Claudia Goldin, un Nobel di genere

Se cercate in rete una foto di Claudia Goldin ne troverete molte con lei in posa accanto ad uno dei suoi Golden Retriver che ha appena ricevuto un premio. Il premio che invece ha ricevuto questa professoressa americana che insegna ad Harvard è decisamente diverso e fa molto più rumore. La Reale Accademia delle Scienze di Svezia ha, infatti, lunedì scorso, deciso di attribuirle il premio Nobel per l’economia.

La motivazione scarna, che accompagna il paper di illustrazione dei meriti della vincitrice, recita così: “per aver migliorato la nostra comprensione del mercato del lavoro femminile”. Chi si è occupato in questi anni di storia dell’economia, di politiche del lavoro, di superamento delle ineguaglianze, sa che questo è solo un pezzo del contributo che Claudia Goldin ha dato alla ricerca e ai decisori politici.

Claudia Goldin ha innanzitutto cambiato il metodo di analisi dei fenomeni economici legati al mercato del lavoro applicando il metodo storico all’analisi dei dati. Lavorando sul mercato del lavoro femminile negli Stati Uniti è stata quindi in grado di rovesciare le interpretazioni fino ad allora maggiormente condivise e di proporre ricostruzioni dei fenomeni molto più accurate e corrette.

Oltre all’uso del metodo storico, la Goldin, ha effettuato un’altra rivoluzione per analizzare il lavoro femminile: ha messo al centro della ricerca, la donna.

Questo ha voluto dire prendere i dati del lavoro femminile del XIX e XX secolo e scoprire che, a differenza di quanto postulavano gli studi (pressoché tutti maschili) precedenti, il progresso delle donne nel mondo del lavoro non è stato un lento ma incessante progresso ma la sua dinamica formava una curva ad U. In estrema sintesi l’apporto delle donne al mercato del lavoro Statunitense era stato, per il XIX secolo, sottostimato nelle analisi non tanto per la mancanza di dati ma perché i pregiudizi di genere avevano impedito agli studiosi di andare oltre i dati finora raccolti, di andare oltre la dicitura “wife” che compariva nei registri dei censimenti della popolazione. Goldin lavorando su più serie di fonti ha dimostrato che nell’economia rurale e mercantile dell’America dell’800 le donne lavoravano eccome e che le cifre finora pubblicate sottostimavano l’apporto femminile di circa il 7%.

L’altra grande scoperta fu quella che il processo si interruppe con il passaggio tra economia rurale ed industrializzazione. Fu a questo punto che la curva ad U iniziò la sua discesa. Ma il calo non fu un’interruzione brusca: le donne partecipavano ancora al mercato del lavoro ma ne uscivano al momento del matrimonio e della nascita dei figli.

Dunque il processo di espulsione era sia legato all’innovazione tecnologica del processo produttivo, ma anche (e non in maniera irrilevante) allo stigma sociale e alla non flessibilità del mercato del lavoro rispetto al lavoro di cura familiare.

Un processo che si interrompe solo nei tardi anni ’40 del XX secolo, quando la nuova fase dell’industrializzazione post bellica richiama al lavoro anche le donne sposate. Tuttavia questo processo che inverte la curva della U è un processo che le donne subiscono e sulle quali hanno pochissimi strumenti (sociali, normativi, educativi e culturali) per incidere. In più, ecco un’altra delle grandi intuizioni di Goldin, questa condizione subalterna non fu patita soltanto dalle spose che rientravano nel mercato del lavoro ma anche dalla generazione delle loro figlie, in quanto questo rientro avvenne quando molte delle scelte educative delle giovani ragazze erano state già fatte.

Ecco un altro punto fondamentale: il mercato del lavoro si modifica molto lentamente, in archi generazionali e per coorti di popolazione.

Questo ci introduce al secondo campo di indagine sul mercato del lavoro americano: le differenze salariali.

Questo ingresso ritardato ha infatti creato le condizioni per una minore competenza professionale della manodopera femminile in confronto a quella maschile disponibile negli anni ’50 e nei primi anni ’60. Questo perché la costruzione delle potenzialità professionali avviene all’interno dei processi educativi e nei primi anni lavorativi.

Il processo si invertirà quindi soltanto nelle coorti successive che avranno avuto la possibilità di scegliere i propri percorsi educativi e lavorativi. A questo va aggiunta la contemporanea trasformazione del mercato del lavoro con l’espansione dei lavori impiegatizi che saranno in grado di assorbire questa massa occupazionale femminile preparata e qualificata.

