Il corpo del Santo

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Ci sia consentito l’inconsentibile ma la traslazione della salma di Padre Pio a Roma per il Giubileo non è un buon segno. Non lo è per tanti motivi. Il primo è che il Vaticano con il Frate ha sempre avuto un rapporto piuttosto controverso. Non amato in vita, così come non lo amava il regime fascista, ne ha tollerato il culto prima perché capace di garantire coesione e consenso popolare poi perché, negli anni della secolarizzazione spinta della società, era rimasta una delle poche figure genuinamente popolari della Chiesa Cattolica. Non è un buon segno, da laico e laicista sia chiaro, perché ritorna centrale ai fini della devozione non l’insegnamento, l’opera e il mistero del Santo ma il suo corpo, la reliquia, l’oggetto di devozione. Un ritorno al medioevo dove il rapporto tra clero e popolo era mediato dagli oggetti apotropaici e mitici, in una sorta di “semplificazione” ad uso delle masse del discorso divino. Padre Pio è paradigmatico di un modo di intendere, da parte della Chiesa Cattolica, il rapporto con i propri fedeli, più il frate è esaltato e meno è matura la considerazione che il clero ha dei propri fedeli. Il fatto che sia proprio Papa Francesco a riportare in auge Padre Pio credo qualche dubbio possa porlo.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.156 del 6 febbraio 2016.

Lotta di classe al Kebabbaro

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La lotta di classe non è conclusa come spesso ci dicono. Non si combatte nemmeno solo nelle periferie o davanti ai cancelli dei magazzini della logisitica.

Vi è una lotta di classe quotidiana, non violenta ma non per questo non cruenta, che si combatte, per esempio, nel centro storico di Firenze. Una lotta di lunga durata, ininterrotta, che vede ormai soccombere proletariato, borghesia liberale e semplici cittadini. Una lotta che non vede cambiamenti significativi di fronte da quasi sempre e che ha avuto, la più recente, battaglia decisiva nella pedonalizzazione di Piazza Duomo e soprattutto nell’impedire il passaggio della tramvia dal centro storico. Un’operazione che ha portato a dare un limite, un perimetro, al centro storico, favorendone la trasformazione in compound. Ennesimo processo di gentrizzazione, isolamento: il ghetto del bello, usufruibile formalmente a tutti, ammiccante in realtà a turisti e clienti. Una volta delimitato il perimetro si procede alla “pulizia”.

Ecco dunque l’ultimo tassello, il provvedimento contro i cosiddetti minimarket. Atto in cui elementi di Stato Etico si fondono con la brama del capitale (ché solo i rivoluzionari da tastiera confondono il capitale col liberismo e dimenticano che il primo ha sempre fatto migliori affari con gli statalisti che con i liberali) al suono di parole come decoro, salute, pulizia e bellezza. Un provvedimento talmente classista che ha fatto gridare al razzismo chi, ormai disabituato a usare categorie politiche, maneggia soltanto quelle sociali. Un intento e un pensiero che sappiamo estraneo ai nostri amministratori ma che la natura del provvedimento ha reso passibile di fraintendimento.

Il pubblico che torna a dare patenti di liceità: Tiger (quella simpatica catena di chincaglierie made in china) sì perché nordico e lindo, the king of Lahore no perché privo di lampade di design (spesso di lampade toutcourt) e diciamocelo piuttosto sudicio.

Una lotta in cui non ci è stato risparmiato, almeno per pudore del ridicolo, la retorica del cancro da estirpare, così maschia e virile. E’ in gioco la salute dei nostri figli! Quelli a cui abbiamo abdicato il nostro ruolo di educatori preferendo indossare la maschera più semplice (ma dozzinale) dei guardiani.

L’alcool quindi, il nemico, feticcio secolare dei proibizionisti di ogni risma. L’alcool come nemico della meglio gioventù, quella che si riprende il futuro. E ho tremato passando davanti a Procacci, con in vetrina le sue splendide bottiglie di ottimo Chianti. Anche lui un nemico? O forse saranno i tre bicchieri a garantirci come già fecero le stelle gialle?

