Victor Hugo aveva dedicato loro appena una pagina in quell’opera monumentale che è il suo I Miserabili. Due uomini al comando di due immense barricate, «due spaventosi capolavori della guerra civile», tali da risultare indimenticabili.
Poi una breve notazione sul destino di questi due uomini: uno toglierà la vita all’altro, in esilio passata la Manica, in quello che sarà l’ultimo duello mortale, all’ultimo sangue, in Inghilterra.
Da queste scarne ma precise note parte la curiosità di Olivier Rolin che alla vita di questi due uomini ha dedicato un bellissimo libro: All’ultimo sangue, pubblicato in Italia da Settecolori.
Un libro capace di intrecciare letteratura e storia, che si muove con maestria e rispetto, nelle vicende dei due personaggi e delle vicende storiche delle rivoluzioni francesi del XIX secolo, oltre che delle due città protagoniste del libro, Parigi che agita le rivolte, Londra che accoglie esuli e sconfitti di quelle rivoluzioni.
Ma partiamo dalle Barricate e per quale delle molte rivoluzioni dell’ottocento che segneranno la capitale francese saranno erette. È il giugno del 1848 quando i due mostri di masserizie e ingegno umano sbarreranno la strada agli assalti, la rivoluzione è quella, sociale, che scuoterà l’Europa, quella compulsata da Marx nella speranza di un divampare generale e che leggerà come primo dispiegarsi della lotta di classe a conferma del proprio pensiero.
Hugo ripartirà proprio da quelle barricate, da quel giugno del 1848 in cui «l’estate non abdica» per riprendere il lavoro del suo libro Le miserie che presto cambierà il suo titolo nel definitivo Les miserables. Hugo esiliato nell’isola di Guernsey dopo la presa di potere di Napoleone III però ambienta il suo romanzo nel 1832 quando altre barricate sorgeranno tra le vie di Parigi, e dunque quella del 1848 è una digressione dalla trama e dai personaggi del romanzo. Una digressione che, con tutta probabilità, ne cela un’altra e altre barricate, quelle seguenti al colpo di stato di Luigi Bonaparte, e che vedranno il pari di Francia Hugo combattere per la Repubblica, lui fino ad allora monarchico convinto.
È questa progressione di lotte e barricate, questa teoria di sconfitti, Gavroche, i due protagonisti del libro Emmanuel Barthélemy e Frédéric Cournet, e lo stesso Hugo che prende vita nelle pagine di Rolin. L’autore insegue i protagonisti prima e dopo le loro lotte, li vede scappare dalla repressione, li descrive nell’esilio inglese, quello protetto e isolato nell’isola del canale per Hugo, quello talvolta misero e spesso infelice londinese dei due protagonisti.
Ogni tanto anche l’autore fa capolino nelle pagine del libro. Una presenza in punta di piedi nella ricerca dei segni rimasti intatti, nel nostro presente, delle vicende del libro, dai punti di appoggio delle barricate sui palazzi parigini alle locande inglese in cui prese forma l’odio dei due protagonisti fino al loro duello, mortale almeno per uno dei due. L’unica deviazione che si concede Rolin al suo ruolo, rispettoso, di cronista è quando ripensa alla sua di rivolta, quel maggio ’68 in cui non si eressero barricate preferendo cercare il mare sotto i sampietrini.
Difficile catalogare All’ultimo sangue; non si tratta di un romanzo perché i fatti, tutti i fatti, narrati nel libro giura l’autore sono realmente accaduti e quando documenti e ricerche non consentono di ricostruire qualche curva della storia, con somma onestà, Rolin ce lo comunica e rinuncia ad inventare. Non è però un libro di storia propriamente detto, mancando di un apparato di note e possedendo invece un ritmo di racconto e una musicalità di lingua (resa benissimo nella traduzione italiana da Daniela De Lorenzo). L’autore nell’incontro fiorentino di presentazione a Testo lo ha definito un reportage e ci atterremo alla sua definizione.
In ogni caso si tratta di un libro magnifico, in cui l’intreccio dei tanti racconti non fa mai perdere lucidità alla storia, e la capacità di descrizione di Rolin ci cala nelle strade di Parigi e Londra, sia di quelle dell’800 che quelle attuali, mentre la descrizione del duello nella foschia della campagna inglese ha i toni del miglior Conrad.
Olivier Rolin, All’ultimo sangue: Intorno ad una pagina dei Miserabili, Settecolori, 2024. Traduzione di Daniela De Lorenzo.
Mai come oggi l’adagio «una risata vi seppellirà» potrebbe risultare azzeccato, salvo il fatto che l’accezione con cui era stato concepito si è completamente ribaltata.
È infatti la risata, o meglio il ghigno beffardo, di Joker quella che rischia di seppellirci e non solo metaforicamente. Almeno così pare pensarla Guido Vitiello che ha appena dato alle stampe per Gramma Feltrinelli “Joker scatenato. Il lato oscuro della comicità”, in cui partendo dal personaggio dei fumetti DC poi trasposto in quasi tutti i capitoli della saga cinematografica di Batman, ci mostra come il giullare cattivo abbia preso il potere nelle nostre società.
Certo il primo Joker che ci salta in mente nelle cronache quotidiane è il Trump che già nel suo primo mandato aveva mostrato tratti di somiglianza col cattivo dai capelli verdi e che oggi quasi ad ogni tweed dispiega tratti da Jocker e che non si stupirebbe se si presentasse vestito di viola scuro.
Intanto come nota Vitiello Joker non ride, usa la risata per uccidere certo, ma lui di per sé al massimo ghigna e il suo perenne sorriso è un taglio o autoinflitto o frutto di sevizie o operazioni finite male a seconda delle leggende sulle origini del Joker stesso. Anche Trump non ride mai se ci fate caso, ghigna, al più sorride ma non lo si vede mai ridere di gusto.
Tuttavia quello di Vitiello non è un libro su Trump, anzi. È un libro che, come ci ha ben abituato l’autore, mette insieme fili invisibili, spaziando dai fumetti, al cinema, dall’antropologia alla letteratura e al teatro. Vitiello ripercorre le origini del Joker e degli archetipi che hanno prodotto il personaggio dei fumetti cercandone radici nel cinema espressionista tedesco a sua volta debitore diretto di Victor Hugo. Collega la stand up comedian con i giullari di corte soprattutto del mondo anglosassone, con le ricerche etnografiche e antropologiche sul riso e il suo collegamento con il mostrare i denti.
Il Joker raccontato nel libro ha assunto sempre più, soprattutto nelle incarnazioni cinematografiche nei Batman di Nolan o nel film a lui dedicato di Todd Phillips, la figura di un miscuglio tra il comico senza successo e il terrorista nichilista divenendo l’incarnazione perfetta tra comicità e distruzione.
Il passaggio dalla fiction alla realtà si realizza facendo diventare la comicità un’arma (talvolta viene da pensare la principale arma) nella lotta politica delle nostre democrazie. Sempre più spesso leader, populisti o no, di destra e di sinistra, adottano stili da comici, utilizzano la battuta, lo scherno come atto politico, con l’efficacia di un decreto esecutivo. Il confine tra motto di spirito e insulto si assottiglia, sulla falsa riga della comicità caustica dei migliori stand up comedian. Il risultato per citare Vitiello stesso è l’«apoteosi odierna, in cui il Re e il Buffone si divertono a cambiarsi di posto, affollando il pianeta di presidenti che si comportano da clown e clown che si candidano a presidenti». E vengono eletti, aggiungiamo noi.
