L’occasione sprecata della Legge Fiano

Se la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzione pare che lo sia diventata anche quella dell’antifascismo militante; perché sicuramente parte da buone, se non buonissime, intenzioni la cosiddetta Legge Fiano, che ha per oggetto la repressione della propaganda del regime fascista e nazifascista. Dunque nessuna critica, anzi, all’intenzione e nemmeno si può argomentare, come han fatto alcuni esponenti pentastellati, che il dibattito sia fuori luogo e fuori tempo. La spavalderia di alcune organizzazioni che si rifanno in maniera manifesta al fascismo è ormai evidente ed allarmante, tanto da giustificare, a parere di chi scrive, l’adozione delle norme già presenti nel codice vigente, la cosiddetta Legge Scelba, e nella Costituzione alla XII norma transitoria, imponendone lo scioglimento.

Dunque il momento appariva più che propizio per definire meglio una questione che è stata, sin dalle origini, spinosissima e che tale sempre resterà per la natura propria del tipo di reati che si vorrebbe punire.

La distinzione tra l’essere fascisti e il fare apologia di fascismo infatti (come prevede la normativa attuale senza che il testo attuale modifichi lo stato delle cose), rende (e ha reso storicamente) la questione complessa. Al giudice non bastava e non basta che uno si professi fascista per condannarlo ma l’accusato deve mettere in pratica atti o pensieri che ne configurino un’adesione apologetica. Il che apre un capitolo piuttosto ampio sui reati di opinione, cioè quel tipo di reati che di solito sostanziano più un regime totalitario che una democrazia.

Quindi in quella distinzione così aleatoria e di difficile interpretazione (essere fascisti o fare apologia di fascismo)  tanto dibattito storico e giurisprudenziale si è prodotto, anche in virtù di una sostanziale continuità dello Stato fascista nell’amministrazione della giustizia dopo la II guerra mondiale.

Un dibattito inevitabile poiché fa parte delle contraddizioni proprie di un regime democratico, a cui va aggiunto il momento storico in cui fu scritta la carta costituzionale. I costituenti stessi videro che la norma apriva un problema enorme perché, di fatto, entrava in contraddizione con i principi fondamentali della carta stessa, e ne decisero l’inserimento non nel corpo principale della carta ma nelle norme transitorie.

Furono forse ottimisti nel pensare che, morti i protagonisti coevi del ventennio, nessuno avrebbe avuto in mente di riproporre un movimento politico che aveva devastato il Paese e la sua coscienza.

Dunque l’iniziativa dell’Onorevole Fiano appare meritoria e persino necessaria, quello che preoccupa però è l’esito. Perché il testo licenziato non porta luce né individua criteri di definizione della propaganda nazifascista da punire ma anzi allarga tale fattispecie tanto da poter ipotizzare una scarsissima applicabilità della norma. Intanto il testo non abroga e modifica le disposizioni vigenti ma vi si aggiunge, aumentando le fattispecie di reato dall’apologia alla propaganda. Ma in cosa si sostanza tale propaganda? “anche solo [nella] produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli […] chiaramente riferibili [al partito fascista e al partito nazionalsocialista]”.

Una casistica così generica da rendere impossibile determinare il fatto ma altamente opinabile l’esito del giudizio (e dunque arbitrario il diritto stesso): perché se l’intento è vietare il manganello con la faccia del Duce, come ci si comporterà con la libreria antiquaria che tra le opere in vendita ha, a carissimo prezzo, il vademecum del perfetto fascista di Longanesi?

Il tema del limitare le libertà di espressione del pensiero è tema sensibile, tocca nervi scoperti della storia del Paese e rappresenta uno dei punti più delicati dell’essere una democrazia finalmente compiuta. Per questa era da augurarsi che una siffatta norma fosse accompagnata da una riflessione compiuta, da un dibattito storico e filosofico, almeno da una frase dolorosa e necessaria sui limiti della libertà.

Invece ancora una volta si sono preferiti i talk show ai convegni, il facile consenso allo studio e al dubbio, la semplificazione becera al governo della complessità. Auguriamoci solo che questo clima, fertile per regimi non certo democratici, non favorisca una drammatica eterogenesi dei fini.

 

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.230 del 16 settembre 2017

Come possono questi partiti battere l’antipolitica?

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 19 aprile 2012.

La battaglia dei partiti contro la cosiddetta antipolitica ricorda la battuta del pugile che chiede al secondo come sta andando il match. “Se l’ammazzi fai pari”, gli risponde quello.

Dunque: dal finanziamento pubblico, alla legge elettorale, passando per informazione e credibilità in generale la politica italiana per fare pari col discredito generalizzato che gode nel Paese deve fare un mezzo miracolo.

Certo non occorre generalizzare. Ci sono partiti che col finanziamento pubblico acquistavano lingotti e diamanti e altri che pagano la loro, corretta, vita democratica, così come c’è chi contro al finanziamento lotta da sempre, Radicali in testa e quasi sempre da soli.

Ciò non toglie che la politica stia messa alle corde tutta e che di fronte ad un governo che chiede (o meglio impone) sacrifici e nuove tasse su più o meno tutto, nessuno appaia credibile nel dire che il finanziamento non solo deve essere mantenuto ma non possa neanche diminuire.

Peraltro, come notava qualche giorno fa Massimo Bordin, sentire il genero di Caltagirone e il segretario del partito di Berlusconi dire che senza finanziamento ai partiti le lobby avrebbero dominato il parlamento farebbe sorridere se non dovessimo ogni giorno fare i conti con le aziende che chiudono e le tasse che aumentano.

Certo c’è chi, movimenti politici e gruppi editoriali, soffia sul fuoco del risentimento popolare ma come si fa a non notare che i primi a farsi del male da soli sono proprio i partiti stessi?

Scriveva Ian Mc Ewan che quando uno prova pena per sé stesso sente il bisogno di peggiorare le cose, come interpretare altrimenti il voto di ieri da parte di un parlamento costituito da nominati, incapace di dare un governo al paese, sulla riforma costituzionale del pareggio di bilancio in modo da aggirare il ricorso al referendum confermativo?

E come non notare il silenzio successivo di tutta quella stampa pronta a gridare alla limitazione della sovranità popolare, al regime (da sinistra) o alla sospensione della democrazia (a destra).

Solo il silenzio, sul merito e soprattutto sul metodo di questa riforma.

Forse un silenzio colpevole per non dover riflettere sul fatto che l’unica cosa fatta dai partiti negli ultimi mesi che i cittadini hanno apprezzato è stato il loro mettersi da parte per far posto ai tecnici.  Eppure di partiti e di politica la nostra società ha disperato bisogno, perché la democrazia, occorre ricordare, è il peggiore di tutti i sistemi di governo ad eccezione di tutti gli altri.