese Edouard Philippe di fronte all’Assemblea nazionale il 28 maggio 2020. Il testo in francese e il video dell’intervento li trovate qui.
Signor Presidente,
signore e signori deputati,
Eccoci dunque al momento in cui dobbiamo dire alla Francia come la nostra vita riprende.
Dopo lo scorso 17 marzo, il nostro Paese vive confinato.
Chi avrebbe immaginato, soltanto tre mesi fa, il posto che queste parole avrebbero avuto nel nostro dibattito pubblico? Chi avrebbe potuto immaginare una Francia nella quale, improvvisamente, le scuole, le università, i caffè, i ristoranti, la maggioranza delle imprese, le biblioteche e le librerie, le chiese, i templi, le sinagoghe e le moschee, i giardini pubblici e le spiagge, i teatri, gli stadi, tutti quei luoghi comuni, per usare una formula alla quale è affezionato il Presidente dell’Assemblea Nazionale, sarebbero stati chiusi?
Mai nella storia del nostro paese, abbiamo conosciuto una tale situazione. Né durante le guerre, né durante l’occupazione, né durante precedenti epidemie. Mai il paese è stato confinato come lo è oggi.
Ed è del tutto evidente, che non potrà esserlo per sempre.
Poiché se è vero che il confinamento ha costituito una tappa necessaria, potrebbe, se durasse troppo a lungo, determinare degli effetti deleteri.
È stato uno strumento efficace, per lottare contro il virus. Per contenere la progressione dell’epidemia. Per evitare la saturazione delle nostre capacità ospedaliere e, in questo modo, proteggere i francesi più fragili.
Dopo il 14 aprile, il numero dei casi di COVID-19 ospedalizzati diminuisce: da più di 32.000 pazienti ospedalizzati, è disceso a 28.000. Dopo l’8 aprile, il numero di casi di COVID-19 in rianimazione diminuisce. Sorpassavano i 7.100, è ormai di 4.600.
La discesa è iniziata ed è regolare. Lenta, lo vedremo, ma regolare.
Secondo uno studio dell’Ecole des hautes études de santé publique, il confinamento ha permesso di evitare almeno 62.000 decessi il mese. E 105.000 letti in rianimazione sarebbero mancati in assenza di confinamento. Io non credo, signore e signori deputati, che il nostro Paese l’avrebbe sopportato.
Ma uno strumento è valido solo se i suoi effetti positivi non sono, nel tempo, superati dalle sue conseguenze negative.
Ora noi sappiamo, per intuito o per esperienza, che un confinamento prolungato aldilà dello stretto necessario avrebbe, per la Nazione, delle conseguenze gravissime.
Noi sentiamo che l’arresto prolungato della produzione di parti intere della nostra economia, che il turbamento duraturo della scolarizzazione per un gran numero di bambini e adolescenti, che l’interruzione degli investimenti pubblici o privati, che la chiusura prolungata delle frontiere, che l’estrema limitazione della libertà di circolare, di riunirsi, di fare visita agli anziani genitori o ai propri cari, presenterebbero per il paese non solo l’inconveniente penoso del confinamento ma in verità quello, molto più terribile, del collasso. Non uso questo termine a caso. Mi si accusa più spesso di abusare della litote che dell’esagerazione.
Dobbiamo dunque, progressivamente, prudentemente, ma anche risolutamente, procedere a un de-confinamento sia atteso che rischioso.
L’obiettivo del governo è di presentare all’Assemblea Nazionale, e grazie a questa, ai francesi, la nostra strategia nazionale, cioè, gli obiettivi che ci siamo posti e le modalità con le quali andremo a procedere per ottenerli a partire dal prossimo 11 maggio.
Cultura Commestibile si dà al video. In epoca di quarantena Cultura Commestibile, oltre all’appuntamento settimanale con la rivista sul www.culturacommestibile.com, ha “costretto” i suoi autori a metterci la faccia. Ci sono anche io che vi racconto Spillover di David Quammen equesto è il risultato…
La Fondazione Circolo Fratelli Rosselli mi ha chiesto un intervento per la loro sezione Idee e proposte per l’emergenza sul crash del sito INPS al momento dell’attivazione delle domande per il bonus da 600 Euro per i lavoratori autonomi. Se vi va, il mio pezzo lo trovate qui
Gustav Klimt, Medicina, ricostruzione del dipinto andato perduto nel 1945
Siamo sommersi dalle
informazioni. Numeri, tabelle, grafici. Andamento dei casi, diffusione
dell’epidemia, numero dei morti. Sui social ci scopriamo tutti virologi, come
reazione alla nostra paura di non sapere.
