L’occidente decadente e reazionario

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 1 settembre 2011.

Se ho ben interpretato le parole del governatore della BCE Trichet, sentito negli scorsi giorni dal Parlamento Europeo, in Europa non mancano i soldi, che anzi ci sarebbero eccome, ma l’economia è bloccata per la paura ed il timore, sia rispetto ai debiti pubblici che all’andamento dell’economia europea ed americana. Insomma una versione tecnica e colta dell’affermazione berlusconiana della crisi soltanto psicologica. Personalmente credo che la paura c’entri fino ad un certo punto; credo però che su una cosa Trichet abbia pienamente ragione, cioè sul fatto che i soldi ci siano eccome.

Anche le settimane di speculazioni estreme su Italia, Francia e (in parte) Germania hanno sì bruciato miliardi che però non sono scomparsi nel nulla ma, nella stragrande maggioranza dei casi, sono passati dai piccoli ai grandi investitori. La crisi ha quindi accentuato la forbice fra ricchi e poveri, travolgendo spesso il ceto medio (quello vero e non quello di cui parlano Casini e la CEI per eliminare il contributo di solidarietà per i redditi personali superiori a 90.000 Euro) e bloccato la redistribuzione di redditi e ricchezze. In questo senso l’accumulazione di ricchezza in poche mani spesso ha come corollario la riduzione delle forme (e della sostanza) della democrazia e delle forme di partecipazione sociale e politica che senza arrivare alle oligarchie dell’est europeo rappresentano un modello molto distante dalla democrazia rappresentativa pur mantenendone le istituzioni.

Negli anni ’90 andava per la maggiore un economista, Amartya Sen, che ha a lungo spiegato come il modello di sviluppo indiano fosse migliore di quello cinese, grazie alla democrazia e all’istruzione. Osannato dalla sinistra in cerca della terza via è stato riposto in tutta fretta, trafitto dalla crescita cinese e dal turbocapitalismo che ci spiegava come la Cina avrebbe rappresentato un mercato per noi occidentali in grado di “bastare” alla nostra crescita. Forse andrebbe ripreso in mano oggi Sen, cercando di legare sviluppo alla redistribuzione dei redditi, impedendo l’accumularsi di fortune nelle mani di pochi, ben coscienti che una società di consumi non avrà mai abbastanza ricchi per crescere coi soli beni di lusso.

Nei giorni in cui la nostra attenzione è (giustamente) tutta concentrata sul solo debito pubblico, non bisogna dimenticare di ascoltare quei pochi, siano liberali convinti che la crescita si avrà con meno Stato e tasse, siano socialdemocratici convinti che siano necessarie politiche e servizi per la redistribuzione della ricchezza, che dicono che il rigore dei conti e il pareggio di bilancio rischiano di essere solo un modo sereno di giungere alla decadenza del nostro occidente.

Tripoli e la verità su Bologna e Ustica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 25 agosto 2011

In un estate di crisi, manovre e guerra in Libia è passata senza molto clamore la notizia che la Procura di Bologna ha aperto un’indagine contro due terroristi tedeschi in passato affiliati al gruppo terroristico di Ilich Ramirez Sanchez più noto come Carlos o lo sciacallo.

L’indagine segue la cosiddetta pista palestinese per l’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. La strage più efferata che il nostro Paese abbia mai subito. Ora per tale strage la giustizia italiana ha già giudicato colpevoli tre terroristi neofascisti uno, Ciavardini, come esecutore materiale e i restanti due Mambro e Fioravanti come secondo livello della strage a cui, dicono i giudici, era sovraordinato un terzo e forse persino un quarto livello strategico dei cosiddetti mandanti. Mandanti i quali risultano tuttora sconosciuti.

La tesi passata in giudicato è quella della strage fascista, volta a proseguire la strategia della tensione e una svolta autoritaria del Paese, con connivenze in settori deviati dello Stato e dei cosiddetti poteri forti.

Una tesi che però, anche nello stesso percorso processuale, ha presentato molte ombre e che non ha mai chiarito né chi fossero  i mandanti (su questo l’indagine è ancora in corso), né come i tre operarono quel maledetto 2 agosto (Mambro e Fioravanti non erano a Bologna e Ciavardini all’epoca era poco più che un ragazzino minorenne). I tre poi si sono sempre detti innocenti mentre hanno confessato ogni altro delitto (e purtroppo sono molti) commesso; il che naturalmente non prova niente ma insieme agli altri elementi monta il dubbio.

