Le vie dell’acqua di Vendola e Renzi

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 30 giugno 2010.

In Puglia la remunerazione del capitale investito del 7% è un costo: quello che pagheremo ogni anno fino al 2018 sul bond in sterline pari al 6,92%”. A parlare è Fabiano Amati, assessore alle Opere Pubbliche della Regione Puglia commentando le decisioni dell’assemblea dell’Acquedotto Pugliese.  Scopriamo così che l’Acquedotto Pugliese, totalmente pubblico, paga di interessi sul prestito (invero preso dalla giunta Fitto di centrodestra) praticamente la stessa cifra (il 6,92%) della remunerazione garantita ai soggetti industriali privati (il 7%) che investivano, prima del referendum, in altre società di gestione delle acque.  Morale della favola? Nonostante la massiccia vittoria del sì al quesito sull’eliminazione della remunerazione del capitale non si prevede, né in Puglia né altrove, alcuna diminuzione delle tariffe. Anche perché, l’alternativa per restituire i soldi o alle banche che li hanno prestati o alle società che li hanno investiti è o l’aumento impositivo o l’aumento del debito pubblico. Dunque nemmeno Vendola, che tanto si è speso nella narrazione del ritorno all’acqua pubblica, si sogna di abbassare le tariffe. Tariffe che ha invece, negli ultimi anni, innalzato del 18% ed ha anzi appena approvato un piano di investimenti da 674 milioni di Euro che porterà l’indebitamento complessivo dell’acquedotto pugliese da 219 a 402 milioni di Euro, sui quali naturalmente,  pagherà gli interessi. Almeno dal punto di vista economico la gestione pubblica rispetto a quella privata non pare portare significativi miglioramenti per il cittadino/utente visto anche che l’utile di esercizio dell’Acquedotto Pugliese, di quest’anno, 37 milioni, andrà nelle casse degli azionisti (pubblici).

Singolare poi la giustificazione di Vendola a chi chiedeva perché non avesse detto queste cose durante la campagna referendaria: “nessuno me lo ha chiesto”. Un narratore a richiesta dunque, un po’ come i cantastorie siciliani che a seconda della piazza in cui si esibivano davano più enfasi nei loro “cunti” alla battaglia tra paladini o alla storia  d’amore tra questi e le belle principesse.

Una soluzione alternativa per la ripubblicizzazione dell’acqua arriva invece dal sindaco di Firenze Matteo Renzi. Una holding dei servizi che si quoti in borsa e con il capitale raccolto ricompri le quote di Acea in Publiacqua.  Il progetto, bisogna ammetterlo, può avere un senso:  un’unica avvertenza non è una cosa immediata.  Il sindaco ha parlato di sei mesi per la creazione della holding finanziaria, un tempo non impossibile per la nascita della holding stessa, che però è ben lungi dalla sua possibile quotazione in borsa visto che i requisiti della CONSOB richiedono almeno 3 anni di bilanci oltre al fatto che l’attivo e i ricavi non devono essere per la maggior parte rappresentati da partecipazioni in altre società.

Nel frattempo, si spera, il Parlamento avrà legiferato per superare il vuoto normativo derivante dal referendum e evitare così che le nostre amministrazioni continuino ad affogare in un (carissimo) bicchier d’acqua.

Libertà di guidare

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 23 giugno 2011.

“Baby you can drive my car” cantavano i Beatles, ed era il 1965. Una canzone ancora oggi, ammesso che qualche radio la passi mai, dal significato immorale in Arabia Saudita, dove alle donne, tra le tante cose, è impedito anche di guidare. Un divieto che in questi giorni alcune giovani saudite hanno infranto, o meglio, hanno reso noto che stavano infrangendo. Perché molte donne già guidano in Arabia, tuttavia lo fanno di nascosto, per necessità o per sfida. Come la protagonista del film di Panahi, Offside, in cui una giovane iraniana voleva a tutti i costi seguire una partita di pallone decisiva per la nazionale iraniana.

Le donne saudite non possono infatti guidare perché questo comporterebbe, secondo i legislatori (tutti uomini ovviamente), un rischio per loro di contaminarsi. E’ la stessa premura verso la donna che impone loro abbigliamenti, segregazioni, cosa possano o non possano fare o vedere. Un abbraccio a cui le donne tentano, spesso disperatamente, di sfuggire, magari postando su un social network (laddove possano accedere alla rete) un video di loro stesse intente alla guida di un auto.