Il tempo dei Joker, il tempo in cui viviamo, è dunque il tempo in cui il Carnevale è morto, o meglio in cui la morte rituale del Carnevale, attraverso la Quaresima non presuppone una rinascita l’anno successivo. Il Carnevale e la Quaresima si confondono non trovando soluzione di continuità, la funzione catartica del rovesciamento del senso viene meno con la morte degli Dei. La secolarizzazione comporta questo prezzo, sembra ammonirci Joker.
Vitiello poi si spinge anche a trovare un’origine istintiva del legame tra riso e aggressività, suggerendo come la risata possa avere origini in comportamenti aggressivi, come mostrare i denti, e come questo aspetto sia stato rimosso nella nostra società ossessionata dal divertimento e dissezionata dalla rete e dai social network, dove la risata decontestualizzata e isolata torna a spaventare come il clown malvagio di It.
Non spaventi però l’erudizione e la molteplicità di fonti che l’autore mette a disposizione anche in una bibliografia amplissima ma posta in forma di suggerimento e riflessione, perché Vitiello come sempre è capace e agile, discorsivo e mai saccente.
In sintesi quello di Vitiello è uno scorcio, il sorriso del Gatto del Cheshire, per rimanere ad uno dei punti affrontato nel libro, che illumina il nostro tempo, ci fornisce una chiave di lettura inedita e che non avremmo saputo da soli intravedere e che invece al termine della lettura ci appare quasi inevitabile.
Guido Vitiello, Joker scatenato. Il lato oscuro della comicità. Feltrinelli, 2025.
«Ma che storia triste, avevo aspettative basse» canta Willie Peyote e va detto che pure noi rispetto alla seconda presidenza Trump non ci aspettavamo molto, anche se quello che avviene in queste settimane appare ben peggio delle nostre già basse aspettative.
Tuttavia il fenomeno Trump aveva già dato modo di farci immaginare che questa volta sarebbe stato ben peggio di quanto avevamo visto nella sua precedente presidenza e nelle tre campagne elettorali presidenziali da lui sostenute. Segni che già il bel volume di Andrew Marantz, Antisocial (Viking 2019, non tradotto in Italia) metteva in evidenza nella prima campagna elettorale presidenziale vinta da Trump insieme alla presa d’atto della fine del sogno dell’internet liberale e libertario.
Questi sospetti su Trump, potevano facilmente venire seguendo la sua comunicazione ed in particolare quella social dell’immobiliarista americano. Almeno questa è una delle linee di lettura che si possono individuare in “Come parla un populista”, agile libello pubblicato da David Allegranti che ripercorre la comunicazione di Trump e il ruolo dei media nel diffonderla o contrastarla fino alla campagna elettorale del 2024.
Certo né il libro né l’autore, per quanto sagace, potevano immaginare il video orribile e inquietante su Gaza o l’agguato in diretta tv e social a Zelenskyy nello studio ovale. Tuttavia la comunicazione di Trump, inteso nel libro come Populista in chief, è sempre stata dirompente, violenta e insultante.
Il libro dunque è un agile strumento (l’autore precisa con ironia che non si tratta di un manuale) per capire la comunicazione di Trump ma più in generale la comunicazione dei populisti o, per meglio dire, la comunicazione populista. Infatti nel primo capitolo del libro, quello appunto dedicato ai populisti e al loro modo di comunicare, Allegranti dimostra, esempi alla mano, che quel tipo di comunicazione è appannaggio anche di politici non prettamente populisti o demagoghi. Con effetti dirompenti per loro stessi ma soprattutto per la conquista, si direbbe egemonica, di quel tipo di linguaggio nella comunicazione politica, ma ci sia permesso di aggiungere, non solo in quella.
Allegranti non si spinge ad affermare che questa sia stata l’unica risposta che i ceti dirigenti abbiano messo in campo alla loro delegittimazione ma in parte ciò è intuibile. Di più verrebbe da pensare: alla spinta alla disintermediazione, allo svilimento prima simbolico e poi pratico dei corpi intermedi, che veniva in prima istanza dal mondo economico (i lacci e lacciuoli all’impresa di berlusconiniana memoria) le classi politiche dell’occidente hanno risposto entusiasticamente preparando il terreno al populismo dal basso (come i 5 stelle da noi) e quello dall’alto dei magnati che si fanno capopopolo, finendo per far la figura dei tacchini che festeggiano il giorno del ringraziamento.
Trump quindi come continuità di un fenomeno oramai trentennale nato nel dopo guerra fredda, ma anche anomalia nella sua potenza di fuoco e negli esiti imprevedibili e potenzialmente devastanti.
È questa la seconda parte del libro quella in cui analizzando la comunicazione di Trump su Twitter, ora X, Allegranti mostra come il Presidente americano prenda la comunicazione populista e la ingigantisca all’ennesima potenza: uso della menzogna, o post verità, sistematico e non giustificato, insulto come modo di rapportarsi a nemici interni e esterni e uso del tweet come atto politico con conseguenze dirette. Un excutive order di 140 caratteri.
Ed è quella della brevità e della fretta comunicativa, unita a una sovrapproduzione di contenuti, un altro elemento che i populisti, e Trump in particolare, hanno colto come elemento determinante sui social. In altre parole il media social è perfetto per dire balle, farle passare in cavalleria sommergendo il ricevente di mille altre notizie e insultare. Già perché la rissa, anche verbale, non ha bisogno di complessità, di argomenti. L’insulto è il claim più efficace che esista.
Infine l’ultima parte del libro è una riflessione che l’autore, oramai giornalista di lunga esperienza, pone ai colleghi dei media mainstream. Una riflessione su come raccontare Trump e il populismo e così facendo sopravvivere alla crisi di credibilità e stima che colpisce la stampa tanto quanto la politica.
Forse questa ultima parte è quella più interessante del libro, anche perché più personale e seppur Allegranti abbia l’accortezza e l’intelligenza di non spiegarci “che fare?”, ha in sé elementi di salutare dubbio e possibili proposte.
Forse, se ci è permesso interloquire con l’autore, manca un passaggio tra la prima e la terza parte, il prendere coscienza che la crisi della politica e la crisi del giornalismo sono parte di una più generale crisi delle elites. L’occidente, la democrazia come la conosciamo in questa parte di mondo, sono il frutto storico, in larga parte, della borghesia e delle sue lotte (intese come conquiste e resistenze ai nemici), economiche sociali e politiche, pensare che l’attacco sia soltanto a parte di esse è forse l’errore più grande che abbiamo di fronte. Non si tratta di rispolverare il concetto di lotta di classe ma di capire che l’attacco, interno ed esterno, al nostro sistema economico, sociale e politico, non è un attacco separato alla nostra società, alle nostre istituzioni e alle nostre economie ma un’unica messa in discussione di una storia e di una costruzione storica che, almeno dal 1789, sembrava inarrestabile.
David Allegranti, Come parla un populista. Donald Trump i social media e i fatti alternativi, Mimesis, 2024.
Sono andato a vedere la mostra di Massimo Listri – Firenze Kyiv andata e ritorno (Sala d’arme di Palazzo Vecchio fino all’8 marzo) – mentre leggevo Diario di un’invasione di Andrei Kurkov (Keller editore) e l’effetto stereofonico di immagini e libro mi è rimbombato dentro in modo nettissimo.