Una siffatta battaglia poi è talmente perfetta che salda gli entusiasti del capitale, buttafuori addetti alla door selection su base censitaria, agli optimates del belllo. I tutori dell’arte e della bellezza, conservatori e tutelatori, progressisti reazionari che sognano un mondo di fruitori del bello a cui loro han dato educazioni e patenti di apprezzabilità. Pronti a brandire oggi la Costituzione Repubblicana come, ieri, brandivano il libretto rosso; non avendo probabilmente letto sino in fondo nessuno dei due.

Capaci di indignarsi per i manifesti sui restauri (e meno male) ma in fondo felici per la ripulitura dal piccolo minimarket africano, così fuori contesto.

Oggi più di ieri si avvertirebbe il bisogno di una Rivoluzione. Liberale.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.155 del 30 gennaio 2016.

Vite peccaminose al soglio di Pietro

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In tempi di papisti entusiasti che non ti aspetti, leggersi le vite dei Papi attraverso le storie, inventate, calunniose, apocrife, dei cronisti lungo il corso dei secoli può essere un’operazione molto utile e interessante. Per questo, Vite efferate di Papi (Quodlibet 2015) di Dino Baldi è volume attualissimo pur narrando storie da San Pietro a Pio IX, raccolte col rigore del filologo ma scritte con la penna del romanziere. Un bel tomo la cui mole non deve spaventare vista al scorrevolezza del testo e le appassionanti vicende narrate. Papi ritratti dai propri contemporanei nei loro vizi, nei loro crimini e nelle meschinità delle storie che hanno sempre accompagnato la corte pontificia. Storie inventate, romanzate, degne comunque di passare alla storia perché narrate. E si badi che Baldi, col rigore che gli è proprio, usa fonti cattoliche, mai luterane, non cede quindi alla tentazione di dar voce ai nemici della Chiesa, dando così alibi ai suoi eventuali critici. Storie di disumana bassezza, di lussuria, delle peggiori aberrazioni umane ma anche di giustizia secolare, torture e decapitazioni compiute dagli eredi di Pietro che si mischiano alle grandi e sovrumane bontà, alle mortificazioni di carne e spirito nel nome del Signore, tanto che, nella lettura si è presi spesso dal dubbio che siano proprio i cosiddetti papi “buoni” a esser passati alle cronache come i più efferati tra gli efferati.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.154 del 22 gennaio 2016

Una buona comunicazione e un canale.

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Ormai le pagine web paiono (qui da noi) finite. Tutto è social. Dall’informazione, al customer care, tutto è rarefatto, temporaneo, breve. Tutto dura il tempo di un tweet presto scordato. Un modello paradossale dove l’ultramoderno convive con i fax, le carte da bollo. Stesso speculare modello di (scarsa) partecipazione e diffusione delle informazione e di conseguenza alle scelte. Un tema enorme che ha a che fare sul dibattito sul populismo (ormai tutto è populismo persino i populisti che rinfacciano agli avversari di essere populisti), sulla qualità delle nostre democrazie e più in generale sul diritto alla conoscenza.

Ancora più in generale il tema dell’approfondire le notizie pare ormai fuori moda. I giornali online calcolano i tempi di lettura dei propri articoli, i direttori di giornali chiedono ai propri redattori di considerare la soglia di attenzione dei lettori al pari di quella di un dodicenne (quando va bene). Tutto è rapido, leggero, etereo. Buono per durare il tempo di una mezza giornata.

Quindi quando ti imbatti in qualcosa di diverso, di approfondito senza essere pesante, ti senti rinfrancato. A me è capitato girellando sul sito della città di Parigi. Una città che è tante cose ma anche un luogo in cui la gente vive con gli stessi, più o meno, problemi di qui. Compresi i lavori pubblici. Capita quindi che uno dei luoghi a me più cari, il canale  Saint-Martin, debba essere completamente svuotato per manutenzione.

Un lavoro lungo, tre mesi, complesso ma indispensabile che toglierà a molti uno dei luoghi preferiti per passeggiate e ad altri una via d’acqua utilizzata come comunicazione o via di trasporto. Ecco che il comune crea una sezione di informazione sui lavori, scritta bene, in modo semplice, con capitoli ben chiari in cui spiega, mostrandoti pure l’avanzamento nella lettura del capitoletto, tempi, necessità dei lavori, modalità di esecuzione. Persino come salvaguarderanno i pesci presenti nei canali (tranquilli non ne faranno una grigliata) e le cose improbabili che si troveranno una volta prosciugato il canale (auto, motorini, bici, segno che l’inciviltà non ha confini).