Tesi da complottisti si è risposto. Sinora, perché l’apertura dell’inchiesta Bolognese ridà corpo alla pista straniera, che vede Bologna (e poco dopo Ustica) come tragico crocevia tra OLP, libici, israeliani e americani.  Una tesi evocata da più parti, compreso Francesco Cossiga e lo stesso Carlos che in un’intervista del 2008 parlò anche della strage di Bologna in questi termini.

La presenza poi di uno dei due tedeschi a Bologna era emersa dai lavori della Commissione parlamentare Mitrokhin attiva dal 2002 al 2006. Come mai si sia aspettato sino al 2011 per le indagini della procura appare di difficile spiegazione.

Oggi tuttavia proprio gli avvenimenti libici potrebbero segnare un punto di svolta, con l’apertura degli archivi del regime o l’eventuale processo ai leader dello stesso regime.

Il vicolo cieco e la rivoluzione

Dal Nuovo Corriere di Firenze 11 agosto 2011.

C’è almeno un paradosso pericoloso nella crisi che stiamo vivendo. Da ogni parte ci dicono che il neoliberismo è fallito ma contemporaneamente le misure che ci vengono via via imposte null’altro sono che continuazione di politiche fortemente influenzate dal pensiero neoliberista.  Basti pensare alla discussione sull’inserimento in Costituzione del vincolo di pareggio di bilancio. Una misura che limita il potere dei governi, e dunque della politica, di fronte ai meccanismi dell’economia e della contabilità. Si badi bene, questo non vuol dire che sia bello indebitarsi “a bocca di barile” ma subordinare le politiche sociali e i servizi da dare ai cittadini (scuole, ospedali, trasporti…) ai meccanismi contabili è la prosecuzione (o meglio l’aggravamento) delle politiche di vincolo degli anni novanta (ricordate Maastricht?) che non hanno risolto i problemi strutturali del Paese.

Non c’è speranza (gli ultimi 18 anni sono lì a dimostrarlo) di  uscire dalla crisi senza uno scatto di cessione di sovranità vera verso strutture sovranazionali finalmente politiche e non solo monetarie. Quello che serve oggi ( e soprattutto domani) è più Europa, più Europa dei popoli e non di Stati. Una guida finalmente politica e democratica, cioè eletta direttamente dai cittadini europei, almeno dell’economia e della fiscalità europea. Già oggi vediamo il fallimento di un Europa di Stati spinti dai loro interessi nazionali. Da un lato la Gran Bretagna di Cameroon di fatto si è isolata e disinteressata della crisi europea sperando di far passare la nottata in solitudine. Le immagini delle rivolte londinesi iniziano a dirci che forse nemmeno il leone inglese potrà cavarsela da solo, di fronte ad un intera generazione che non ha nulla da perdere, nemmeno le sue catene. Sul continente le paure tedesche condizionano e spesso bloccano interventi tempestivi ed efficaci (come nel caso greco) e l’esposizione di bilancio francese rende debole l’azione francese. Col rischio davvero reale che la costruzione europea vada in fumo non solo con l’abbandono dell’euro ma con la regressione alle piccole patrie e al nazionalismo spesso carico di odio.

Eppure qui da noi si pare più interessati al destino di un singolo esecutivo (quello in carica o quello apotropaico dei tecnici) piuttosto che al respiro lungo che servirebbe per uscire dalla più profonda crisi degli ultimi trent’anni. Solo poche voci isolate o di anziani saggi (Bonino, Ciampi, Amato, Napolitano) innalzano il coro dell’Europa soluzione possibile, mentre il governo affanna e le opposizioni si chiedono se potranno reggere i tagli che i podestà stranieri o italiani imporranno ed un’intera generazione di giovani latita dal dibattito pubblico mentre il suo futuro si decide di ora in ora. Diceva Brecht che solo nei vicoli ciechi si possono fare le rivoluzioni, basterebbe non essere così tanto miopi da non vedere il muro in fondo al vicolo italiano.

Libertà di guidare

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 23 giugno 2011.