Partiamo dalla mostra. Listri ha fotografato Kyev in guerra ma le immagini che troverete visitando la mostra sono ben diverse da quelle che potreste aspettarvi da un teatro bellico. Listri fotografa bellezze, artistiche e architettoniche. Le sue sono immagini colorate, che riportano il gusto un bel po’ barocco dell’architettura pubblica presovietica, delle chieste ortodosse. Ma anche il brutalismo sovietico, come nel caso della biblioteca nazionale di Kiev, abbellito da una pittura muraria anch’essa coloratissima al pari delle vetrate delle cattedrali. Qua e là, nelle foto, la guerra però appare. Sotto forma di sacchi di sabbia, per esempio, nella foto della scala d’onore del palazzo presidenziale.
Ai miei occhi Listri fotografa quello che non vorremmo perdere, quello che stiamo difendendo e che dovremmo difendere. Un punto di vista capovolto rispetto alle di distruzione, sventramento e tragedia che siamo soliti associare alle foto scattate in zone di conflitto. Non il bello che ci salverà ma quello da salvare. L’effetto è amplificato (come le videoproiezioni immense alle pareti della Sala d’Arme) dal luogo in cui siamo. Lo nota mio figlio. Il contrasto dei palazzi del potere ucraini minacciati e il luogo del “potere” della mia città, che non avrei mai immaginato, fino a due anni fa, potesse essere minacciato da una guerra; mentre oggi il pensiero, con annesso brivido, mi prende.
Veniamo quindi al libro. Sono le note che lo scrittore ucraino, di doppio passaporto inglese, ha redatto appena prima e subito dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022. Note in cui la guerra, prima minacciata, poi reale, irrompe in una quotidianità così simile alla nostra: la polemica, proprio nel febbraio del 2022, sulla riforma dei menù delle mense scolastiche, mentre centinaia di migliaia di russi incombono alle frontiere; i gruppi facebook sulla birra che arriva nella bottega del Paese, dove l’autore ha una casa di campagna, mentre lui è sfollato al confine occidentale del Paese e i razzi russi devastano larga parte della nazione.
Come si può vivere sotto un’invasione, con le bombe che fischiano, con la paura per sé e per i suoi cari. Come possiamo immaginare, anche qui, l’inimmaginabile per noi almeno fino a quel febbraio di 2 anni fa.
Ma anche domandarsi come si farà a ridurre tutto l’odio che da allora si è creato, cosa potrà essere, quando sarà, la pace.
La guerra in Ucraina, non è più speciale o più importante di altre, ma forse è la più “trasferibile” per noi (di sicuro per me), per la similitudine di luoghi e situazioni. Questo dovrebbe forse spingerci a capire il senso di minaccia che si porta dietro e il senso di un impegno a difesa di Kyiv da un lato e dall’altro lato, dovrebbe consentirci di trasportare questa urgenza anche sugli altri conflitti in corso, a partire da quello mediorientale, per annullare, almeno, l’indifferenza.
Come ogni anno gli auguri per l’anno nuovo li faccio con i libri che più mi hanno segnato nell’anno che sta per finire. Come sempre un’opera di narrativa ed un saggio, tra i numerosi libri letti per piacere e per CulturaCommestibile. Va detto che per il 2023 è stato molto difficile scegliere ma alla fine ha prevalso il cuore per Martin Amis e il suo libro testamento, e il cuore per un saggio storico, ahimè non tradotto in Italiano, sulla solidarietà, il mutuo soccorso del primo movimento operaio.
Il futuro si diceva una volta ha radici antiche e, aggiungo io, per affrontarlo serve un po’ di cattiveria alla Amis. In ogni caso vi auguro un 2024 da passare insieme a chi vi vuol bene e in compagnia di ottimi libri, ottima musica e begli spettacoli.
En attendant, toujours, la prochaine révolution, qui di seguito le recensioni ai due volumi uscite sulla rivista.
L’ultimo applauso per Martin Amis
Dovessi definire La storia da dentro, ultimo romanzo di memorie di Martin Amis, uscito nell’edizione italiana Einaudi appena tre giorni dopo la notizia della scomparsa dell’autore, direi che si tratta di un libro di fantasmi.
Certo non siamo di fronte a quelle ghost stories che raccoglievano le edizioni Oxford e una cui vecchia edizione campeggia fiera nella mia libreria. Quello di Amis è una autobiografia attraverso la perdita di alcuni amici e autori che hanno accompagnato la sua vita. Persone che nel libro diventano fantasmi perché l’autore ne racconta il percorso verso la morte: il poeta Larkin, il saggista Hitchens e il romanziere Bellow.
Amis indaga il rapporto con il decadimento, fisico per Larkin e Hitchens, mentale per Bellow. Impossibile non pensare che mentre scrive quelle pagine sta anche egli affrontando quel destino, peraltro anche lui come Larkin e Hitchens, scomparirà per un tumore all’esofago.
Figure paterne quelle di Larkin e Bellow, amicale (nel senso emblematico dell’amicizia) quella Hitchens. Larkin è il padre per contrasto al padre reale Kingsley. Uno poeta, l’altro romanziere. Uno impacciato, misogino attorniato da poche donne prepotenti, l’altro istrionico, grande conquistatore, infedele seriale, sempre insieme a donne bellissime. Bellow è invece il padre supplente, quello che forse non solo letterariamente Amis avrebbe voluto (affiancato all’altro fantasma che aleggia nel libro, quello di Nabokov), un modello letterario ma anche umano, a cui alla morte dell’ingombrante genitore naturale, confessa il bisogno di considerarlo padre eriditario.
Infine Hitchens l’amico geniale. Il compagno di sbornie, il fratello scelto. Quell’alchimia che solo chi ha avuto in sorte di trovare un amico così, comprende. L’amico che pensi di avere sempre al tuo fianco e che non ti capaciti, non vuoi credere, che perderai presto.
Sono pagine struggenti. Dolorose. Non fatico ad ammettere che più volte ho dovuto interrompere la lettura perché mi faceva male quello che trovavo sulla pagina, per poi tornare avidamente con il bisogno di avere ancora e ancora pagine scritte in quel modo bellissimo e affilato che era una delle cifre dell’autore. Eppure non c’è mai pietismo, mai retorica. Amis rimane il cattivo di sempre, il cinico spietato che abbiamo sempre amato, ma in questo romanzo autobiografico la gravità supera la maestria anche se quest’ultima rimane ai livelli altissimi di sempre.
Tuttavia i fantasmi del libro non sono solo quelli che scompaiono fisicamente, sono una vecchia fiamma o ossessione, personaggio di fantasia che racchiude le donne del passato o forse più correttamente la dissolutezza dell’autore. La madre, bellissima e forse fedifraga, contrappunto non solo del “pesantissimo” padre (al cui rapporto dedica l’altro romanzo autobiografico Esperienza del 2000) ma anche del poeta Larkin, e ancora di più la matrigna Elizabeth Jane Howard che Amis riconosce come la vera dante causa del suo essere scrittore. C’è anche un tentativo di riconciliarsi con lei, il dimostrarle riconoscenza e devozione, persino amore, il chiederle perdono per la sua, infantile, reazione all’abbandono da parte di lei del padre.