Io in questi casi mi rifugio in
quelli che sono stati i miei studi e quello di cui dovrei, ma non è
necessariamente detto, capire qualcosa di più. Così mi sono letto il volume di
Laura Spinney, 1918 L’influenza spagnola, la pandemia che cambiò il mondo,
Marsilio editore.
Dalla storia non si apprende
niente, mi dicevano i miei maestri, se pensiamo che questa si ripeta sempre
uguale. Aggiungo io, nonostante l’affetto per il vecchio Karl, anche se
pensiamo che si ripeta due volte sotto forma di tragedia e di farsa.
La storia può darci però
un’indicazione sulle persistenze e sulle rotture. Su cosa rimane immutato (o
cambia con lentezza estrema) e cosa muta, magari drasticamente, di fronte
all’incalzare del tempo.
Vale anche per le epidemie e
cercare nell’influenza che falcidiò il mondo tra il 1918 e il 1920 un modello
ripetibile oggi sarebbe l’equivalente di affidarsi al volo delle rondini per
predire il futuro.
Il mondo di oggi è completamente
diverso, la tecnologia, la medicina, il fatto che non ci sia in Europa una
guerra mondiale devastante in atto sono modificazioni gigantesche che rendono
impossibile una comparazione.
Tuttavia, le linee di persistenza
rimangono e forse aiutano a capire o magari consolano. Sapere che l’umanità è
passata da qualcosa di simile potrebbe aiutarci. Sapere che siamo sopravvissuti
a pandemie devastanti da Uruk a Perinto, da Ippocrate all’OMS, ci dona una
speranza e un conforto di fronte alle nude cifre dei bollettini serali.
Ci dà anche un’idea se le misure
in atto hanno una qualche efficacia e beh, spoilerando un po’, posso dire che
sì, storicamente hanno avuto un senso. Mentre la tesi di Boris Johnson
sull’immunità di gregge contrasta con il fatto che l’epidemia spagnola ebbe tre
fasi acute e drammatiche e che le successive due colpirono gli stessi luoghi
della prima. Questo in condizioni di contenimento dell’epidemia ben peggiori
delle nostre e quindi con un contagio stimato tra il 70 e l’80 per cento della
popolazione, ben sopra quelle che gli scienziati ci dicono essere le
percentuali dell’immunità di gregge. Immunità che, probabilmente, si raggiunge
davvero con un vaccino.
Nel 1918 la scienza e la medicina
si presero, almeno nel mondo occidentale, la scena e contribuirono a far
passare nelle persone l’idea della vaccinazione, dell’igiene, della profilassi;
queste misure anche se non strettamente connesse alla battaglia contro
l’influenza, contribuirono decisamente al miglioramento delle condizioni di
vita delle persone. A New York questo si tradusse in un miglioramento della
vita dei nostri emigrati che uscirono da una condizione di ghetti insalubri e
pochi anni dopo arrivarono persino ad eleggere uno di loro sindaco, Fiorello La
Guardia.
Ma lo studio dei comportamenti durante l’epidemia della spagnola ci aiuta anche a capire che ci sono alcune istintività contrastanti in noi da una parte scrive la Spinney “i numeri [illustravano] quello che le persone avevano compreso con l’istinto; un accadimento comincerà a esaurirsi quando la densità di individui suscettibili sarà scesa sotto una certa soglia”. Cioè stiamo a casa, isoliamoci, e il contagio terminerà prima. Dall’altra parte però “anche se i medici ripetono di tenerci lontani dagli individui infetti durante un’epidemia noi tendiamo a fare il contrario. Perché? Una risposta, valida soprattutto nei tempi antichi, potrebbe essere la paura di una punizione divina. […] Un’altra risposta potrebbe essere la paura dell’ostracismo sociale una volta passato il pericolo. O forse è semplicemente inerzia. [..] Gli psicologi suggeriscono una spiegazione ancora più interessante. Sono convinti che la resilienza collettiva nasca dalla percezione di sé stessi nelle situazioni di pericolo: non si identificano più come individui, ma come membri di un gruppo”.