Naturalmente qui da noi la notizia è stata accolta e relegata tra il colore e il fatto culturale, magari qualche quotidiano ne ha fatto argomento per ricitare a sproposito la Fallaci e per riproporci bignami di luoghi comuni su islam e scontro di civiltà. Neppure una manifestazione, almeno a noi nota, di sostegno alle donne saudite al volante, così come nulla di rilevante si è visto per le donne egiziane escluse dalla rivoluzione dei ciclamini o sulle mille vessazioni che il corpo e l’anima della donna subisce in tante parti del mondo anche non islamiche. Eppure una strage israeliana al confine con la Siria, orchestrata da quest’ultima col chiaro scopo di distogliere l’attenzione sulla già poco attenzionata crisi interna, ha subito fatto scattare decine di militanti in piazza anche qui da noi.

Ecco ci piacerebbe un corteo per le donne saudite al volante, in cui magari noi maschietti si canti a gran voce “baby you can drive my car, and maybe I’ll love you”

Il cesarismo ha il fiato corto

Da Il Nuovo Corriere di Firenze del 16 giugno 2011.

Di solito il cesarismo funziona così: il cesare di turno si fa notare, crea un feeling col popolo, si afferma sbaragliando la concorrenza in primis del proprio campo con metodi efficaci ma sbrigativi, assume il potere che gestisce più o meno in solitudine ma mai in modo trasparente e condiviso e poi finisce nella polvere solo o con pochi fedelissimi mentre gli amici di un tempo giurano e spergiurano di non essere mai stati lì.

Anche il Berlusconismo, dopo il voto dei ballottaggi e dei referendum, pare avviato su questo finale di partita. A nulla sono finora valsi i tentativi di Ferrara di rivitalizzare il moribondo Cavaliere prima con la sferzata dell’economia e poi con le primarie del pdl. Alla prima Silvio ha prima aderito facendo scrivere allo stesso Ferrara un paio di articoli a sua firma apparsi su Foglio e Corrierone, poi però partorendo un decreto sullo sviluppo in cui di sviluppo e quattrini non c’era traccia ha di fatto lasciato cadere l’opzione preferendo ai consigli economici dell’elefantino i consigli d’immagine della Santacchè, coi risultati che abbiamo visti. Delle primarie poi forse è anche inutile parlarne. Mentre Ferrara si sgolava sul suo quotidiano di rendere contendibile il dopo berlusconi con elezioni libere e democratiche, l’altro nel chiuso delle sue stanze di palazzo Grazioli nominava senza consultazioni Alfano inutile segretario politico.

Nessuno scampo dunque al declino? Campo aperto ai successori in cerca di legittimazione con una lotta per il dopo che vede principali competitor Tremonti in asse con la lega, usciti comunque malconci dagli ultimi voti, e Formigoni, abbacchiato dal voto milanese ma comunque saldo su un potere economico, sociale e mediatico che ha radici profonde e spesso sconfina anche nel campo avverso? E’ davvero tutto già scritto, prima a Pontida sabato e poi nelle aule del parlamento o il 22 giugno prossimo?

Se una cosa ci hanno insegnato 17 anni di Berlusconi è che Silvio ha sempre rotto gli schemi e sovvertito le previsioni. Certo sinora non si era mai trovato a non avere “il sole in tasca” e il suo proverbiale ottimismo non pare contagiare lui per primo. Dunque tutto fa pensare al declino inevitabile ma non esclude sorprese. Quella di un uscita di scena governata per la successione o quella, più in linea col personaggio, di un uscita scenica non tra le fiamme del Caimano di Moretti ma tra i fuochi d’artificio sparati dal suo panfino all’ancora di Panama city.

Perchè sì perchè NO

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 giugno 2011

In un Paese normale domenica e lunedì saremmo chiamati a votare per abrogare o meno quattro norme specifiche e dunque impedire, nel caso, la messa in moto di un processo che porti al nucleare civile, una norma di salvaguardia giudiziale per alcune cariche politiche, la non rimuneratività degli investimenti nel campo della gestione idrica e il ritorno alle aziende municipalizzate di servizi.