In definitiva, a mio avviso, una comunicazione efficace, al termine della quale, i più puntigliosi possono scaricarsi anche dei pdf per approfondire. Immagini, mappe, testi leggibili, facilmente rintracciabili. Da cittadino vorrei sempre una comunicazione così, rispetto all’apoteosi di tweet celebrativi che inondano le nostre timeline, ma mi si dirà che sono antico e che il futuro è una palla di cannone accesa e noi lo stiamo quasi raggiungendo.

Le pagine del comune di Parigi sui lavori del canale Saint-Martin le trovate qui

Il piccolo supereroe di periferia

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Paul Vacca ci regala un piccolo gioiello, sì perché Come accadde che Thomas Leclerc 10 anni 3 mesi e 4 giorni divenne Fulmine Tom e salvò il mondo, pubblicato in Italia da Clichy, è un romanzo che non ti aspetti. Tom, piccolo bambino della periferia parigina alla fine degli anni sessanta, è il ragazzino strano, quello che risolve tutti i problemi di matematica, non ha amici, e non lascia trasparire emozioni. Oggi probabilmente si direbbe che Tom soffre di autismo e il suo caso non farebbe molta impressione, ma nella Francia ad un passo dal 68 tutto questo è ancora lungi da venire. Intorno a Tom, i cui unici amici e riferimenti sono all’inizio gli amati supereroi dei fumetti americani, la sua famiglia e la classe media della periferia parigina che circonda la villetta con giardino in cui, al culmine di una scala di 18 gradini, si rintana nella sua cameretta, Tom. Vacca ha uno stile di scrittura semplice ma mai banale e pur affrontando un tema e una storia in cui il rischio del buonismo, del già visto e del banale, è altissimo, riesce, ad ogni intreccio, a stupirci scegliendo sempre la soluzione che non ci saremmo aspettati. Tom che si convince che la sua diversità è la stessa dei suoi eroi dotati di superpoteri, ci commuove ma non ci impietosisce mai, anche nei momenti tragici che la storia descrive. Quello che rimane è un libro che ricorda i grandi film francesi degli anni sessanta, personaggi multiformi, a più dimensioni e una società che si scopre mista, libera o pronta a liberarsi, ma anche contraddittoria e persino cattiva. Eppure alla fine si chiude il libro con un sorriso sul volto e una lacrima che spinge per uscire.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.150 del 19 dicembre 2015

La fissazione della vita.

Attaccante_natoPubblico su questo blog, in occasione della ripresa dello spettacolo al Teatro di Rifredi i prossimi 18, 19, 20 e 21 novembre la recensione apparsa su CulturaCommestibile nel febraio di questo anno in occasione della prima nazionale al Teatro Carlo Monni di Campi Bisenzio.

Ci son cose che ti bruciano dentro. Idee che ti accompagnano. Fissazioni che non ti lasciano perché dentro sai che possono rappresentare qualcosa di davvero importante per te. Le grandi storie hanno bisogno del loro tempo però, del momento giusto. E il tempo giusto è’ quello che auguro ad Andrea Bruno Savelli che venerdì debutta con una nuova produzione al Teatro Dante-Carlo Monni di Campi. Lo spettacolo si chiama Attaccante nato, dal libro di Alessandro Alciato e Stefano Borgonovo sulla vita di quest’ultimo; grande attaccante di Fiorentina e Milan scomparso, bruciato via, dalla SLA, la stronza come la chiamava lui. Un libro, una vita, che ha ossessionato (spero mi consenta il termine) il regista fiorentino nel volerne fare uno spettacolo e lo ha portato con costanza e perseveranza (doti che sono in lui cresciute in questo tempo anche forse grazie a questo progetto) a mettere in scena questa vita, questa fissazione per la vita.