Solo le mogli e i figli in questo libro paiono non essere fantasmi. La seconda moglie di Amis, Isabel Fonseca e la moglie di Hitchens Carol Blue, personaggi destinati a salvarsi rispetto ai loro sposi. Presenze “normali”, numi tutelari, figure quasi senza macchia come mai se ne trovano nei romanzi di Amis. Testimoni dell’amore, quello che dimostrano e quello che i loro compagni testimoniano nonostante tutto. Di fronte a queste figure le maschere dei cinici due amici, tornano quelle di due imbranati qualunque, di due uomini normali con le loro paure e le loro incertezze.
Infine, come poteva essere altrimenti, la vita da dentro è anche un libro sulla scrittura, sulla tecnica, sull’uso della lingua, sull’essere intellettuali, impegnati, schierati. Quasi un manuale per lo scrittore, nella pagina ma anche nelle note (che sono a loro volta un romanzo nel romanzo), ma forse ancor di più un manuale per il lettore. Una guida consapevole del valore degli esempi citati, Bellow e Nobokov su tutti, ma anche dei propri mezzi. Amis sa, o almeno afferma sapere, della sua bravura, della sua tecnica eccellente. Non la nasconde, come l’attore che consapevole della sua bravura, mette una pausa giusto per aspettare l’applauso.
Amis probabilmente era consapevole che quello che gli avrebbe tributato il suo fedelissimo pubblico, sarebbe stato l’ultimo applauso; nel nostro caso l’applauso è arrivato, per pochi giorni postumo, ma ciò non toglie che si meritasse, non solo per questo libro, un’ovazione.
Martin Amis, La storia da dentro, Einaudi, 2023. Traduzione di Gaspare Bona.
Proletari di tutto il mondo aiutatevi tra di voi!
C’è stato un tempo in cui la classe operaia non si opponeva alla globalizzazione ma pensava di poterla sfruttare per il suo riscatto, per avere migliori condizioni di vita e di lavoro e per sviluppare la solidarietà di classe oltre le frontiere delle nazioni.
Si muove da questa premessa l’opera di Nicolas Delalande La Lutte et L’Entraide (la Lotta e il mutuo soccorso) che ha per tema la solidarietà operaia ai tempi delle due prime Internazionali fino al primo conflitto mondiale con una breve escursione finale fino agli anni 70 del novecento.
Fondata nel 1864 l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (poi passata alla storia come prima Internazionale) aveva per scopo quello di unificare il neonato movimento operaio aldilà delle frontiere nazionali. Le successive tensioni tra anarchici e socialisti la faranno poi scomparire negli anni ’70 dell’ottocento per poi rinascere come Seconda internazionale (questa volta soltanto socialista) nel decennio successivo.
Uno degli obiettivi delle due organizzazioni era per l’appunto, la solidarietà operaia che Delalande in questo libro ci fa scoprire attraverso non tanto i proclami e i grandi discorsi ma le azioni pratiche, dalla raccolta fondi, la gestione delle sottoscrizioni, gli scandali. Scopriamo così come si esercitava in concreto quella solidarietà, quali limiti (taluni ideali, talaltri molti pratici) erano posti nell’inviare denaro, nel decidere, in base anche alla possibilità di riuscita, quali scioperi erano da assistere e quali invece non meritavano il supporto. Uno studio che mostra anche i rapporti di forza nella prima Internazionale tra i potenti sindacati inglesi e le organizzazioni più movimentiste (ma anche molto più povere) del continente, per poi raccontare il progressivo dispiegarsi anche economico dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi al tempo della seconda internazionale.
Un lavoro minuzioso che segue il corso del denaro raccolto dai lavoratori, donato ma molto più spesso prestato (poiché il prestito impone una responsabilizzazione del ricevente), in occasioni di scioperi, manifestazioni e serrate padronali. Un sforzo mondiale che vede coinvolto non solo il continente europeo ma anche le organizzazioni nordamericane e australiane.
Naturalmente il volume mostra anche come le divisioni, tra socialisti e anarchici, tra sindacati di mestiere e organizzazioni orizzontali dei lavoratori, influiranno non soltanto sull’elaborazione teorica del movimento operaio ma avranno ricadute concrete sulla vita degli operai in lotta e sulle loro famiglie che, in occasione degli scioperi, potevano contare soltanto sugli aiuti internazionali o, laddove sviluppate, sulle prime cooperative operaie.
Analogo destino, di aiuto ma anche di diffidenza e contrasto, sarà riservato anche agli esuli della Comune parigina, prima oggetto dell’aiuto indiscriminato, per poi diventare, in alcuni casi e in particolare per alcuni sindacati inglesi, un peso o comunque “poco riconoscenti” visto che non modificavano le loro posizioni per renderle più vicine ai modi di lotta dei loro benefattori.
Un libro decisamente originale nel suo campo di ricerca che mette in luce certo le contraddizioni del movimento operaio, ma contemporaneamente dimostra la sua “potenza” e capacità di stare nelle dinamiche economiche dell’epoca provando a piegarle a proprio favore invece che di opporsi sterilmente ad esse.
Nicolas Delalande, La Lutte et l’Entraide. L’age des solidarités ouvrières, Seuil, 2019.
Come Carrère ha saputo scomparire per raccontare il processo degli attentati di Parigi.
Non ho il culto di Emmanuel Carrère ma V13 era un libro, per me, imperdibile. La sera del 13 novembre 2015 senza alcun motivo particolare misi come foto di copertina di Facebook una foto dei tetti di Parigi. Dopo alcune ore fui sommerso di chiamate e messaggi che mi chiedevano se fossi nella capitale francese e se stessi bene. Era in atto uno dei più efferati attentati avvenuti in Europa. Più di cento persone, in prevalenza giovani, morivano e molti di più venivano feriti, sotto i colpi di Kalashnikov o dai bulloni delle cinture esplosive dei terroristi dell’ISIS. Tutto questo mentre stavano guardando una partita, sorseggiando un cocktail in un bistrot o partecipando ad un concerto al Bataclan. Molti di loro avevano l’età che avevo io quando a Parigi ho abitato per circa un anno. Quelle chiamate di quella sera, quelle immagini, quei luoghi familiari, mi colpirono profondamente. A ripensarci sono scosso anche oggi e riesco ad ammettere a qualcuno solo ora che per lungo tempo quando mi trovavo in una sala cinematografica o in un teatro, mi sorprendevo a fissare la porta temendo un’irruzione di un commando; talvolta, i primi tempi, non mi era facile concentrarmi su quello che accadeva sul palco. Reazioni probabilmente esagerate, lo ammetto, ma c’erano e dovevo farci i conti.
Quando poi nel settembre 2022 è iniziato il processo ho letto e raccolto in una cartella del mio PC tutte le cronache del processo ai “resti” del commando omicida. Non ho letto quelle che Carrère ha fatto, settimanalmente, sul Nouvel Observateur e pubblicate in Italia da Repubblica, ma quelle puntuali, precise, talvolta algide, degli inviati di Le Monde. Le Monde è uno dei pochi giornali del pomeriggio rimasti. Esce a metà del giorno, è una lettura serale, poca cronaca, molti pensieri. Quelle cronache hanno, inevitabilmente, fatto da contrappunto, da paragone, al libro di Carrère. Ne hanno smascherato, a me, un grande pregio: l’assenza dell’autore.