In Italia invece siamo convinti di andare a votare contro Berlusconi e per salvaguardare l’acqua pubblica. Il primo tema è l’ennesimo omaggio al totalitario motto “il fine giustifica i mezzi” per cui nulla ha senso in quanto tale ma per l’effetto che può produrre; mentre la seconda è una mistificazione frutto di una campagna di comunicazione, di certo efficace, da parte dei promotori del referendum.

Sul primo tema si spiegano le posizioni dell’IdV e del PD, pronti a cavalcare l’esito referendario in un possibile uno-due con le amministrative per mettere in crisi, definitiva, l’esecutivo. Solo questo può spiegare il ripensamento (visto che non è dato conoscere un eventuale esito condiviso di un dibattito interno ai due partiti sui temi del servizi pubblici) rispetto alle politiche attuate quando erano forza nazionale sullo stesso tema o su quelle locali anche qui in Toscana.

Quattro sì, poi, è molto più semplice da far capire che dover differenziare il messaggio, col rischio che uno non capisca, preferisca andare al mare e non contribuisca alla spallata. Eppure ci si dovrebbe aspettare di più da amministratori che sinora hanno detto e fatto tutt’altro soprattutto in tema di servizi pubblici locali.

Infatti il quesito sulla cosiddetta acqua pubblica non riguarda la sola gestione del servizio idrico ma tutti i servizi pubblici che tornerebbero secondo lo spirito con cui è proposto il quesito, in caso di vittoria del sì, completamente pubblici non nella proprietà (salvaguardata già oggi) ma nella gestione. Un cambio di rotta che, pur non volendolo giudicare, forse andrebbe giustificato da parte di chi ha votato norme opposte a quanto si prefigge di votare domenica prossima.

Cambiare idea non solo è legittimo ma spesso salutare, farci conoscere il perché sarebbe però altrettanto importante, spiegarci come si intende procedere per quanto riguarda le proprie competenze in tal senso sarebbe altrettanto doveroso, farci capire poi come si concilia “meno costi della politica” e ritorno al pubblico anche. Si badi bene non è automatico che il ritorno al pubblico debba per forza significare un aumento dei costi della politica o della lottizzazione dei consigli di amministrazione, tuttavia siccome spesso questo è accaduto sarebbe necessario, nel momento in cui si cambia rotta spiegare quali elementi si metteranno in campo per garantire l’efficienza e l’efficacia del servizio pubblico.

Il ritorno al pubblico comporterà, qui da noi,  il ritorno anche al localismo, all’impresa di ambito comunale? Oppure la strategia del dimensionamento di imprese di servizi pubblici per far fronte ad investimenti consistenti proseguirà in forma diversa? Lo chiedo perché sinora nel (poco) dibattito pubblico sul tema gli stessi che ci invitano a votare sì ci assicuravano che l’investimento privato era l’unico sistema possibile per risolvere questo problema.

Una proposta la avanza il governatore Enrico Rossi, battagliero in posa pannelliana con un cartello indicante i suoi 4 sì sul proprio profilo facebook: quella dell’azionariato popolare. Come questo si concili coi suoi sì ai quesiti non lo spiega però. L’azionariato popolare è un intervento privato, che dunque va bene se a farlo sono in molti ma va male se a farlo sono in pochi. Altro punto previsto da Rossi è la rimunerazione dell’investimento “diffuso” a tassi di poco superiori a quelli bancari. Ammesso che si trovino soggetti disposti ad investire con guadagni di poco superiori allo 0 la proposta di Rossi prevede, ci par di capire, una redditività certa dell’investimento, da attuare presumiamo attraverso la tariffazione e dunque l’opposto di quanto afferma votando sì al secondo quesito referendario.

E’ probabile che lo spirito con cui molti pensano alla fase successiva di una eventuale vittoria dei sì sarà quello di un ridisegno dei servizi pubblici che non precluderà affatto i privati nella gestione ma li limiterà fortemente e renderà i loro investimenti più difficili e meno remunerativi. Di fatto quindi tutt’altro del messaggio “l’acqua bene pubblico” veicolato in questi giorni e sul quale viene chiesto il voto. Non sarebbe la prima volta che un esito referendario verrebbe tradito, è già successo sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla responsabilità civile dei magistrati. Dubito però che sarebbe la strada giusta per riavvicinare i cittadini con la politica (come dicono di voler fare tutti) e per ridare fiducia all’istituto referendario che infatti da venti anni non raggiunge mai il quorum.