Una storia di vittorie e sconfitte, sui campi e nella vita. L’alternarsi di successi sportivi, di vita umana e di lotta alla malattia. Di caparbietà e tenacia, di un messaggio semplice ma fortissimo di speranza, di non arrendersi mai. Così la vita di Stefano Borgonovo dagli esordi alla serie A, il Milan e la Fiorentina, la coppia stratosferica e mitica con Roberto Baggio. E poi la famiglia, la malattia, la lotta, la fondazione contro la SLA. Tutto questo segnerà il racconto di Attaccante Nato, in cui il ruolo di Stefano Borgonovo sarà affidato al volto noto di Massimo Poggio. Un racconto che sappiamo essere forte ma affrontato con la leggerezza, la scanzonatezza ma anche la forza, la fisicità che Savelli ha nelle su corde autoriali e che, in questi anni, il pubblico ha imparato ad apprezzare.

Uno spettacolo che vede il Teatro Dante-Carlo Monni cimentarsi con una propria produzione, insieme al Comune di Campi e alla Fondazione Stefano Borgonovo, che rappresenta, in tempi di ristrettezze, un segnale bello e importante di investimento, di scommessa, su un’opera prima.

Come forse il lettore avrà intuito, chi scrive, su questo spettacolo, viola quel principio di imparzialità (talvolta un po’ ipocrita invero) che si dovrebbe avere nell’affrontare questo mestiere. Di ciò chiedo preventivamente scusa, ma di questa fissazione ho avuto la fortuna di veder nascere la scintilla. Poi come capita per le cose della vita, ne ho perso un po’ le tracce, sperando sempre dentro di me che la luce trovasse la sua via. E’ l’emozione dell’amico dunque a scrivere più che il dovere del cronista e quell’emozione che prende per le grandi storie, le grandi passioni umane proprio come quella di Stefano Borgonovo. Una passione che non vediamo l’ora di vedere su quel palco.

(Apparso su CulturaCommestibile n. 108 del 31 gennaio 2015 con il titolo La fissazione della vita. La sfida di Stefano Borgonovo in scena a Campi Bisenzio).

Oltre Marchionni e Landini

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Il paradosso della vicenda che ha visto Fiat, ora FCA, contrapporsi ai sindacati ed in particolare la FIOM sta nel fatto che nel momento in cui l’azienda esce dal sistema confindustriale e si fa un contratto di lavoro per sé, per la prima volta nella sua storia aziendale, diventa l’elemento trainante dell’intero sistema delle relazioni industriali italiane. Questo è uno dei punti che il libro di Paolo Rebaudengo, Nuove Regole in fabbrica (il Mulino 2015), affronta raccontando la vicenda che, dalla fabbrica di Pomigliano, ha portato la fabbrica torinese a creare un nuovo modello di rapporto con i sindacati e i lavoratori. Una delle tesi del libro, per tornare al paradosso, è che la FIAT neanche con la marcia dei 40.000 aveva mai davvero cambiato regole e liturgie del confronto sindacale e che soltanto la vicenda Marchionne Landini ha smosso un moloch tutto italiano. Paolo Rebaudengo non è un soggetto neutro della vicenda essendo stato per anni il direttore delle relazioni industriali di FIAT e il suo è un racconto dichiaratamente di parte. Proprio questo lo rende, forse, ancora più utile. Perché la vicenda FIAT è stata letta dalla grande stampa spesso in modo strumentale (di entrambe le parti a differenza di quanto afferma l’autore per il quale tutta la stampa sarebbe stata schierata con la FIOM) e mai nel merito delle vicende. Tuttavia il libro, pur essendo molto utile agli addetti ai lavori, è pensato anche per un pubblico più vasto perché indaga quello che molto probabilmente sarà lo scenario, quanto meno di confronto, tra lavoratori e imprese. Il dato di partenza infatti del libro e della vicenda viene posizionato non in un bisogno di risparmi e di contrazione dell’occupazione ma dal bisogno di FIAT di diventare un soggetto globale. Per farlo, l’organizzazione del lavoro, era e resta un elemento imprescindibile a partire, dice l’azienda, dalla misurabilità e comparabilità dai dati della produzione. Insomma la globalizzazione entra in fabbrica, pesantemente, ridefinisce uno dei terreni di scontro classici tra capitale e lavoro: l’ufficio tempi e metodi. Da questo oltre che da un bisogno di risposte quasi in tempo reale dell’impresa alle sollecitazioni di mercato discende la riforma delle relazioni industriali che diventano da accessorio delle risorse umane, parte integrante delle strategie di investimento dell’impresa e del gruppo internazionale. Su questo il confronto coi sindacati e con un certo sindacato in particolare non può essere più distante. E’ distante per cultura e, verrebbe da dire, per dimensione di riferimento. Non è un caso che la battaglia da sindacale si sposti quasi subito sul piano legale, dove le fortune dell’azienda sono molto meno certe che in fabbrica e, va detto, tra i lavoratori che hanno sempre approvato i vari accordi. Dunque un sindacato che, da parte aziendale, viene visto come un elemento non capace di capire i tempi attuali della produzione ma attaccato soltanto al diritto e alla sua funzione politica generale. Senza sposare in pieno la tesi aziendale (il sindacato deve essere anche agente politico/sociale e il conflitto esiste e dunque va governato) appare evidente una difficoltà esplicita del movimento sindacale a entrare in contatto in primis con gli strumenti culturali di questi tempi, apparendo come legato a logiche e manifestazioni non più rispondenti al proprio scopo sociale e finendo in alcuni casi, come quello della FIOM, a far sembrare prevalente l’aspetto politico orizzontale su quello della difesa e dello sviluppo dell’occupazione e della qualità del lavoro. Non sono però lesinate critiche anche alle organizzazioni datoriali in particolare Confindustria, dalla quale FIAT per firmare un proprio contratto è costretta ad uscire, vista comunque come un elemento conservativo e ritardante del processo di espansione del gruppo. Un libro interessante, infine, per la sua visione di prospettiva; perché lo scenario che si intuisce al termine di questa stagione vertenziale in FIAT è un modello sul quale si discuterà nei prossimi anni, un modello fatto di meno rappresentanza nazionale, di maggiore contrattualità aziendale, forse di contratti unici di “cornice” e di un nuovo rapporto tra aziende e sindacati fatto meno di principi e più di tecnicalità e dell’espansione di rapporti e interlocutori internazionali. Trovarsi pronti a questa stagione, da ambo i lati, sarà utile alle imprese e ai lavoratori.