Non è facile per nessuno in fatti del genere, come dimostra il presuntuoso inizio di questo mio pezzo, mettere distanza tra il racconto di un fatto e come quel fatto, così determinante, ha influito sulla propria esistenza. Carrère in realtà nel libro, e nel racconto dei fatti, ci entra, progressivamente, pudicamente. Mai o quasi quando a parlare sono le vittime, parzialmente quando tocca agli imputati, largamente quando è la comunità della legge la protagonista. L’autore riprende il suo ruolo alla fine, quando le persone non rappresentano sé stesse ma quell’insieme di norme comuni che ci definiscono come comunità, come democrazia. Quando lui (e noi con lui) ci convinciamo che aldilà delle responsabilità politiche del nostro essere occidentali, il nostro sistema democratico e liberale, il nostro amministrare la giustizia in nome della legge e non della vendetta ci renda migliori, sì migliori, dei terroristi. Pur descrivendoli e giudicandoli senza pietismo sociologico ma con umana empatia.
Era poi questo forse il senso di un processo i cui esiti (seppur non siano mancate polemiche) erano previsti e prevedibili, e che riguardava figure di “contorno” rispetto agli autori materiali della strage (tutti deceduti negli assalti o in scontri a fuoco con la polizia). Non era un processo riparativo, non era un processo “per la storia”, era un processo per il diritto, quella somma astrazione che dalla Francia dei lumi rappresenta il terzo pilastro del nostro essere cittadini e non sudditi.
Carrère però ci dimostra tutto questo vivificando questa astrazione attraverso gli uomini e le donne che a quel processo danno vita. Il diritto incarnato se l’espressione non appare troppo blasfema rispetto ai corpi dilaniati, alle ferite materiali e psichiche ai brandelli dei deceduti e dei sopravvissuti. Il libro riesce quindi a dare voce, corpo, sostanza, alle procedure; non indaga nei pruriti che tanto affascinano quelli che seguono la cronaca nera. Non c’è voyeurismo, ma pietà vera che dimostra come l’applicazione della Legge non è affare da iniziati ma materia viva, come la verdura che si compra al mercato.
Si diceva del lavoro “in levare” di Carrère. Il raffronto con le cronache di le Monde mi è servito anche per un’altra osservazione, che all’inizio consideravo un difetto del libro ma che poi, ripensandoci, ne rappresenta un grande pregio. Molte delle frasi che suscitano effetto, emotivamente laceranti, che siano le vittime o i loro familiari oppure gli imputati (soprattutto quelli finiti in quella brutta storia forse più per caso che per scelta) a pronunciarle, sono nel libro identiche, al netto della mia traduzione, a quelle riportate nelle cronache del quotidiano. Segno che l’emotività era già presente e il cronista, come lo scrittore, avevano solo il compito di trovarle e riportarle. Non serviva altro, Carrère nonostante non sia l’autore con meno ego che imprima parole sulla pagina, con grande intelligenza lo capisce e confeziona un libro asciutto, doloroso, non scontato. Per questo davvero bello.
Da un piccolo libriccino appena apparso da Adelphi – dal nome non originalissimo di Lost in translation – apprendiamo che Ottavio Fatica si sta cimentando con la traduzione italiana dell’inedito di Céline Guerra.
Il libro uscito lo scorso anno per Gallimard in Francia e subito divenuto un successo di vendite, oltre che per il suo contenuto è forse più interessante per la storia che sta dietro il suo manoscritto perduto e poi misteriosamente riapparso.
Quel manoscritto, insieme ad altri andati (si pensava per sempre) perduti, ossessionarono Céline fino alla sua morte avvenuta nel 1961. Secondo il discusso autore i manoscritti sarebbero erano stati trafugati dalla sua casa di Montmartre dai partigiani nel 1944 quando lui la dovette abbandonare.
Va detto che quello di Céline non fu un viaggio di piacere, in quanto la sua partenza dalla capitale francese era dovuta alla legittima paura di fare una brutta fine visto il suo ruolo di collaborazionista durante il regime di Vichy.
Da quel giorno Céline non smetterà mai di dolersi di quel “furto”, sia in pubblico ma soprattutto nelle lettere che scriveva, continuamente, a amici e colleghi.
Gli epuratori, come li definiva Céline, gli avevano portato via tutto ma soprattutto lamentava, per esempio in una lettere a Pierre Monnier nel 1950, la perdita del manoscritto di 600 pagine di Casse-Pipe il romanzo che doveva completare la trilogia di Voyage au bout del la nuit e Mort à crédit.
Queste lettere Céline le inviava, va sempre ricordato, dal suo autoesilio danese in cui si era rifugiato per scappare alla prigione in Francia. Perché se è indubbio il valore letterario di questo autore non si possono non ricordare i vergognosi pamphlet antisemiti pubblicati ben prima dell’occupazione nazista della Francia (Bagatelles puor un massacre – 1937, L’Ecole des cadavres – 1938).
Tuttavia aldilà delle lamentele dell’autore da allora dei manoscritti non si ebbe più traccia e tutti, più o meno, li considerarono perduti, gettati da un qualche Maquis o da qualche topo d’appartamento, con lo scopo di punire l’autore amico dei nazisti o perché considerati di scarso valore rispetto agli altri beni “requisiti” nell’appartamento parigino.
Questo fino al 2019 quando alla veneranda età di 107 anni è deceduta Lucette Destouches, ex ballerina e vedova dello scrittore. Passano infatti pochi mesi dalla scomparsa della donna che un uomo prende contatto, discretamente e un po’ misteriosamente, con un avvocato parigino noto per essere specializzato in diritti d’autore e casi legati a case editrici.
L’uomo misterioso si scoprirà essere Jean-Pierre Thibaudat, giornalista e critico teatrale, figlio di resistenti, per anni nella redazione del quotidiano di sinistra Libération, fino al suo pensionamento nel 2006.
Nella sua lunga carriera Thibaudat si è segnalato per numerose opere sul teatro, recensioni di libri e spettacoli ma non è considerato come un esperto, né un appassionato, di Céline. Eppure quest’uomo, come scoprirà l’avvocato Pierrat, può essere considerato l’uomo più importante per la storia e lo studio di Céline al mondo.
Quello che si porterà nello studio dell’avvocato parigino il giornalista sono infatti i manoscritti trafugati del 1944 che per decine di anni egli ha conservato senza fare parola alcuna, senza mai provare a venderli, pubblicarli o altro.
Ma come ne era venuto in possesso? In un’intervista apparsa su Le Monde il 6 agosto 2021 Thibaudat racconta la sua versione e cioè che un giorno un lettore di Libération si era presentato da lui con dei voluminosi sacchetti contenenti i manoscritti di Céline e che li consegnava a lui ad un’unica condizione: di non renderli pubblici fino alla morte della vedova dello scrittore. La motivazione di tale vincolo sarebbe stata quella di non arricchire ulteriormente la vedova di un fascista.
Quale che sia la veridicità di tale racconto – sulla quale da subito si sollevarono molti dubbi – vero è che fino al decesso della vedova il giornalista ha mantenuto la propria parola e ha conservato nel massimo riserbo un tale tesoro.