Infine siamo sicuri che il vuoto normativo che succederebbe inevitabilmente al referendum sarebbe colmato nella direzione in cui sperano? Dubito che l’attuale maggioranza di governo sia capace di legiferare in alcun senso; ma un’eventuale maggioranza di centrosinistra riuscirebbe a mettere mano al tema superando le posizioni della sinistra di Vendola che già nei precedenti governi hanno impedito riforme in questo settore?

La narrazione politica e l’italiano

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 giugno 2011.

Le parole, ripeteva ossessivo Nanni Moretti in Palombella Rossa, sono importanti. Lo sarebbero ancora di più se il tema politico viene spostato dall’azione alla narrazione, come accade in questi tempi.

Uno spostamento che se da un lato riesce a mobilitare la fantasia e la passione della gente spesso consente anche di creare una cortina fumogena sull’operato di governo dei nostri amministratori che dovremmo aver eletto per fare le cose e non per appassionarci la sera davanti a un fuoco.

Ma se i tempi richiedono narrazioni, soffermiamoci su queste e cerchiamo di fissare alcune basilari regole a questa modalità dell’agire politico. Intanto sia richiesto ai narratori di esprimersi in italiano corretto., di non indulgere nel dialetto, nelle parole straniere (e nel caso le si voglia usare almeno le si pronuncino correttamente) o nei paroloni soprattutto se messi a caso. Infine di non stravolgere il senso delle parole che si usano.

Capiamo che così facendo molta parte degli attuali narratori politici sarebbe di fatto esclusa dal certamen linguistico elettorale a meno di non ricominciare la propria carriera scolastica spesso dalle elementari.

Anche il campione della narrazione Nichi Vendola non sopravviverebbe a tale paletti. Come dimenticare il suo discorso al congresso di Firenze infarcito di termini come “ultroneo”, “superfetazione”, messi qui e là nel discorso forse come omaggio, visto il luogo, al conte Mascetti di monicelliana memoria.

Oppure il comiziaccio alla Eltsin di lunedì pomerigigo in piazza del Duomo in cui narrava di una Milano espugnata, facendo probabilmente rivoltare nelle tombe quelli che per liberarla davvero ci han rimesso le penne. Oppure le dichiarazioni sempre del dopo vittoria di Pisapia in cui ha parlato di un atto di disobbedienza civile nel voto dei milanesi e dei napoletani. Peccato però che di scioperi della fame ne sia in corso solo uno, quello di Marco Pannella (verboso narratore ma di altra razza e qualità) e di molti detenuti nelle carceri, non si siano viste autodenunce per non pagare l’ecopass, marce nonviolente, sit-in a bloccare i tram e tutte quelle modalità che definiscono la disubbidenza civile e che sono costate, negli anni e nel mondo, anche la vita a molti manifestanti.

Il bravo Pisapia se ne è infatti subito smarcato ribadendo un’ulteriore e fondamentale legge del narratore politico: prima di parlare, ascoltare.

Alla fine della rieducazione linguistica non so se avremo politici migliori ma almeno avremo narratori più interessanti ed educati.

Il modello Bersani-Fassino

Da Il Nuovo Corriere di Firenze del 26 maggio 2011.

Il Bersani di Maurizio Crozza esordirebbe con “Ragassi non siam mica qui a dare il verde alle persiane”, sintetizzando in una battuta l’attitudine, tutta emiliana, del segretario PD di semplificare con un modo di dire le complessità della politica italiana. Una modalità di rappresentarlo che piace allo stesso Bersani che infatti usa maniere “crozzesche” sulla sua pagine facebook  o nelle sue partecipazioni televisive, soprattutto dopo il successo alle ultime elezioni amministrative.

Segno di un buonumore che il segretario si è conquistato. Perché dietro il successo del PD molto merito è anche del passo tranquillo, dell’attenzione rivolta al lavoro quotidiano, all’organizzazione che il segretario ha imposto con la sua direzione. Un modello di successo che già aveva, ai tempi dei DS, portato fortuna a quel partito (che era anche quello di Bersani) e al suo segretario di allora, Piero Fassino.