Il che non giustifica quelli che
vanno a fare passeggiate nei parchi cittadini invece che stare a casa ma forse
ci aiuta a comprenderne le ragioni e convincerli che, secondo me, rimane sempre
– anche durante una pandemia – preferibile al mandare l’esercito per le strade.
Naturalmente anche durante
l’epidemia della spagnola non mancarono le polemiche sulle misure adottate e
sul loro rispetto. Chiusure di esercizi commerciali, bar, teatri e cinema erano
considerate a ragione essenziali dalla scienza ma malviste dalle autorità
politiche che tardarono o evitarono del tutto di adottarle. Laddove, come a New
York, furono adottate l’epidemia fece molti meno danni cha altrove. Sul mancato
rispetto si distinse, soprattutto in Spagna, invece la Chiesa Cattolica che non
rinunciò a riti e enormi processioni di massa per scacciare il contagio, che
ebbero invece l’effetto di propagare il morbo. In questo la decisione di
Francesco I di chiudere da subito le Chiese ha l’indubbio merito di aiutare la
prevenzione del virus ma rappresenta, a mio avviso, uno degli elementi di
rottura più epocali di questa pandemia.
Infine più controversa fu allora
la decisione di lasciare aperte le scuole, ritenute più sicure e più salubri
delle abitazioni per i fanciulli dell’epoca e naturalmente non mancarono anche
allora forti polemiche e tensioni sull’uso delle mascherine. Fu tuttavia in
quell’occasione che nacque la consuetudine per i Giapponesi di indossarla anche
per il comune raffreddore. Chissà se lo faremo anche noi d’ora in poi.
Insomma ci siamo già passati, il che non elimina la paura, non cancella il lutto e non lenisce il dolore ma magari aiuta a passare più speranzosi il tempo.
« Lombroso è un emerito coglione». Il compagno Ossipon sostenne l’urto di questa bestemmia con un impressionante sguardo vuoto. E l’altro, i cui occhi spenti e offuscati facevano apparire più nere le ombre profonde sotto la fronte ampia e ossuta, mugugnò, afferrandosi ogni due parole la punta della lingua fra le labbra come se la masticasse con rabbia: «Ma voi un idiota simile lo avete mai visto? Per lui, il criminale è il detenuto. Semplice, no? E quelli che lo hanno messo in prigione, che lo hanno costretto ad entrarvi? Proprio così. Costretto a entrarvi. e il crimine, che cos’è? Lo sa lui cos’è, quest’imbecille che si è fatto strada in questo mondo di idioti rimpinzati di cibo guardando le orecchie e i denti di un mucchio di poveri diavoli sfortunati? Sarebbero i denti e le orecchie a imprimere il marchio al criminale? Ma davvero? E la legge allora, che gli imprime il marchio ancora meglio, questo grazioso strumento per marcare a fuoco inventato dai supernutriti per proteggersi dagli affamati? Applicazioni col ferro rovente sulla loro pelle vile, eh? Non lo sentite anche da qui l’odore e il rumore della pellaccia del popolo che brucia e sfrigola? Ecco come si fabbricano i criminali, perché i tuoi Lombroso ci possano scrivere su le loro baggianate.»