Va detto che Thibaudat si è rivelato un detentore di segreti degno della migliore spia se come dice lui ha tenuto questi manoscritti dalla fine degli anni ’80 e non ha mai, fatto il nome del “donatore”. Tuttavia in tutti questi anni non ha mancato di guardare, leggere e classificare quello che lui stesso descrive come circa “un metro cubo di fogli”.
Tra questi tesori le 600 pagine di Casse-pipe, un romanzo inedito intitolato Londres, 1000 fogli di Mort à credit e decine e decine di altri scritti e documenti. Un vero tesoro.
Quando questo tesoro finisce nelle mani dell’avvocato Pierrat, questo contatta immediatamente i detentori dei diritti dello scrittore. Da una parte l’avvocato François GIbault, all’epoca ottantanovenne, autore della monumentale biografia di Céline e dall’altra Véronique Chovin, “dama di compagnia” della vedova dell’autore.
I tre, sotto gli auspici del legale, si incontrano nello studio Pierrat in Boulevard Raspail Parigi, una prima volta l’11 giugno 2020 e qui nascono i primi problemi. L’anziano Gibault vorrebbe far pubblicare i manoscritti a Gallimard e, immaginiamo, godere della ricca commissione che l’editore sicuramente concederà, Thibaudat vorrebbe invece donare gratuitamente i fogli all’Institut mémoires de l’édition contemporaine (IMEC) che già conservava un corposo fondo Céline.
Ancora una volta la figura di Thibaudat emerge in questa vicenda come un “eroe” singolare soprattutto se si pensa che, come dice lui sempre nell’intervista a Le Monde, “mai per un secondo ho pensato di venderli” anche se, secondo gli esperti, il valore di tali carte potrebbe superare il milione di Euro.
Dall’incontro del giugno parigino nasce naturalmente una causa legale. Da una parte gli eredi che ritengono i fogli come “la refurtiva” sottratta a Céline nel 1944, dall’altra il detentore dei fogli che vorrebbe “solo” donarli alla ricerca e allo studio.
Il tribunale di Parigi, per dirimere la questione, non può che cercare di capire cosa successe ai manoscritti a partire da quel giorno del giugno 1944 in cui “sparirono” dalla casa, ormai vuota, al quinto piano di un edificio di Rue Girardon quartiere di Montmartre, Parigi.
Per i partigiani trovare casa Céline non fu difficile. Durante tutta l’occupazione lo scrittore fu tutt’altro che discreto. Ripubblicò i suoi libri antisemiti, frequentava l’ambasciata tedesca nella Parigi occupata e non perdeva occasione per dirsi amico dei nazisti. Insomma aveva buoni motivi, una volta sbarcati gli alleati sul suolo francese, di pensare che non avrebbe avuto molti amici una volta liberata la città.
Per questo subito dopo lo sbarco angloamericano fuggì, insieme alla moglie, in Germania e poi in Danimarca dove, previdente, aveva già trasferito una piccola fortuna in oro per vivere “tranquillo”. Prima di fuggire con documenti falsi, per lui e la moglie, e con un lasciapassare fornitogli dagli amici nazisti fece però in tempo a passare dalla filiale del Crédit Lyonnais e ritirare gli ultimi lingotti d’oro lì custoditi. A quel tempo i manoscritti non gli sembrarono così necessari come l’oro ,anche se ne consegnò una parte alla segretaria, la fedele Marie Canavaggia, e ne vendette uno, quello del Voyage, pochi giorni prima di partire per 10.000 franchi e un piccolo Renoir.
Gli altri pensò che fosse sufficiente lasciarli sopra un armadio di casa sua e poi fuggì portando con sé, oltre l’oro, il loro gatto Bèbert. Dal viaggio e dall’incontro con il Maresciallo Pétain a Sigmaringen scriverà in D’un château l’autre.
Mentre Céline fugge, Parigi viene liberata, De Gaulle entra trionfante in città e le forze della Francia libera installano il loro quartier generale nella brasserie Junot a pochi passi da casa Céline.
Si può datare con una certa sicurezza, così ha ricostruito l’inchiesta della magistratura parigina, che la “perquisizione” dell’appartamento dello scrittore avvenne tra il 25 e il 30 agosto del 1944. Impossibile però risalire con precisione a chi effettuò l’irruzione.
Céline però non aveva dubbi. Fu sempre convinto che l’autore del furto fosse Oscar Rosembly, ebreo corso e partigiano. A lui sarà ispirato il personaggio del “juif Alexandre” nella prima versione di Féerie pour une autre fois.
Céline e Rosembly si conoscevano, seppur non particolarmente bene. Prima della guerra Rosembly era stato giornalista e collaboratore del ministro del Fronte Popolare Camille Chautemps, poi durante l’occupazione si nasconderà (a causa della sua lontana origine ebraica) presso il pittore Gen Paul che Céline frequentava.
Ma Rosembly era anche un resistente e come tale probabilmente incaricato, per la sua conoscenza di persone e luoghi, delle perquisizioni nel quartiere di Montmartre. Perquisizioni nelle quali però il maquis si approfittò del suo ruolo per “farsi giustizia da solo”, sottraendo dalle case dei collaboratori beni e preziosi. Verrà infatti arrestato e tradotto nel carcere di Fresnes in quell’estate del 1944.
Uscito di prigione si imbarcherà su un piroscafo diretto negli Stati Uniti e di lui si perderanno le tracce fino alla scomparsa nel 1990.
Improbabile che possa essere lui il misterioso lettore che consegnerà i manoscritti a Thibaudat molti anni dopo, anche se avrebbe potuto consegnarli ad un amico o un parente che li avrebbe conservati per lui.
Un’altra pista porta invece a Yvon Morandat, eroe della Resistenza (a lui è ispirato il personaggio di Jean Paul Belmondo in Parigi brucia?), amico di Jean Moulin che nel settembre del 1944 requisì l’appartamento di Céline e nel quale vivrà per alcuni anni. Céline fu sempre convinto che Morandat sapesse molto di più sulla fine dei suoi manoscritti e, infatti, rifiutò di incontrarlo nel 1951 quando amnistiato fece ritorno in Francia. Morandat voleva restituire alcuni manoscritti e dei mobili di rue Girardon ma lo scrittore li rifiutò perché i fogli erano “troppo pochi” e il donatore si rifiutava, secondo lui, di rendere il resto dei testi o almeno di dire la verità sulla loro fine.
Neanche il processo intentato nel 2020, però sarà di aiuto a sciogliere il mistero. Interrogato dai gendarmi dell’Office central de lutte contro le trafic de biens culturels (OCBC), il giornalista Thibaudat si rifiuterà di fare il nome del donatore invocando il segreto rispetto alle fonti, sacro per ogni giornalista. Tuttavia, per dimostrare la sua buonafede, in occasione dell’interrogatorio consegnerà tutti i documenti in suo possesso agli agenti, esterrefatti, che impiegheranno diverse ore per stendere il verbale di sequestro.
A quel punto, dopo un breve soggiorno cautelare presso la Bibliothèque nationale de France (BNF), la procura di Parigi ordinerà che i fogli siano consegnati ai legittimi eredi dello scrittore, i quali dopo aver donato alla BNF il manoscritto di Mort à crédit, in modo da regolare le “pesanti” tasse di successione di tale eredità si accorderanno, immaginiamo sontuosamente, con l’editore Gallimard per la pubblicazione delle opere di cui Guerre nel 2022 è il primo volume uscito.
