Tripoli e la verità su Bologna e Ustica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 25 agosto 2011

In un estate di crisi, manovre e guerra in Libia è passata senza molto clamore la notizia che la Procura di Bologna ha aperto un’indagine contro due terroristi tedeschi in passato affiliati al gruppo terroristico di Ilich Ramirez Sanchez più noto come Carlos o lo sciacallo.

L’indagine segue la cosiddetta pista palestinese per l’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. La strage più efferata che il nostro Paese abbia mai subito. Ora per tale strage la giustizia italiana ha già giudicato colpevoli tre terroristi neofascisti uno, Ciavardini, come esecutore materiale e i restanti due Mambro e Fioravanti come secondo livello della strage a cui, dicono i giudici, era sovraordinato un terzo e forse persino un quarto livello strategico dei cosiddetti mandanti. Mandanti i quali risultano tuttora sconosciuti.

La tesi passata in giudicato è quella della strage fascista, volta a proseguire la strategia della tensione e una svolta autoritaria del Paese, con connivenze in settori deviati dello Stato e dei cosiddetti poteri forti.

Una tesi che però, anche nello stesso percorso processuale, ha presentato molte ombre e che non ha mai chiarito né chi fossero  i mandanti (su questo l’indagine è ancora in corso), né come i tre operarono quel maledetto 2 agosto (Mambro e Fioravanti non erano a Bologna e Ciavardini all’epoca era poco più che un ragazzino minorenne). I tre poi si sono sempre detti innocenti mentre hanno confessato ogni altro delitto (e purtroppo sono molti) commesso; il che naturalmente non prova niente ma insieme agli altri elementi monta il dubbio.

Tesi da complottisti si è risposto. Sinora, perché l’apertura dell’inchiesta Bolognese ridà corpo alla pista straniera, che vede Bologna (e poco dopo Ustica) come tragico crocevia tra OLP, libici, israeliani e americani.  Una tesi evocata da più parti, compreso Francesco Cossiga e lo stesso Carlos che in un’intervista del 2008 parlò anche della strage di Bologna in questi termini.

La presenza poi di uno dei due tedeschi a Bologna era emersa dai lavori della Commissione parlamentare Mitrokhin attiva dal 2002 al 2006. Come mai si sia aspettato sino al 2011 per le indagini della procura appare di difficile spiegazione.

Oggi tuttavia proprio gli avvenimenti libici potrebbero segnare un punto di svolta, con l’apertura degli archivi del regime o l’eventuale processo ai leader dello stesso regime.

Nemmeno la guerra

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 aprile 2011

Fossi io il dottore di Romano Prodi mi preoccuperei e molto. Avvertirei il professore e sensibilizzerei la moglie e i figli di non leggere alcun quotidiano, né nazionale né internazionale, suggerirei un viaggio in qualche sperduta isola della Micronesia e assoluto riposo. Già perché le coronarie del professore, seppur dotato di inumana pazienza forse potrebbero non reggere a quanto in questi giorni avviene in Italia. Sì perché vi ricordate come fu crocifisso il governo Prodi e la sua maggioranza perché il Carneade Turigliatto decise di non votare il finanziamento alla missione in Afghanistan? Non c’era editorialista, di destra o sinistra, opinionista, barbiere o tassista del Paese che non deplorasse la mancanza di coesione e coerenza della maggioranza di centrosinistra. Chi dimentica le ardite teorizzazioni sul centrosinistra con o senza il trattino, le vocazioni maggioritarie e ogni ammennicolo teorico che l’esercito di politologi ha confezionato a partire dalle defezioni di Rossi e Turigliatto? Oggi invece un Ministro e per di più leader del secondo partito della coalizione di governo, partito che al Nord rivaleggia col PdL per consensi, governa regioni, province e comuni dice che non è d’accordo col Presidente del Consiglio sull’intervento militare in Libia e non succede niente di paragonabile almeno per il momento. Il premier stesso continua a dire che non c’è problema (e figurarsi), Frattini con ancora in mano il blocchetto delle ordinazioni minimizza e dice che non c’è bisogno di un passaggio parlamentare, mentre nella Lega cresce il malumore più in funzione elettorale o di appoggio a Tremonti sulle vicende parmalat e Draghi. Ci siamo ormai rassegnati ad una compagine di governo che riesce a mandare in vacca di tutto, persino la guerra. Nemmeno le più immani tragedie scalfiscono un governo e un premier che pur di restare sulla poltrona son disposti a tutto peggio dei peggiori “professionisti della politica” da loro tanto disprezzati; talmente disperati da svendere le loro stesse leggi come per l’energia atomica o a mandare in guerra (e dunque sottoporli al rischio concreto di essere ammazzati) cittadini italiani senza appoggiarli, senza nemmeno poterli ringraziare. Nella quasi indifferenza del Paese ed in particolare di quella copiosa parte del Paese che li ha votati e li voterebbe ancora. E allora ci immaginiamo che Prodi accetti il nostro consiglio e che magari, generosamente, ci porti con sé su un atollo della Micronesia.