L’altro elemento che consentirà di affrontare la ripida risalita della U, accanto ad una modificazione culturale (e di conseguenza normativa), è un’innovazione tecnologica che si rivelerà fondamentale: la pillola anticoncezionale.

L’arrivo di un anticoncezionale che pone in mano alla donna la gestione della propria fertilità, e dei tempi della propria educazione e formazione, fu un elemento decisivo per l’affermazione delle donne anche nei segmenti medio alti del mercato del lavoro.

A questo processo di ingresso e consolidamento numerico si affiancò un percorso di incremento reddituale che, anche in questo caso, non fu lineare ma ebbe lunghi periodi di stagnazione: negli anni ‘30 e ‘40 dove la bassa presenza femminile rendeva il loro potere contrattuale minore e negli anni ’80 dove la lenta rincorsa delle donne istruite raggiunge la parità salaria nominale ma non quella effettiva.

Infatti, sempre il lavoro di Goldin, dimostra che nel corso del XX secolo si sarebbe passati da una differenza “tra” professioni ad una differenza “all’interno” delle professioni. Tale differenza non è però una differenza nominale ma una vera e propria discriminazione. Le donne infatti, e siamo arrivati ai nostri giorni, hanno lo stesso salario nominale degli uomini ma hanno minori possibilità di progressione di carriera, di accesso alla dirigenza di impresa e di monte ore lavorative. In particolare tale “discriminazione” interviene al momento della nascita di un figlio. Fino a quel momento le carriere di uomo e donna procedono pressoché appaiate, poi il meccanismo si inceppa. Questo ha cause sia culturali che di processo: la non flessibilità del mercato del lavoro rispetto al lavoro di cura familiare. Una stortura che nella maggior parte dei casi determina strutture di welfare compatibili con questo modello e non ad esso antinomiche, soprattutto nella società americana in cui i due principali modelli di welfare sono quello “privato” e quello legato alle confessioni religiose.

Questo lavoro focalizzato sugli Stati Uniti sarà poi, nel corso della carriera di Goldin, esteso a livello internazionale scoprendo da un lato che gli USA erano stati anticipatori di fenomeni che si sarebbero verificati in tutto il mondo (in modo particolare in quello occidentale), ma anche che il peso delle specificità culturali e soprattutto dell’accesso all’educazione delle donne avrebbero determinato esiti molto diversi nei singoli mercati del lavoro nazionali.

Seppur l’accademia di Svezia abbia preso in considerazione il lavoro di Goldin sul mercato del lavoro femminile (che comunque rappresenta la parte più rilevante del suo lavoro), soprattutto negli ultimi anni la professoressa, ha allargato il campo delle sue ricerche all’insieme più generale delle disuguaglianze nel mercato del lavoro, analizzando il ruolo degli immigrati, del peso dell’educazione e del rapporto tra educazione e tecnologia.

Anche se Goldin non ha mai avuto un approccio normativo nei suoi lavori, è evidente che grazie alle sue ricerche e al suo lavoro molti decisori politici ed economici possono (sempre che lo vogliano) far discendere politiche di contrasto alla disuguaglianza davvero efficaci e capaci di un orizzonte temporale lungo. Da un lato quindi investimenti in welfare e politiche di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, a partire dalla genitorialità condivisa, ma soprattutto porre al centro delle politiche del lavoro l’educazione come vero fattore competitivo e di crescita per tutte le componenti delle nostre società. Perché l’inclusione, dimostra sempre Goldin, produce (oltre a società più giuste), anche società molto più ricche.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.506 del 14 ottobre 2023

L’orizzonte lungo dell’innovazione francese

innovazione-31

 

Dalla scorsa settimana ho iniziato una collaborazione con la testata online www.soldiweb.com. Questo il secondo articolo publicatomi.

Mentre qui da noi l’orizzonte politico ha il respiro di qualche settimana, tra la scadenza dell’Imu, il congresso del PD e, al massimo il semestre europeo, i nostri cugini francesi, nonostante un presidente ed un governo che faticano molto ad andare avanti, hanno impostato una serie di piani di lungo respiro che hanno come intento quello di recuperare il gap con i paesi più innovativi e…

Continua a leggere sul sito di soldiweb.com

Se le banche non prestano, io do ragione alle banche.