Anche il Tribunale di Parigi si arrenderà e il 21 settembre 2020 archivierà l’inchiesta sul furto dei manoscritti non essendo riuscito a recuperare sufficienti indizi circa la colpevolezza di alcuno dei soggetti indagati.
Misterioso dunque l’autore del furto così come quello del donatore dei manoscritti al giornalista di Libération. Di lui sappiamo solo, grazie ad un’altra intervista a Thibaudat apparsa su Le Monde il 20 novembre 2020, che all’epoca della consegna, alla fine degli anni ’80, aveva approssimativamente un’età tra i 40 e i 50 anni e che dunque, sarebbe stato poco più di un bambino, all’epoca della sparizione. Rimettendo così in campo la pista còrsa di Oscar Rosembly.
Tuttavia le indagini dell’OCBC rispetto agli eredi di Rosembly, a Parigi come a Bastia, non hanno permesso di arrivare a nulla di certo. Per farlo hanno anche messo sotto sorveglianza il telefono del povero Thibaudat non scoprendo però alcun legame tra lui e la famiglia Rosembly.
Mistero irrisolvibile dunque? Purtroppo no, perché neanche Jean Pierre Thibaudat saprà resistere, come Gollum con l’anello del potere, alla mancanza del suo “tesoro”. Così prima sul suo blog e poi, nell’ottobre 2022, ne il volume Louis-Ferdinand Céline, le trésor retrouvé, racconterà la verità sul ritrovamento e sul donatore. Va detto, per rispetto alla figura del giornalista, che egli ha ceduto interamente i diritti di questo libro ad un’associazione che aiuta i minori immigrati non accompagnati, non guadagnando dunque un centesimo in tutta questa vicenda e anzi facendo un ulteriore sberleffo al razzista Céline.
Come ogni verità che si rispetti anche questa non sarà all’altezza della leggenda che l’accompagnava; infatti in un giorno del 1982 rovistando nella cantina di casa, gli eredi di Yvon Morandat trovarono, seminascosta e dimenticata, una cassa in legno contenente i manoscritti che poi decisero di consegnare, con il vincolo della loro conservazione fino alla morte della vedova di Céline, a Thibaudat.
Se gli autori ci sono dunque noti, rimane almeno il dubbio del perché Morandat trafugò i manoscritti se per avidità o, come preferiamo immaginare, per punire per sempre il collaborazionista amico dei nazisti.
Il partito radicale, come dimostra la storia dei suoi eredi negli ultimissimi anni, è stata (inevitabilmente) legata alla biografia del suo esponente più autorevole e ingombrante. La stessa diaspora radicale dopo la scomparsa di Pannella pare dimostrare a posteriori questa tesi ed è oramai impossibile capire (e forse è pure inutile) se l’ultimo Pannella fosse la maschera che celava e impediva la separazione o l’unico artefice di un programma e un destino politico comune. Gianfranco Spadaccia, che fu dirigente radicale e parlamentare per quel partito, ha pubblicato, poco prima della sua scomparsa, quella che ad oggi, a memoria di chi scrive, è l’unica storia “organica” del partito radicale. Un testo che non scade mai nella memorialistica ma non si dimentica mai di dichiarare la sua partigianeria, il punto di vista “interno” e “interessato”.
Anche per questo il libro, pubblicato da Sellerio, è un testo davvero importante, necessario si potrebbe dire, per inserire il percorso radicale non come la biografia di un uomo, per quanto eccezionale, ma come un percorso politico collettivo (seppur non di massa) che trae origine nella goliardia universitaria del dopoguerra, da “il Mondo” di Pannunzio e da quella piccola galassia laica fatta di azionisti, repubblicani e liberali di sinistra.
Un percorso che matura, si trasforma, assorbe come una spugna quello che di nuovo la società italiana fa affiorare.
Un percorso dall’esterno forse incoerente, sicuramente complicato, incredibilmente esteso per modi e interessi, scambiato spesso come protagonismo, eccentricità per attirare attenzione. Cose che pur presenti, nel racconto di Spadaccia riacquistano logica, senso, impegno, forse soltanto poca critica rispetto alle scelte, le battaglie intraprese e a quelle perse. Questo almeno fino alla fine della cosiddetta prima repubblica, quando le scelte radicali, di Pannella in particolare, paiono non chiare, non giuste fino in fondo all’autore. Eppure, radicalmente, in Spadaccia non c’è ripicca, rivincita ma anzi il dubbio che, come spesso gli capitava, Pannella avesse capito prima (e meglio) il tempo in cui viveva e a sbagliarsi fosse Spadaccia e chi scrive con lui.
Quasi pietosamente, Spadaccia si ferma al 2013 evitando di raccontare la fine di Pannella e dell’unità radicale. In fondo non avendo l’autore, dichiaratamente, l’ambizione dello storico riesco a capirlo e, da vecchio frequentatore collaterale dei radicali, anche a me, parafrasando il poeta, piace ricordarli com’erano, pensare che ancora vivono; e magari è proprio così.
Gianfranco Spadaccaia, Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia, Sellerio, 2021.
Il percorso del Partito Comunista Italiano dalla sua nascita a Livorno nel 1921 fino alla sua fine nel 1991 ha sempre rappresentato un unicum di difficile collocazione nella storia del comunismo mondiale. Anche se questa “diversità” è stata fortemente narrata dal gruppo dirigente di quel partito, soprattutto a partire da secondo dopoguerra e nella fase di ricerca del “compromesso storico”, è indubbio che molti caratteri originali abbiano attraversato la storia del PCI.
Questo vale anche (e forse soprattutto) nel campo delle relazioni internazionali ed in particolare nel rapporto con Mosca che Silvio Pons indaga in un bel volume “i comunisti italiani e gli altri”. Il lavoro di Pons parte dalle origini per mostrare i caratteri prima di ammirazione per quello che accade in Russia dal 1917, da parte sia del gruppo torinese dell’Ordine Nuovo di Gramsci e Togliatti, che da quello napoletano di Bordiga; per passare poi agli anni del fascismo, del gruppo dirigente a Mosca che sopravvive meglio di altri esuli, l’esperienza allineata a Mosca della guerra di Spagna e poi il ritorno in Italia dopo il 25 luglio del 1943. A partire da allora le differenze con Mosca si ampliano non tanto nella scelta della svolta di Salerno (processi analoghi di partecipazione dei comunisti ai governi di unità nazionale avvennero infatti anche in Francia e Belgio in ossequio ad una linea decisa e condivisa da Stalin) ma nella costruzione del partito massa a partire dallo statuto uscito dal congresso di Firenze che vedeva cadere la “pregiudiziale” marxista per aderire al PCI. Un modello organizzativo che, per gli italiani, rappresenta anche una garanzia di indipendenza (in potenza anche economica) da Mosca.
Posizioni, quelle italiane, che portarono poi alla reprimenda che Jugoslavi e Polacchi inflissero agli italiani prima di finire, i primi, a rappresentare la maggiore eresia del comunismo europeo. Un’eresia con la quale il PCI non chiuse mai i rapporti ma che anzi usò per affermare la propria autonomia da Mosca e per affermare una propria politica estera nei confronti dei movimenti di liberazione coloniale che si andavano sviluppando.