“Baby you can drive my car” cantavano i Beatles, ed era il 1965. Una canzone ancora oggi, ammesso che qualche radio la passi mai, dal significato immorale in Arabia Saudita, dove alle donne, tra le tante cose, è impedito anche di guidare. Un divieto che in questi giorni alcune giovani saudite hanno infranto, o meglio, hanno reso noto che stavano infrangendo. Perché molte donne già guidano in Arabia, tuttavia lo fanno di nascosto, per necessità o per sfida. Come la protagonista del film di Panahi, Offside, in cui una giovane iraniana voleva a tutti i costi seguire una partita di pallone decisiva per la nazionale iraniana.

Le donne saudite non possono infatti guidare perché questo comporterebbe, secondo i legislatori (tutti uomini ovviamente), un rischio per loro di contaminarsi. E’ la stessa premura verso la donna che impone loro abbigliamenti, segregazioni, cosa possano o non possano fare o vedere. Un abbraccio a cui le donne tentano, spesso disperatamente, di sfuggire, magari postando su un social network (laddove possano accedere alla rete) un video di loro stesse intente alla guida di un auto.

Naturalmente qui da noi la notizia è stata accolta e relegata tra il colore e il fatto culturale, magari qualche quotidiano ne ha fatto argomento per ricitare a sproposito la Fallaci e per riproporci bignami di luoghi comuni su islam e scontro di civiltà. Neppure una manifestazione, almeno a noi nota, di sostegno alle donne saudite al volante, così come nulla di rilevante si è visto per le donne egiziane escluse dalla rivoluzione dei ciclamini o sulle mille vessazioni che il corpo e l’anima della donna subisce in tante parti del mondo anche non islamiche. Eppure una strage israeliana al confine con la Siria, orchestrata da quest’ultima col chiaro scopo di distogliere l’attenzione sulla già poco attenzionata crisi interna, ha subito fatto scattare decine di militanti in piazza anche qui da noi.

Ecco ci piacerebbe un corteo per le donne saudite al volante, in cui magari noi maschietti si canti a gran voce “baby you can drive my car, and maybe I’ll love you”

Nemmeno la guerra

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 aprile 2011

Fossi io il dottore di Romano Prodi mi preoccuperei e molto. Avvertirei il professore e sensibilizzerei la moglie e i figli di non leggere alcun quotidiano, né nazionale né internazionale, suggerirei un viaggio in qualche sperduta isola della Micronesia e assoluto riposo. Già perché le coronarie del professore, seppur dotato di inumana pazienza forse potrebbero non reggere a quanto in questi giorni avviene in Italia. Sì perché vi ricordate come fu crocifisso il governo Prodi e la sua maggioranza perché il Carneade Turigliatto decise di non votare il finanziamento alla missione in Afghanistan? Non c’era editorialista, di destra o sinistra, opinionista, barbiere o tassista del Paese che non deplorasse la mancanza di coesione e coerenza della maggioranza di centrosinistra. Chi dimentica le ardite teorizzazioni sul centrosinistra con o senza il trattino, le vocazioni maggioritarie e ogni ammennicolo teorico che l’esercito di politologi ha confezionato a partire dalle defezioni di Rossi e Turigliatto? Oggi invece un Ministro e per di più leader del secondo partito della coalizione di governo, partito che al Nord rivaleggia col PdL per consensi, governa regioni, province e comuni dice che non è d’accordo col Presidente del Consiglio sull’intervento militare in Libia e non succede niente di paragonabile almeno per il momento. Il premier stesso continua a dire che non c’è problema (e figurarsi), Frattini con ancora in mano il blocchetto delle ordinazioni minimizza e dice che non c’è bisogno di un passaggio parlamentare, mentre nella Lega cresce il malumore più in funzione elettorale o di appoggio a Tremonti sulle vicende parmalat e Draghi. Ci siamo ormai rassegnati ad una compagine di governo che riesce a mandare in vacca di tutto, persino la guerra. Nemmeno le più immani tragedie scalfiscono un governo e un premier che pur di restare sulla poltrona son disposti a tutto peggio dei peggiori “professionisti della politica” da loro tanto disprezzati; talmente disperati da svendere le loro stesse leggi come per l’energia atomica o a mandare in guerra (e dunque sottoporli al rischio concreto di essere ammazzati) cittadini italiani senza appoggiarli, senza nemmeno poterli ringraziare. Nella quasi indifferenza del Paese ed in particolare di quella copiosa parte del Paese che li ha votati e li voterebbe ancora. E allora ci immaginiamo che Prodi accetti il nostro consiglio e che magari, generosamente, ci porti con sé su un atollo della Micronesia.