Articolo apparso su www.culturacommestibile.com n.137 del 19 settembre 2015

Due olive (greche)

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Devo premettere che a differenza dei tanti (troppi) tifosi da social network io, sulla vicenda greca, ho poche certezze; tuttavia a me stupisce una cosa in questa faccenda: ci si indigna per anni per l’Europa che si occupa dell’acqua delle mozzarelle (cit.) e si invoca un’Europa che faccia politica, poi quando la fa (anche se quella politica non ci piace) come in questo caso, si dice che è un Europa di tecnocrati. Quella di questi giorni è politica; nemmeno nazionale, anzi. Quello che si è coalizzato intorno alla posizione tedesca è una specie di internazionale della destra europea (a cui non si accoda praticamente solo la destra italiana, non a caso). Questa idea della Germania che conquista la Grecia, oltre che assurda (che vuoi che se ne faccia la Germania di un’economia che esporta solo olio d’oliva o di una società elettrica che vale meno di quella di Brema) è pericolosa perché riporta il discorso all’ottocento, mentre qui siamo ben oltre. Quella di queste ore è un’Europa politica. Se non ci piace occorre batterla sulla politica, non piccarsi sui tedeschi brutti e cattivi. Qui si avverte la drammatica scomparsa del socialismo. La nostra sconfitta. Che però è mica cosa di oggi. Dopo la stagione del tentativo di addomesticamento del capitalismo globale (Blair, Jospin, Schroeder) siamo al nulla, alla subalternità di pensiero. A Fassina (per dirne uno) che indica nel Papa l’unica sinistra. Ci siamo dimenticati dei rapporti di forza (lo scriveva Gianpasquale Santomassimo su facebook l’altro giorno anche se immagino lui si riferisse più alla sinistra alla Tsipras), dell’analisi dei fatti, del concetto di egemonia. Oggi i fatti dicono che il continente Europeo è a maggioranza (culturale prima che politica) alla forze della destra liberal/liberista o mercatista (secondo le vostre preferenze lessicali), che non esiste un modello economico, sociale, culturale alternativo al cosiddetto rigore. Confondere questa egemonia con la mancanza di strutture democratiche dell’Unione è come guardare il classico dito. Certo che non esistono strutture democratiche in Europa, ma non perché i plutocrati brutti e cattivi non le hanno volute, è così perché i cittadini (laddove su queste cose si è votato analogamente a quanto accaduto con il voto al referendum greco) hanno fatto fallire quel (seppur timido) progetto, magari anche perché non è stato mai reso un progetto popolare. Una volta persa quella battaglia (della cui sconfitta molta responsabilità pesa su SPD e soprattutto socialisti francesi) non si è messo in campo niente per riprendere la lotta in altre forme. Dire oggi che serve più Europa è come dire per tutta la scorsa stagione che serviva un attaccante alla Fiorentina che la mettesse dentro. Era vero ma non serviva a molto.