E’ con questa riflessione sulla giustizia di Joseph Conrad tratta da “l’Agente segreto” che vi faccio i miei migliori auguri per queste festività e per il 2020. Un anno che in quanto a giustizia e potere si preannuncia preoccupante. Senza, per noi, nemmeno il conforto delle parole, della voce e dell’intelligenza di Massimo Bordin. Quanto manca ancora Direttore…
In questo autunno che tarda ad arrivare ripartono consuete le stagioni teatrali: Pupi e Fresedde ha presentato quella del teatro di Rifredi lo scorso 27 settembre inserendo come spettacolo di apertura la prima produzione in italiano dell’autore uruguaiano Sergio Blanco. Tebas land è un testo potentissimo ed emozionante che Angelo Savelli, che cura anche la regia dello spettacolo, ha reso con una traduzione secca e asciutta. Lo spettacolo andato in scena in anteprima al festival di Todi questa estate vede un giovane parricida ed un regista confrontarsi nel campo da basket del cortile di un penitenziario. Lo sdoppiamento tra la realtà carceraria e lo spettacolo che il regista vuole trarre da questo omicidio passa attraverso riferimenti letterari, primo su tutti quello di Edipo che ispira anche il nome dell’opera, ma anche e soprattutto attraverso i colloqui tra il regista, il parricida e il giovane attore che lo interpreterà sulla scena. Piani che si intersecano e definiscono la tragedia, a partire dal resoconto cronachistico di quanto accaduto per poi scavare e instaurare un rapporto tra l’autore e il detenuto, contrappuntato dall’attore che non è mera cartina di tornasole della riuscita dello spettacolo ma diventa pian piano ulteriore elemento di confronto e conoscenza. Uno spettacolo che ricostruisce il ristretto orizzonte carcerario ponendo lo spettatore sul palco a guardare la gabbia del campo da pallacanestro, asserragliato anche lui e privato del rassicurante confort della propria poltrona in platea. Messo al centro della scena il pubblico è quindi in grado di godersi appieno il gioco di attori che Ciro Masella ma soprattutto Samuele Picchi introducono anche fisicamente tra un rimbalzo di pallone e l’altro. Ancora una volta grande merito al Teatro di Rifredi nel portare in Italia un autore affermatissimo non soltanto nei paesi di lingua spagnola come era già accaduto con Josep Maria Mirò, che sarà in scena sempre a Rifredi per il terzo anno con Il principio di Archimede o col francese Rémi de Vos con il nuovo spettacolo Tre rotture anch’esso nel cartellone rifredino. Tebas land sarà in scena a Rifredi dal 10 al 27 ottobre con ben 14 repliche che conviene prenotare per tempo visti i posti ridotti per l’allestimento scenico scelto.
Arrivando al Salone del libro di Torino la prima cosa che noti entrando nel padiglione 3 è lo stand arabeggiante degli Emirati Arabi Uniti. Dopo le polemiche di due settimane sulla libertà di informazione, la libertà in genere, il fascismo e la democrazia, come direbbe un vecchio comunista, capisci che la fase è e rimane complessa. Poco più in là lo stand della Repubblica Popolare cinese con in bella mostra le copie in tutte le lingue del mondo del bestseller del leader Xi Jinping, “Governare la Cina” (edito per inciso in Italia da Giunti), conferma la sensazione di disagio. Si dirà che il tema era il fascismo ritornante, l’egemonia della nuova destra nel nostro Paese, non la democrazia nel mondo. Sarà ma rimango perplesso. Altaforte non c’è più al salone, espulso dagli organizzatori dopo la pressione mediatica e la denuncia di Sindaca di Torino e Presidente della Regione per apologia di fascismo. Denuncia che qualche avvocato definirebbe temeraria per quella che è la giurisprudenza prevalente sulle cosiddette leggi Scelba e Mancino, non solo negli ultimi anni ma da sempre. Il tema però era politico anche se, come al solito, in Italia la politica per nascondere la sua debolezza ricorre all’aiuto della giustizia. Ma il tema politico, sollevato per primo da Cristian Raimo – consulente del salone stesso – e poi amplificato dai Wu Ming c’era tutto e poco senso hanno le critiche che negli anni scorsi editori neofascisti erano già stati al salone del libro. Negli scorsi anni gli editori neofascisti non pubblicavano il libro del ministro degli interni, il tema della conquista dell’egemonia gli scorsi anni non era posto, oggi sì. Si può discutere dell’efficacia del boicottaggio, su chi colpisce, a chi fa male – a me che ho comprato i biglietti mesi prima in base al programma o all’editore neo fascista – ma non sulla legittimità che hanno alcuni lavoratori – seppur intellettuali – a non svolgere il loro lavoro per protesta. Ma, mi perdoneranno gli scrittori boicottanti, dubito che il loro gesto avrebbe ottenuto il risultato atteso senza che una sopravvissuta ai campi di sterminio, la presidente del museo di Auschwitz avesse posto il suo sovrappiù di forza morale dicendo o lei – venuta a celebrare il centenario di Primo Levi – o i fascisti. Ma una volta impacchettato lo stand di Altaforte, ristabilito l’equilibrio antifascista del salone, i problemi son finiti? Certo che no, nessuno lo pensa. Perché prima del salone Einaudi pubblicava il rossobruno Fusaro e non nella collana delle supercazzole, ma tra i piccoli saggi che vedono tra i colleghi del “filosofo” i Montanari, i Settis e i Ginsborg e dopo il salone il solito Furfaro esce con Utet con il suo nuovo libro. È poi notizia degli ultimissimi giorni che Di Battista – che di fascistissimo ha sicuramente il babbo – curerà addirittura la saggistica per Fazi, editore che sul finire degli anni novanta andava piuttosto di moda tra la sinistra engagé e che pubblicava l’esordiente Simona Baldanzi con Figlia di una vestaglia blu che oggi, infatti ripubblica con Alegre.