Italiani, mica scemi di guerra

Di seguito l’articolo completo pubblicato sul Nuovo Corriere di Firenze del 24 marzo 2011.

Quando era presidente Massimo D’Alema e l’Italia era impegnata sopra i cieli del Kossovo fu coniata l’espressione di difesa attiva, che faceva capire che i nostri aerei partecipavano ai bombardamenti ma in modo diverso a quello di altri Paesi. Con Berlusconi presidente si abbandonano i sofismi della lingua politica e si proclama un più spiccio “i nostri aerei sorvolano la Libia ma non bombardano”. In entrambi i casi sono parole che pesano, sia internamente che nei rapporti internazionali. All’interno suonano ipocrite, mistificatorie, e sicuramente ingenerose per quei professionisti che stanno rischiando la vita sopra i cieli di Tripoli mentre i loro connazionali si convincono che siano lì per voli di piacere. Una posizione che, peraltro, convince pochi, forse solo quel parlamentare PD che nei mesi della finanziaria chiedeva sul proprio profilo facebook di togliere soldi all’acquisto di aerei militari per destinarli alla scuola e poi nei giorni scorsi reclamava a gran voce, sulla solita pagina, l’avvio della no-fly zone. Sono parole che hanno a che fare con la costituzione materiale e formale del Paese. Dal punto di vista formale sono meccanismi che allontanano le decisioni del Parlamento e danno quasi carta bianca all’esecutivo non solo nella condotta delle azioni militari, che è sacrosanto, ma anche della loro legittimazione, dei confini e dei compiti di quell’azione stessa. Dicendo che non siamo in guerra o coinvolti in azioni militari dirette l’esecutivo scansa il dibattito parlamentare e si riserva aree in cui muoversi. Un meccanismo che esiste in altri ordinamenti, quello americano per esempio, dove il Presidente ha il potere di agire ma all’interno di meccanismi di controllo certi e per un periodo di tempo breve e limitato: poi deve comunque rendere conto al parlamento. Da noi, no. E il modo che il Parlamento ha per mettere bocca nelle “missioni di Pace” è quasi esclusivamente quello del finanziamento delle missioni stesse. Basti pensare che al momento i nostri aerei sorvolano un Paese formalmente a noi alleato in virtù di un vergognoso trattato di amicizia, non ancora sospeso o cancellato, di cui si preferisce non parlare visto che fu votato da tutti con l’eccezione di Radicali, UdC e due deputati PD. L’altro punto ha a che fare con la retorica di pace e col profondo sentimento “pacifista” che pervade l’opinione pubblica italiana, ed è qui che la cosa, a parere di chi scrive, si fa ancora più ipocrita. Io rispetto i pacifisti convinti e integrali, apprezzo meno chi impegna i propri soldati in missioni internazionali e poi le definisce missioni di pace, si fa bello in tv del fatto che i propri aerei sorvolano il campo nemico privi di armi come in Afghanistan (con peraltro un evidente controsenso economico visto quanto costa mantenere mezzi come quelli). L’Italia partecipa attualmente a missioni importanti e pericolose. I suoi soldati muoiono, il suo strumento militare è, con difficoltà, messo in grado di operare alla pari con quello degli altri paesi occidentali, i nostri militari partecipano e sono apprezzati dagli alleati, comandano altri contingenti eppure qua da noi continuano a essere dipinti come crocerossine col fucile. Una retorica che influisce anche nel ruolo internazionale del Paese e ne rende deboli, come accade in queste ore, le richieste di contare di più nella definizione di compiti e strategie degli interventi. Si ha un bel dire di voler dire la propria solo mettendo a disposizione la retrovia mentre sono gli altri a rischiare la pelle. Quello che accade in Libia in queste ore non è una scampagnata. Se si pensa, ed io lo penso, che fosse giusto e necessario intervenire militarmente si abbia il coraggio di dirlo e di rivendicarlo, si dia innanzitutto al Parlamento la possibilità di discuterne pubblicamente e con trasparenza e si dia ai cittadini la possibilità di conoscere e decidere.