Fu Fassino infatti che raccolse i cocci della segreteria Veltroni, scappato prima della sconfitta nazionale a fare il sindaco di Roma perché diceva (come lo prendeva in giro Guzzanti) “non lo voleva fare nessuno”, e con basso profilo, testardamente e tenacemente rimise in carreggiata i DS e li riportò a vincere tutte le elezioni amministrative e regionali sino al “pareggio/vittoria” del 2006.

Anche a Bersani è toccato un partito da ricostruire dopo la cura (più intensa questa volta) di Walter Veltroni e anche lui si è approcciato col medesimo basso profilo e lo sguardo rivolto primariamente all’organizzazione. Le analogie però finiscono qui. Fassino aveva come obiettivo quello di far rinascere i DS però all’interno di un percorso segnato, definito e rassicurante. Il partito democratico era un progetto all’orizzonte e il capace neo sindaco di Torino era ben cosciente che quando questo progetto sarebbe passato in una fase creativa sarebbe toccato ad altri il compito di realizzarlo. Un raro esempio di senso dei propri limiti che premia ancor di più l’uomo prima che il politico.

Il compito di Bersani era (e resta) ben più arduo e la ricostruzione organizzativa ed elettorale del PD è quasi più un prerequisito che un fine. Per questo il risultato delle amministrative e dei prossimi ballottaggi non è che una tappa in un percorso più lungo e arduo che deve ancora definire programma, alleanze e leadership. Insomma verrebbe da dire che Bersani ha funzionato sinora  malgrado Bersani, ha vinto nel modo concreto, quotidiano, di intendere il partito e la politica,  nell’affrontare la sfida elettorale scegliendo temi e toni del confronto , mentre la sua “strategia” , a partire dalla larga alleanza col terzo polo, veniva smentita dal voto

Berlusconi ha perso, caccia al vincitore

Il testo integrale del pezzo pubblicato da il Nuovo Corriere di Firenze del 19 maggio 2011.

Bisogna ammetterlo, la migliore analisi del voto l’ha data Verdini. Il suo: “se si esclude Milano abbiamo pareggiato” ricorda la famosa battuta del pugile che tra una ripresa e l’altra chiede al suo secondo come sta andando e questi gli risponde: “se l’ammazzi fai pari”.

Più onesto La Russa che ha sostanzialmente ammesso il fallimento della strategia di spostare l’oggetto della contesa milanese dalla città al Paese e chiede oggi qual è il progetto di città di Pisapia, forse in difficoltà a porre la stessa domanda alla sua candidata che ha dimostrato talmente poco feeling col suo elettorato da risultare staccata di sei punti dall’avversario e di ben quattro punti dai partiti che la sostengono.

Tace invece per ora Berlusconi, probabilmente incredulo di non aver capito che, questa volta, stava sbagliando tattica e consiglieri come gli ha rimproverato a caldo Giuliano Ferrara probabilmente molto irritato (e i risultati gli han dato ragione) di essere stato scavalcato nei favori del premier da una come la Santacché.

Brutta aria anche dalle parti di via Bellerio dove al Carroccio si discute del fatto che non abbia pagato la strategia di smarcarsi dal Pdl e da Berlusconi e che anche la Lega paghi le difficoltà di governo, il mercimonio di parlamentari e sottosegretari e l’inazione dell’esecutivo a cui non han fatto argine gli annunci e pochi spiccioli trovati, all’ultimo da Tremonti. Tuttavia la lega, pare stare meglio del PdL e se deciderà di continuare a smarcarsi da Berlusconi a favore di Tremonti, può contare su un possibile recupero di appeal sul proprio elettorato.

Non pervenuto il terzo polo, Fini praticamente scomparso. Bisognerebbe oggi riprendere i tanti editoriali che ci avevano, nei mesi scorsi, spiegato l’importanza del polo di centro e la sua assoluta rilevanza. L’UdC da solo mediamente prendeva più voti di API, FLI e UDC messi insieme.