 

Il passato del futuro

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Era il 1985 quando fu pubblicata la prima edizione italiana di Neuromante, romanzo fantascientifico di William Gibson, che l’anno prima aveva vinto il premio Hugo; il più importante premio letterario per la fantascienza. Quel volume uscito da noi nella serie oro dell’editore Nord, ha per sempre cambiato il rapporto della fantascienza con il futuro. Nel 1985 la rete, internet, era poco più di un esperimento, la globalizzazione non si sapeva cosa fosse in un mondo incardinato sul bipolarismo USA URSS e il potere dell’economia transnazionale non aveva dispiegato la sua forza. Eppure Gibson riuscì a disegnare un futuro in cui la connessione alle reti dati diventa fondamentale per la società, le multinazionali dominano la vita degli individui e l’urbanizzazione crea ammassi di città senza soluzione di continuità: lo sprawl o BAMA (asse metropolitano Boston Altanta). Certo la rappresentazione grafica del cyberspazio gibsoniano è totalmente diversa dalla normalità del nostro internet, le arcologie delle multinazionali non sono diventate la regola urbanistica (anche se certe tendenze di molte archistar hanno qualche debito con questa teoria) e soprattutto nessuna Las Vegas spaziale orbita intorno alla terra. Eppure il futuro di Gibson conteneva tante tracce del nostro presente, esasperate in un’allegoria come solo la migliore fantascienza sa fare. Per esempio l’individualismo estremizzato (Gibson scrive negli anni dell’edonismo reaganiano) e la totale assenza di ogni struttura politica o statuale ad esclusione del potere repressivo o la successione di guerre e conflitti. Gibson elabora ed esaspera, attualizza, il pessimismo di Philip K. Dick e ne riprende uno dei temi centrali di Do Androids Dream of Electric Sheep? (da cui Ridley Scott trarrà le varie versioni di Blade Runner) ovvero il rapporto tra uomo e macchina. Anzi tra uomo e intelligenza artificiale. Quelle che per Turing (omaggiato non a caso da entrambi gli autori) e la comunità scientifica sono in grado non tanto di apprendere ma di rappresentare la propria conoscenza. In parole povere di pensare, seppure in modo diverso da un essere umano (col paradosso che nessun essere umano potrà mai descrivere un modo diverso di pensare da quello con cui pensa). Ecco quel nodo e quel tema, l’interazione con Neuromante e Invernomuto o i replicanti di Dick, ci appare ancora oggi fantascientifico, irreale. Eppure anche quel futuro è molto più vicino di quello che speriamo. Software in grado di apprendere, potenze di calcolo inimmaginabili sono già oggi realtà e tutti i giorni ci sottoponiamo a test di Turing ogni qualvolta immettiamo un codice CAPTCHA (quelle combinazioni di numeri e lettere scritti strani) per accedere a servizi online e dimostrare così di non essere macchine. Insomma il futuro di Gibson rimane maledettamente attuale e la cultura pop americana continua ad interrogarsi sul rapporto tra uomo e intelligenza artificiale in un percorso che arriva fino agli Avengers che combattono Ultron in questi giorni nelle nostre sale cinematografiche, come nota Raffaele Alberto Ventura su internazionale.it, colpevole soltanto di non citare Gibson tra i riferimenti dell’ultimo blockbuster Marvel. A partire da Gibson abbiamo preso coscienza marxianamente che androidi, multinazionali e supercomputer continueranno a popolare i nostri sogni e incubi di cittadini occidentali e costituire un immaginario collettivo fondamentale in società modellate sempre più da comunità di informatici e scienziati, che prima di diventare tali, sono stati NERD divoratori di fantascienza.

Articolo apparso su www.culturacommestibile.com n.121 del 2 maggio 2015