Nel frattempo, come ricorda la copertina di questo numero di
Cultura Commestibile, il governo giallo verde sta per chiudere Radio Radicale,
la cui vita è legata a un tenue emendamento leghista mentre si scrive, e ci si
chiede cosa faccia al riguardo la #brigatavoltaire costituita da Pierluigi
Battista per difendere la libertà di espressione di Altaforte. Probabilmente è
troppo intenta a riciclare i libri comprati su Amazon dal giornalista e gettati
nel cestino senza leggerli. Almeno D’Annunzio volava su Vienna per gettare i
volantini.
Lo dicevamo all’inizio, osservando le donne velate e mascherate intessere un tappeto allo stand degli Emirati Arabi Uniti che la fase era complessa e quindi occorrerebbe non limitarsi alla manichea indignazione di un momento, alla protesta della settimana. Leggere, di solito (visto che di libri in larga parte si parla) è normalmente un buon antidoto. Per esempio, leggere anche solo l’incipit del libro intervista di Chiara Giannini a Salvini aiuta molto. Bastano poche righe, ancor prima del trauma infantile del pupazetto di Zorro sottratto all’asilo al bimbo Matteo, per capire che cambiano i tempi ma non le argomentazioni. In quel Salvini uomo più desiderato dello Stivale dalle italiche femmine, risuona il rapporto, invero molto propagandistico, della virilità maschia di Mussolini che possedeva il Paese come le donne che a lui, vogliose, si concedevano. Che lo scriva una donna che è stata più volte in Afganistan a seguito dei militari italiani, può fare specie ma che la signora avesse qualche problema col senso del ridicolo lo dimostra la sua dichiarazione, a seguito del non poter essere al Salone al banchino del suo editore, di sentirsi come una sopravvissuta dei lager, seppur piccolissima come dice lei. Ecco forse è proprio il senso del ridicolo l’arma da impugnare perché chi fa ridere spesso ha già l’egemonia delle masse. Non credo sia un caso che, come nota Angela Nagle, l’Alt Right americana sia cresciuta coi meme sarcastici sui social network e non coi saggi dei grandi autori. Un modello che anche da noi la lega salviniana ha saccheggiato a man bassa. Da qui discende che “le migliori frasi di Osho” siano più efficaci dei Wu Ming? Probabilmente no, ma data la complessità della fase di cui sopra, appigliarsi alla speranza che una risata li seppellirà rimane comunque consolatorio.
Riapre LU.C.C.A. il centro espositivo per l’arte moderna e contemporanea nel cuore di Lucca dopo lunghi lavori di ristrutturazione e riapre al futuro con uno dei futuristi più talentuosi e atipici. Fortunato Depero dal sogno futurista al segno pubblicitario è infatti il titolo e l’oggetto della mostra che sarà visitabile nei rinnovati locali di via della Fratta 36 fino al 25 agosto. Una mostra che prova a raccontare la molteplicità di Depero, uomo dagli ingegni e dalle passioni multiple, che vengono rappresentate nel percorso della mostra dalla centralità del Depero pittore, che si intreccia con il Depero illustratore e il Depero pubblicitario, mantenendo intatto il talento, la visionarietà e lo stile unico.