Tra i particolari in cronaca si segnala l’esperimento fasciocomunista, sostenuto da FLI, di Pennacchi a Latina che non arriva all’1%. Un segno che speriamo faccia considerare al vincitore dello Strega dello scorso anno di proseguire nella carriera letteraria in maniera esclusiva.

Il PD intanto gioisce e non gli mancano i motivi per farlo. Il partito di Bersani esce meglio di quasi tutti gli altri (l’idv a parte l’esploit di De Magistris è ben lungi dai risultati delle politiche, Sel non sfonda nemmeno dove esprime il candidato) ma si potrebbe dire malgrado sé stesso. Intanto se i ballottaggi di Milano, Napoli e Trieste dovessero andare tutti al centrodestra, il PD avrebbe conservato Torino e Bologna ma perso Napoli. Caso diverso se almeno uno dei tre ballottaggi vedesse prevalere il candidato del centrosinistra, come direbbe Catalano.

Oltre a questo il PD riesce difficilmente a poter trovare uno schema da questo voto: non scioglie il dilemma primarie sì, primarie no: a Milano è in testa il candidato che ha battuto il candidato ufficiale del PD alle primarie mentre a Torino vince al primo turno e bene quel Fassino “imposto” senza primarie al partito locale. A Napoli il pd non arriva nemmeno al ballottaggio e si vede costretto ad appoggiare un candidato che ha fatto tutta la campagna elettorale più contro il candidato democratico che quello del centrodestra. Dunque non scioglie nemmeno il tema delle alleanze (SEl o IdV?) visto che a MIlano deve sorreggere quello di SEL e a Napoli quello dell’IDV. Forse l’unico risultato (ma dubitiamo che andranno così le cose) sarebbe quello di porre fine alla telenovela della larga alleanza col terzo polo, che poi era (in estrema sintesi) la dottrina Bersani D’Alema.

Insomma il PD esce dal voto più forte ma senza aver risolto nessuno dei problemi che lo attanagliano: programma, alleanza, leadership autorevole (soprattutto al suo interno), tuttavia l’esperienza insegna che dopo un risultato positivo le cose si risolvono meglio.

Infine un cenno ai grillini. Che gli piaccia o meno (o che lo ammetta o meno) il comico genovese deve ammettere che il suo movimento va bene dove questo è strutturato, Bologna e Torino, ed è presente (assomiglia dunque a un partito) piuttosto che dove si affida ad uno spontaneismo giovanilista gonfiato dai sondaggi ma non dai voti come a Milano.

Milàn l’è un grand Milàn…

Da il Nuovo Corriere di Firenze del 12 maggio 2011

Che domenica e lunedì ci sia molto di più di un semplice voto amministrativo in gioco è lo stesso Berlusconi a dirlo. Milano e Napoli le piazze pregiate che daranno l’immagine della vittoria o della sconfitta.

Il ballottaggio a Milano, dato per certo da tutti qualche settimana fa si gioca oggi sul filo di lana e il merito di ciò è quasi tutto dell’iperattivismo del premier oltre ad uno uso spregiudicato e scorretto dei media. Ciononostante l’appeal di donna Letizia è piuttosto basso e il candidato Pisapia ha tutte le caratteristiche per incontrare i favori della borghesia milanese che negli anni passati non ha avuto problemi a votare a sinistra, seppur quella socialista e riformista.

E proprio per questo Berlusconi ha, ancora una volta, girato la sfida locale in un test nazionale, o meglio in un referendum su sé stesso; sfruttando le udienze dei suoi processi per moltiplicare comizi che aggirano ogni par condicio.

Tuttavia questa volta può darsi che il referendum su Silvio ci sia davvero e che i risultati riguardino molto di più il futuro del centrodestra che i destini delle opposizioni.

Bersani, Casini, per nulla dire di Fini, appaiono infatti sullo sfondo della contesa elettorale. In gioco pare esserci la conclusione dell’esperienza di governo Berlusconi e il suo futuro magari Quirinalizio.

In questo senso il comizio congiunto di Bossi e Tremonti nella rossa Bologna, significamente introdotto da Fratelli d’Italia e Va Pensiero, appare come la manifestazione non solo del noto asse tra i due ma di un OPA sul centrodestra che prevede non certo la rimozione immediata di Berlusconi ma un suo progressivo depotenziamento, un rafforzamento ulteriore del duo nelle politiche governative e soprattutto carta bianca nella discarica degli oppositori interni al PdL, Alfano e Formigoni in primis.