Oggi mi sa che scriverò una cosa che non piacerà a molti. Perché oggi di fronte alla cacofonia di quelli che si indignano (uno degli stati umani più sterili ormai) di fronte alle banche che non farebbero il loro lavoro, non prestando soldi alle imprese, io, scusatemi, mi schiero dalla parte delle banche.

Perché non prestando soldi a imprese sempre più a rischio (questo dice il bollettino della BCE quando parla di insolvibilità delle imprese italiane) le banche fanno proprio il loro mestiere: tutelare il risparmio raccolto, cioè i nostri soldi.

Perché li vorrei vedere gli indignati se scoprissero che i loro risparmi non ci sono più perché la loro banca ha prestato soldi a imprese non in grado di onorare i prestiti.

Proprio la genesi di questa crisi sta nel fatto che le banche (americane ma non solo) hanno prestato a cani e porci senza alcuna garanzia o gonfiando il valore delle garanzie (mobiliari ma soprattutto immobiliari).

Di fronte a questo non ha senso urlare alle banche di fare credito all’impresa, peraltro dicendogli anche contemporaneamente di investire in titoli di stato per ridurre il famigerato spread. Come penso chiunque possa intuire essendo la capacità economica finita se i soldi li metti in bot non li presti.

Però, si dirà, la stretta sulle imprese è davvero ogni giorno più insopportabile. Vero, verissimo anzi. Ma non è il generico appello alle banche o il rappresentarle come la mefistotelica quint’essenza del male che risolverà il problema. Sia chiaro le banche hanno enormi responsabilità nella crisi e godono di enormi irresponsabilità nel pagarne i prezzi, ma rispetto al problema di come ridare ossigeno (soldi) alle imprese italiane non è intervenendo retoricamente sulle banche, a mio avviso, che si troverà la soluzione.

Cosa fare allora? Intanto le aziende italiane vantano crediti con le pubbliche amministrazioni o coi grandi gruppi industriali enormi. Passera aveva detto all’insediamento che sarebbe intervenuto. Finora si è fatto poco o niente e persino Alfano se n’è accorto e propone misure che da anni due deputati (un PD e un radicale) propongono all’aula di Montecitorio e che una Direttiva europea imporrebbe al Paese. Intervenire su questo tema con crediti d’imposta, certificazione del debito, persino pagamenti con titoli di stato avrebbe un effetto immediato salvando centinaia di aziende, tecnicamente sane, dal fallimento.

Perché quando sento politici locali, autorevolissimi, vantarsi del fatto che qui da noi le PA pagano con una media di 90 giorni li inviterei a rimanere loro per tre mesi senza stipendio e poi parlare.

Altro tema ormai non più rimandabile è quello della pressione fiscale. Sia quella sul lavoro che quella sui soldi che gli imprenditori potrebbero reinvestire in azienda, lavoro o ricerca, con un effetto moltiplicatore che nessuna riduzione di scoperto di conto corrente potrà mai dare.

Infine, si fa per dire, intervenire sulla selva burocratica e sulla riforma della giustizia civile per rendere il fare impresa in questo paese qualcosa di possibile e conveniente.

Poi prendiamocela pure con le banche brutte e cattive ché i motivi non mancano, ma intanto facciamo ripartire questo Paese.

Dai milionari cinesi un aiuto all’autostima dell’occidente.

Pare che la Cina, anche questa volta, ci sia vicina. Ieri il post oggi alcuni quotidiani riportano la notizia che anche a Pechino si iniziano ad avvertire i primi sintomi della crisi economica che ha già colpito Stati Uniti ed Europa.

Tra gli indicatori un Pil che corre “solo” al 7,5% annuo, meno maiali macellati al giorno ed altri elementi micro e macro economici. Tra questi uno mi ha particolarmente colpito: la fuga dei ricchi cinesi.

Sì perché i milionari cinesi, una moltitudine secondo i nostri standard, pare che decidano sempre più spesso di trasferirsi, famiglia e patrimonio al seguito, fuori dalla Cina in particolare negli Stati Uniti.

Non è un fenomeno recentissimo se è vero che già da un paio di anni le richiese per la green card americane richieste per famiglie cinesi con a garanzia un patrimonio di almeno un milione di dollari sono aumentate a dismisura.

Quello che colpisce, almeno il sottoscritto, non è il dato economico della vicenda ma il suo simbolismo. Per anni ci siamo autoconvinti della Cina come del luogo del futuro. Il posto in cui si sarebbe svolto il cambiamento del mondo. Abbiamo chiamato Shangay la new york del XXI secolo e scritto di tutto su “un continente che si finge una nazione” come se non essere lì, oggi, equivalesse a vivere nel passato a precludersi futuro e ricchezza.