Particolarmente suggestivi i lavori commissionati da Campari
e raccolti in una apposita sala mentre la selezioni delle opere “americane” di
Depero ne mostra un lato misconosciuto e lo riposiziona in un contesto
mondiale, dimostrandone la sua globalità di artista, facendolo uscire, almeno
come artista, dalle secche del dibattito nazional/nazionalista dell’arte degli
anni del primo Novecento e del ventennio fascista.
Da segnalare, nello spirito del LU.C.C.A. che ha sempre affiancato a grandi nomi dell’arte uno spazio per giovani artisti emergenti, i lavori di un ebanista, trentino come Depero, Giorgio Conta sposti fino al 9 giugno. Si tratta di alcune sue sculture in legno e opere pittoriche in cui il materiale ligneo è sia materia che forma espressiva, realizzate da un talento sicuramente da seguire.
Accendere la radio, prima del solito, attendendo le note del
Requiem di Mozart nell’esecuzione di Von Karajan e i Berliner come al solito,
anche se oggi quel requiem ha un senso diverso; domandarsi a chi sarebbe
toccata la rassegna “che non avremmo mai voluto fare”. Probabilmente al
direttore, che infatti c’è ma in coppia, perché Alessio Falconio bravissimo
direttore di Radio Radicale sa che la voce potrebbe rompersi e quindi ha
chiesto – suppongo – di farsi
accompagnare da Roberto Spagnoli. I due iniziano a leggere; la notizia, l’unica
che daranno dalla lettura dei giornali, è quella che tutti noi sappiamo: ieri,
mercoledì 17 aprile, Massimo Bordin ci ha lasciati. Portato via da un tumore,
una malattia che aveva trattato con riservatezza, come tutte le cose della sua
vita. Mi trovo a piangere mentre i due leggono il ricordo dell’uomo che mi ha
svegliato per gli ultimi 15 anni, che mi ha fatto da faro nell’editoria e nella
politica italiana. Mi pare che se ne sia andato via lo zio bello (ché Bordin
era pure bello) e intelligentissimo, quello a cui avresti chiesto qualunque
consiglio. Nell’etere le due voci, emozionate, sofferenti, leggono le parole
dedicate a Bordin a partire da il Foglio, giornale dal quale dispensava una
rubrica, rapida, affilata, mai banale. Le parole di Adriano Sofri, Giuliano
Ferrara, Guido Vitiello, colleghi, amici, tutti nipotini lasciati spiazzati
dalla morte dello zio bello.
Nelle parole che lo ricordano, nei giornali, nei comunicati
delle istituzioni e dei politici, nei post dei semplici ascoltatori, c’è
emozione vera, sconforto e sofferenza, ammirazione. Tutti gli schieramenti si
ritrovano nel lutto, perfino Crimi, definito da Bordin Gerarca minore, quello
che si è issato a vessillo della morte dell’emittente per la quale Massimo è
stato bandiera e simbolo, sente il bisogno di esprimere cordoglio.
In un Paese che fa polemica su tutto, che si divide sulle
morti come sulla vita, per Bordin piovono lacrime tutte uguali e basterebbe
questo a far comprendere la grandezza dell’uomo. Chi non ho lo ha conosciuto
potrebbe pensare che fosse un paraculo e per questo tutti ne portano
simbolicamente il feretro a spalla, niente di tutto questo: se c’era un uomo di
parte questo era Bordin, di parte ma non fazioso. Talmente convinto delle sue idee
da tenere testa a Pannella, talmente galantuomo da dedicare più tempo alla
lettura delle idee a lui più distanti che a quelle a lui comuni. Magari
contrappuntandole con sospiri, qualche “vabbè” o quel “figuriamoci” che era una
sentenza di cassazione.
Oggetto di culto per un manipolo di adepti, una piccola coorte
che si autoproclamò in un gruppo chiuso su Facebook – riservato come lui –
melomani bordiniani, che facevano a gara a trascrivere le migliori
punteggiature di Bordin nella rassegna appena sentita, spesso quasi in tempo
reale, beandosi tutti di quello che tutti stavamo contemporaneamente sentendo.