Certo nel rapporto travagliato tra Botteghe Oscure e Mosca mai si arrivò alla rottura, mai si sconfessò del tutto la patria del socialismo. Anzi si appoggiò convintamente l’invasione Ungherese del ’56, mentre la sconfessione di quella Ceca del 1968 non comportò mai un’abiura del socialismo reale. Anche Berlinguer che fu il più netto a prendere le distanze da Mosca, ipotizzava una terza via tra socialdemocrazia e soviet ma senza sconfessare il valore della rivoluzione. Questa aveva perso la spinta propulsiva ma non era da tutta da buttare e il gruppo dirigente italiano continuava a proporsi non in rottura con l’esperienza russa ma come portatore di un contributo, primariamente intellettuale, alla riforma del socialismo reale. A partire dall’inserimento di processi democratici e del riconoscimento del dissenso.
Un ruolo da guide intellettuali che l’ultima fase sovietica, quella di Gorbacev, riconoscerà al PCI ma che non avrà modo di svilupparsi (ammesso e non concesso che vi fossero spazi di riforma in un tale sistema) per il rapido crollo dello spazio delle democrazie popolari e dell’URSS stessa.
Tutto questo è raccontato nel libro di Pons con rigore e seppur privilegiando il punto di vista degli italiani, senza dimenticare i ritardi, le incoerenze e gli errori che tutti i gruppi dirigenti comunisti nazionali incontrarono. Il quadro che emerge è quello di un’assoluta continuità, almeno dal 1945 in poi, di una certa “furbizia” e di un’alta considerazione della propria elaborazione intellettuale da cui derivava un’alterità che, fino alla deriva morale dell’ultimo Berlinguer, era ancorata ad un disegno politico concreto che fu capace, sul piano interno, di orientare anche la politica estera italiana e di dialogare con i governi democristiani favorendo la politica del paese nel mediterraneo e nel medio oriente.
Infine il PCI fu, a partire da Berlinguer, capace di cambiare idea rispetto alla Comunità economica europea andando oltre la propaganda e la visione critica moscovita, immaginando Bruxelles come uno spazio tra i due blocchi e capace di dialogare con il cosiddetto terzo mondo in modo autonomo rispetto a Washington e Mosca. Un percorso che con l’eurocomunismo, il riconoscimento del valore dell’atlantismo e la fine della spinta propulsiva rende maggiormente coerenza al percorso del compromesso storico e della ricerca della partecipazione al governo del PCI, facendo apparire, aldilà dei giudizi su quell’esperienza, parte di un percorso politico coerente di ricerca di una via democratica al socialismo.
Una via che fu largamente incompleta, non capita dalle socialdemocrazie europee, non solo dal PSI italiano comprensibilmente preoccupato della competizione elettorale del PCI, ma nel caso dell’SPD o dei partiti scandinavi limitato dalla pregiudiziale anticomunista.
In definitiva il libro di Pons rende giustizia ad un percorso complesso e aiuta a comprendere le tante complessità e contraddizioni di un partito che fu di massa ma con a capo un élite intellettuale e consapevole.
Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel modo del novecento, Einaudi 2021.
Se nel proprio nome (o cognome in questo caso) risiede una parte del proprio destino, Ottavio Fatica intraprendendo la traduzione del Signore degli Anelli ha molto probabilmente compiuto il suo.
Già perché le vicende editoriali di questi tre volumi, in Italia, non sono mai state facili e anche questa volta si confermano tali. Credo c’entri anche un’appropriazione politica del testo tolkeniano da parte dell’estrema destra e del neofascismo dagli anni ’70 del tutto incomprensibile all’estero e a chi ha davvero letto (e mi si permetta capito) la saga dei Baggins.
Ma le critiche al lavoro di Fatica non sono arrivate solo dai nostalgici, c’è infatti una moltitudine di ex adolescenti (come chi scrive) che sono cresciuti forgiati da quel libro che circolava con la sua copertina agreste dai contorni beige e apriva mondi che poi spesso portavano a pomeriggi di giochi di ruolo.
Ma facciamo un po’ di ordine e proviamo a ricapitolare in estrema sintesi le vicende del libro nel nostro paese. La prima traduzione del volume è quella, in realtà mai arrivata alle stampe, che la piccola casa editrice l’Astrolabio commissiona ad una allora giovanissima Vittoria Alliata di Villafranca. La Alliata che non era (e non sarà) una traduttrice fa, va detto, un lavoro enorme e per i suoi mezzi egregio, tuttavia fu poi affiancata da Quirino Principe che ne corregge molta parte per l’edizione Rusconi che uscì nel 1970.
Quella traduzione è quella sulla quale generazioni di lettori sono cresciuti e si sono affezionati. Tuttavia nel 2003 Bompiani proporrà, alla ripubblicazione dei volumi sull’onda del successo dei film tratti dagli stessi, quella traduzione, però corretta su indicazione della Società Tolkeniana Italiana.
Sì perché nel frattempo il Signore degli Anelli e più in generale l’opera di Tolkien stava uscendo dalle fogne del neofascismo e dall’underground di cosplay e nerd ed entrava di diritto nei canoni letterari e nelle aule universitarie. Da qui, all’approssimarsi della scadenza dei diritti della traduzione dell’Alliata, la pressione sull’editore per una nuova traduzione.
Non senza strascichi legali, cause e velenosi articoli usciti sui giornali della destra italiana si arriva dunque all’opera di Ottavio Fatica, traduttore di grande esperienza con un gran lavoro su prosa e poesia inglese. Ma in cosa si caratterizza questo lavoro? La più evidente differenza (e quella su cui si sono concentrate le maggiori polemiche) è la traduzione diversa di molti dei nomi iconici della saga. I Raminghi che diventano Forestali, il Puledro impennato Cavallino Inalberato, Gran Burrone Valforra e molti altri. Un lavoro che il traduttore ha sempre giustificato per una maggiore aderenza alle sfaccettature e alle etimologie dell’autore. Non va infatti dimenticato che Tolkien di mestiere faceva il filologo a Oxford e tutte le sue opere sono caratterizzate per scelte linguistiche precise e mai casuali. Anche la poesia degli anelli che più o meno tutti i fan conoscevano a memoria viene riportata ad una maggiore coerenza con l’originale ma non è facile mandarla a memoria nella nuova versione.
E tuttavia a Fatica e all’editore è mancato il coraggio di utilizzare tale metro per tutti i nomi della saga (da un certo punto di vista fortunatamente) e dunque Baggins non è reso con Sacconi. Una scelta certo comprensibile che però avrebbe potuto essere adoperata per altri personaggi ed evitare che ogni volta che ci si riferisca ad Aragon come forestale non venga in mente uno in uniforme grigia intento a controllare che scoppi un incendio nel bosco.
Ma le due, a mio avviso, più importanti novità della traduzione di Fatica sono l’uso di registri diversi da parte dei personaggi e una fluidità e musicalità del testo. Il primo punto fa sì, per esempio, che le modeste origini di alcuni personaggi, Sam su tutti, si riflettano nel loro parlato. Questo fa sì che l’opera acquisti le sfaccettature che l’autore volle dargli: non una semplice saga epica fatta di eroi ma un’allegoria di una quotidianità che si trasforma in epica. Gli Hobbit non sono eroi scelti dagli dei, ma (mezzi)uomini travolti dal fato che compiono imprese eroiche. Una stratificazione di classe che era ben presente in Tolkien e che lo allontana dalla mistica del superuomo (che aveva trovato spazio quasi solo qui in Italia infatti).