Oggi invece scopriamo che invece i ricchi e facoltosi cinesi pensano che per il loro agiato futuro sia meglio andarsene dalla Cina e trascorrere il resto del loro tempo nell’occidente decadente.

Non so cosa significhi di preciso, di sicuro non significa certo che la Cina sia finita e che non occorra continuare a cercare di capire quel posto o sottovalutare la sua importanza nella politica e nell’economia globale; ma mostra a noi occidentali che la percezione che si ha di noi, della nostra qualità della vita, della nostra cultura, della nostra ricchezza, non è così in declino come ci stiamo autorappresentando.

Se i tra i più ricchi del pianeta le nostre città, le nostre libertà, il nostro modo di vivere e godere sono ancora più attraenti del produrre a qualunque condizione (economica, politica, sociale ed ambientale) forse c’è speranza che questa parte di mondo si rialzi magari anche in fretta e continui a mantenere la propria egemonia sul resto del globo terracqueo.  E magari esporti, con la forza della sua way of life, diritti, democrazia e libertà nel resto del mondo.

 

Il riscatto del lavoro

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 maggio 2011.

Siamo davvero certi che il tema del lavoro, della sua rappresentanza e del suo rapporto con la sinistra sia tutto riassumibile nelle polemiche di questi giorni? O che la maggiore manifestazione simbolica di attenzione da parte dei sindacati confederali nei confronti dei giovani possa essere il “concertone” del primo maggio?

E il grande dibattito sull’organizzazione del lavoro scaturito dagli accordi di Melfi e Mirafiori dov’è finito? Ci è bastata l’ipocrita dichiarazione finale in cui si diceva che la FIAT fa storia a sé, buona per giustificare sia chi ha firmato gli accordi, sia chi non li ha firmati e pure Confindustria abbandonata da FIAT. Eppure una generazione intera che passa dall’incertezza di un lavoro all’altro, che non ha idea di come pianificare il proprio futuro si aspetterebbe altro.

Altro anche da una discussione ideologica sulle aperture nei dì di festa, volutamente provocatoria in chi la propone (altrimenti si sarebbero scelte sia festività religiose che civili) e nelle argomentazioni di chi la difende in una città sì e in 10 no.

Servirebbe, chiederemmo noi trentenni, qualcosa di più anche del successivo strascico su chi guadagna di più tra politici e sindacalisti, interessandoci molto di più quanto poco guadagniamo noi lavoratori rispetto ai nostri coetanei europei.

Ci piacerebbe che a questo si sostituisse un dibattito sugli ammortizzatori sociali, sull’indennità di disoccupazione e sui contributi silenti che lo Stato si intasca anche se non riusciremo a maturare una pensione. Ma anche sul sostituto d’imposta che obbliga gli imprenditori a fare un lavoro che non è loro, aumentando i costi e diminuendo la competitività, della tassazione che fa si che le imprese spesso lavorino fino ad agosto per lo Stato e da settembre per sé, oppure sulle trattenute sindacali, chiedendo che non sia una volta per tutte, ma come ogni adesione a qualsiasi altra associazione sia su base annuale e volontaria. Magari servirebbe a inserire anche un po’ di competitività e di attenzione verso i propri iscritti.

E ci piacerebbe non sentire più da importanti imprenditori, che dovrebbero assumere incarichi associativi a Firenze tra breve, che il motivo del nanismo delle nostre imprese è dovuto all’articolo 18, quando invece ha molto più a che fare col modello dinastico/familiare della nostra imprenditoria e con un sistema che, in alto, ha favorito i soliti pochi uccidendo (con mezzi più o meno leciti) chiunque provasse a farsi grande.

E infine ci piacerebbe che si ragionasse in termini di occupazione e costruzione di profitto quando un gruppo internazionale acquista una nostra impresa, invece di dare l’impressione di discutere di italianità più in termine di poltrone e di interessi per i grandi manager e di chiedere di difendere la proprietà italiana sempre con soldi pubblici quasi mai con investimenti privati. Magari scopriremmo che il gruppo francese che acquisterà Parmalat consuma più latte italiano di quanto ne consumi oggi Parmalat stessa.

Insomma ci piacerebbe che, nei negozi aperti per il primo maggio, si fosse potuto parlare di lavoro e prospettive piuttosto che dell’ennesimo muro contro muro.