Culto della personalità? Può darsi ma dipendeva dalla personalità.
Se la cosa facesse piacere a Bordin non è dato sapere;
riservatissimo, della sua vita personale si sapeva pochissimo e sempre per
racconti di altri. Mai una volta ha letto nella rassegna uno dei suoi corsivi,
si limitava se il punto di vista da lui trattato non era stato preso in
considerazione da nessun altro a dire che “pure un piccolo corsivo ne parla
oggi sul Foglio”. Modesto ma consapevole del suo talento.
Tifoso della Roma, si sarà chiesto come mai gli era capitato
un figlio juventino, ed evitava con cura di trascinare il calcio nella rassegna
o negli altri programmi, sgarrava pochissime volte, spesso in prossimità del
derby, quelli stravinti o quelli strapersi. Si concedeva solo qualche rimbrotto
a chi appellava “capitano” altri da Totti. Romano, amava Roma, come la amano i
romani veri, con un amore disincantato ma enorme, che in parte condivideva per
Napoli e Palermo.
Un talento immenso, una capacità di analisi finissima che si
combaciava con una memoria storica incredibile. Probabilmente una maledizione
per lui, che confrontava le mutevoli posizioni di questo o quell’esponente
politico con quelli del passato e con le giravolte che la politica di questo
paese riserva. Ma Bordin era anche una cultura storica, politica e filosofica
notevolissima, capace di tenere testa, di ribattere sul punto, di smentire
persino, uno che era “memoria e verità” come Marco Pannella. Le loro
conversazioni domenicali erano epiche, smisurate, incommensurabili.
Bordin contrappuntava, smitizzava, facendo incazzare
Pannella e incazzandosi a sua volta, seppur con altro stile. Perché Bordin era
anche incazzoso, probabilmente focoso: rimaneva in lui eco del militante
trozkista nella Roma degli anni ’60, fermato da Pannella in Piazza Venezia prima
di strappare uno striscione del MSI.
Radicale sì ma col cuore a sinistra, la sua conoscenza del
movimento operaio, della storia della sinistra socialista e comunista, tradiva
origini ma anche affinità mai nascoste. Tanto che per offenderlo Pannella, in una
domenica di Pasqua di 19 anni fa, gli diede di “stronzo dalemiano”. Lui, con
addosso una maglietta rossa con su scritte le parole “dubitare, disubbidire,
trattare” abbozzò male una risposta, scoprimmo poi che la cosa l’aveva anche
ferito, fino a portarlo poi alle dimissioni da Direttore, ruolo che per noi non
ha però mai lasciato. Ma in radio tutto questo non traspirò, imprigionato nella
nuvola azzurra del fumo di sigari e sigarette che i due consumavano in quantità
industriali e che ne hanno decretato la fine terrena. Finirono a declinare la
propria diversità a partire dalla cravatta di Pannella, un enorme pendaglio
tutto colorato su una base giallo canarino, davvero importante: “siamo diversi
– fece Pannella. Certo io non ho una cravatta così – rispose Bordin. E questo è
un tuo limite – concluse Pannella”. Poi continuarono a parlare ancora per anni,
fino alla fine di Pannella, di Gambetta dell’incontro con Croce (di cui
circolano almeno una ventina di versioni) a prendersi affettuosamente in giro:
“Marco mancano un po’ più di quaranta minuti alla fine della trasmissione, ce
la fai a chiudere la parentesi?”.
Maestro lo hanno definito in tanti e maestro lo è stato
davvero, di storia, di politica, di giustizia, di giornalismo. Ascoltare la sua
rassegna, o lo speciale giustizia o le trasmissioni sul Medio Oriente o Israele
era come seguire un corso universitario gratuito. Ma fu anche maestro
involontario dei nostri figli, costretti da noi adepti ad ascoltarlo nel
tragitto casa scuola. Mio figlio ai tempi dell’asilo riconosceva immediatamente
la sua voce e lo chiamava “Bin Bin”. Glielo scrissi, mi rispose che prima o
poi, crescendo qualcuno di quei bambini avrebbe finito per denunciarlo.