Altra prova del test fra Lega e Pdl è il poco impegno dimostrato dalla Lega nella campagna milanese a differenza di quanto invece si stanno spendendo i leader nazionale del Carroccio nei comuni dell’hinterland milanese, tanto che lo stesso Bossi ha definito Gallarate il test match decisivo.

Alla fine col voto milanese, e in maniera minore quello napoletano e tutti gli altri, Berlusconi deve dimostrare di essere ancora, per dirlo con l’illuminante definizione di Iacopo Tondelli de l’Inchiesta, il portavoce rumoroso della maggioranza silenziosa. Se così non sarà nuovi equilibri saranno pronti a prendere campo nei prossimi mesi e, l’asse del nord, si candiderà alla guida del Paese senza più l’esuberante (e forse ormai pesante) faccione di Silvio.

Il riscatto del lavoro

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 maggio 2011.

Siamo davvero certi che il tema del lavoro, della sua rappresentanza e del suo rapporto con la sinistra sia tutto riassumibile nelle polemiche di questi giorni? O che la maggiore manifestazione simbolica di attenzione da parte dei sindacati confederali nei confronti dei giovani possa essere il “concertone” del primo maggio?

E il grande dibattito sull’organizzazione del lavoro scaturito dagli accordi di Melfi e Mirafiori dov’è finito? Ci è bastata l’ipocrita dichiarazione finale in cui si diceva che la FIAT fa storia a sé, buona per giustificare sia chi ha firmato gli accordi, sia chi non li ha firmati e pure Confindustria abbandonata da FIAT. Eppure una generazione intera che passa dall’incertezza di un lavoro all’altro, che non ha idea di come pianificare il proprio futuro si aspetterebbe altro.

Altro anche da una discussione ideologica sulle aperture nei dì di festa, volutamente provocatoria in chi la propone (altrimenti si sarebbero scelte sia festività religiose che civili) e nelle argomentazioni di chi la difende in una città sì e in 10 no.

Servirebbe, chiederemmo noi trentenni, qualcosa di più anche del successivo strascico su chi guadagna di più tra politici e sindacalisti, interessandoci molto di più quanto poco guadagniamo noi lavoratori rispetto ai nostri coetanei europei.

Ci piacerebbe che a questo si sostituisse un dibattito sugli ammortizzatori sociali, sull’indennità di disoccupazione e sui contributi silenti che lo Stato si intasca anche se non riusciremo a maturare una pensione. Ma anche sul sostituto d’imposta che obbliga gli imprenditori a fare un lavoro che non è loro, aumentando i costi e diminuendo la competitività, della tassazione che fa si che le imprese spesso lavorino fino ad agosto per lo Stato e da settembre per sé, oppure sulle trattenute sindacali, chiedendo che non sia una volta per tutte, ma come ogni adesione a qualsiasi altra associazione sia su base annuale e volontaria. Magari servirebbe a inserire anche un po’ di competitività e di attenzione verso i propri iscritti.

E ci piacerebbe non sentire più da importanti imprenditori, che dovrebbero assumere incarichi associativi a Firenze tra breve, che il motivo del nanismo delle nostre imprese è dovuto all’articolo 18, quando invece ha molto più a che fare col modello dinastico/familiare della nostra imprenditoria e con un sistema che, in alto, ha favorito i soliti pochi uccidendo (con mezzi più o meno leciti) chiunque provasse a farsi grande.

E infine ci piacerebbe che si ragionasse in termini di occupazione e costruzione di profitto quando un gruppo internazionale acquista una nostra impresa, invece di dare l’impressione di discutere di italianità più in termine di poltrone e di interessi per i grandi manager e di chiedere di difendere la proprietà italiana sempre con soldi pubblici quasi mai con investimenti privati. Magari scopriremmo che il gruppo francese che acquisterà Parmalat consuma più latte italiano di quanto ne consumi oggi Parmalat stessa.

Insomma ci piacerebbe che, nei negozi aperti per il primo maggio, si fosse potuto parlare di lavoro e prospettive piuttosto che dell’ennesimo muro contro muro.