Fu però maestro suo malgrado di tanti di noi che abbiamo
imbrattato le pagine dei quotidiani. Quante volte nello scrivere un pezzo ci
siamo chiesti: lo leggerebbe Bordin? e come lo troverebbe? Quindi via a
tagliare, stringere, eliminare retroscena e sparate, anche se scrivevamo per un
quotidiano di provincia che nell’edicola di Largo Argentina non sarebbe mai
arrivato.
Tutto questo non ci sarà più e non trovo pace a questa idea;
pensare che anche la sua memoria e il suo lascito ci abbandoneranno il 21
maggio, perché questo governo criminale, spegnerà Radio Radicale è un sovrappiù
di dolore che non meritiamo. Se hanno un senso le lacrime e le parole spese per
Massimo Bordin sta nel provare fino all’ultimo a far vivere la sua radio.
Tutto il clamore sulla sua fine, fatti gli scongiuri di rito, lo avrebbe scacciato con un “un po’ esagerati” e si sarebbe rimesso al lavoro per la sua radio, puntuale alle 7,35 del mattino. “Buongiorno agli ascoltatori di Radio Radicale….”
È tornato, dopo “La provvidenza rossa” Lodovico Festa e il suo detective probiviro comunista Cavenaghi per un altro giallo ambientato nella Milano Rossa. È uscito dunque, sempre per Sellerio, “La confusione morale” ambientato questa volta nella Milano degli anni ’80, quella in cui il PCI litigava con Craxi a livello nazionale ma governava con i socialisti nella capitale lombarda con la giunta Tognoli (Bagnoli nel libro). Ed è proprio questa dualità, questa alterità del comunismo meneghino la vera protagonista della storia. Come nel primo libro o forse ancor di più, l’intreccio noir e poliziesco sono un pretesto. Ne la provvidenza rossa era il pretesto per raccontare il mondo parallelo dei comunisti milanesi rispetto ad una società “secolarizzata” che li escludeva e da cui si autoescludevano. In questa seconda opera l’alterità è tutta fra compagni: tra quelli che vorrebbero inseguire la modernità del riformismo craxista e quelli, romani in larga parte, che lo vogliono contrastare trascinati dalla “questione morale” che Berlinguer, appena scomparso nella narrazione, aveva lanciato. A differenza però del primo volume, l’autore qui prende decisamente parte, schierandosi con i riformisti milanesi, e nel farlo da un lato (anche per esigenze narrative) traccia confini tropo netti tra i due campi ma soprattutto, conoscendo come andranno i fatti (per sé e per il PCI) dà ai compagni riformisti doti di preveggenza un po‘ troppo ampie, soprattutto per quanto riguarda cosa sarebbe accaduto in URSS dopo il 1989. Eppure, il libro rimane godevole, proprio per l’analisi di quella frattura tra le due sinistre che si compì in quegli anni, e per come “mani pulite” sarebbe nato e sviluppatosi. Anche in questo caso, l’autore forza un po’ la mano, e traccia una linea troppo netta, un destino ineluttabile, alla saldatura tra ambienti della magistratura e una parte, importante, dell’apparato comunista. Quello che è del tutto assente è il giudizio sul PSI di quegli anni, lasciato troppo sullo sfondo, concedendo troppo alla tesi assolutoria del craxismo costretto a determinate azioni, politiche e non soltanto politiche. Altrettanto godibile è il fatto che i personaggi seppur mascherati da nomi fittizi siano altamente riconoscibili e credibili, nonostante qualche dialogo un po’ troppo protocollare; così come la ricostruzione dell’ambiente milanese rimane la parte migliore dello scrivere di Festa, insieme alla descrizione dell’urbanistica e dell’architettura milanese, che già si intravedeva nella prima opera. Meno accurato – come nota Giuliano Ferrara recensendo il libro su il Foglio – nel ricostruire le vicissitudini della sinistra milanese di quegli anni il fatto che per tutto il libro nessun comunista non scopi mai; col risultato che da un lato ci si assolve per l’aver peccato coi craxiani e contemporaneamente ci si assolve pure dai peccati della carne.