Le convergenze parallele della destra ugrofinnica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 21 aprile 2011

L’Ungheria e la Finlandia, paesi a primo avviso che più distanti non si può, sono invece legati dal medesimo ceppo linguistico: quello ugrofinnico per l’appunto. Una comunanza linguistica a cui in questi giorni si sono accomunate due vicende inquietanti e pericolose nella nostra Europa sempre più integrata e sempre più esplosiva. Da un lato l’ascesa dell’ultradestra finnica alle ultime elezioni e dall’altro la nuova costituzione magiara che rappresenta un pericoloso modello di contrazione della democrazia anche sul piano formale.

Il fenomeno finlandese non è nuovo, purtroppo. In molti paesi europei di fronte alle paure legate alla crisi economica e all’immigrazione, la risposta di chi soffia su queste paure e propone soluzioni drastiche e repressive dei problemi suscita un appeal verso l’elettorato spesso meno istruito e più povero. Un fenomeno già visto in Francia, Olanda e Germania e che ebbe nel governatore della Carinzia Haider un precedente anche per quanto riguarda la presenza e l’importanza nei governi nazionali degli stati. In Finlandia il partito di Timo Soini passa dal 4 al 19% divenendo fondamentale in ogni possibile combinazione governativa. Quello che colpisce è il momento in cui questa vittoria avviene, cioè quando è forte il riflusso dell’idea d’integrazione europea e la destra “classica” rischia di essere trascinata in una corsa al ritorno degli stati nazione, mentre la sinistra progressista e socialista, rimasta orfana di un modello vincente, stenta a ritrovare modi e valori con cui riproporsi all’elettorato, soprattutto popolare.  Insomma c’è il rischio che i finlandesi possano fare da apripista, spostando l’asse della destra europea (al momento al governo quasi ovunque) verso un euroscetticismo o peggio un’ostilità piena verso Bruxelles fino alla disgregazione dell’Unione, soprattutto se la crisi richiederà sforzi ulteriori per salvare altri paesi dopo Grecia, Irlanda e Portograllo. Il fatto che tra questi paesi possa esserci l’Italia non dovrebbe farci trascurare la cosa.

Fa poi specie che sia il nord scandinavo, portato a modello da noi come IL modello progressista di riferimento, appena sia leggermente minacciato il proprio stile di vita e sviluppo faccia schizzare a doppia cifra partiti per cui la nostra lega nord pare un’accolita di moderati.

Il caso ungherese invece dice molto su come la democrazia sia un concetto in divenire. La nuova carta magiara, oltre ad essere permeata di un forte spirito confessionale, attua una distinzione di diritti tra i cittadini magiari e le minoranze etniche. Viene dunque meno uno dei cardini delle costituzioni democratiche come le conosciamo e riappaiono fantasmi in territori segnati nel secolo scorso profondamente dai conflitti etnici. Oltre a ciò la nuova costituzione segna limitazioni dei poteri di garanzia, primo su tutti quello della corte costituzionale, nei confronti dell’operato del governo e della maggioranza parlamentare. Un processo di accentramento di potere che si somma alla legge sulla libertà di stampa approvata nei mesi scorsi che limitava già fortemente un altro fondamentale potere di controllo.

Ben poco rassicurante pare essere la presenza di un complicatissimo sistema elettorale che dovrebbe impedire derive plebiscitarie e lo strapotere di un singolo partito, visto che le ultime elezioni hanno visto la creazione di un forte esecutivo di destra.

Se dunque sono questi i venti che spirano dal nord e dall’est europeo ci pare ancora più surreale il dibattito politico italiano tutto bloccato a discutere della riforma della giustizia per uno solo. Da parte delle forze progressiste invece sarebbe l’ora che si tornasse a porre al centro la patria europea e non l’Europa delle sole regole.

Italiani, mica scemi di guerra

Di seguito l’articolo completo pubblicato sul Nuovo Corriere di Firenze del 24 marzo 2011.

Quando era presidente Massimo D’Alema e l’Italia era impegnata sopra i cieli del Kossovo fu coniata l’espressione di difesa attiva, che faceva capire che i nostri aerei partecipavano ai bombardamenti ma in modo diverso a quello di altri Paesi. Con Berlusconi presidente si abbandonano i sofismi della lingua politica e si proclama un più spiccio “i nostri aerei sorvolano la Libia ma non bombardano”. In entrambi i casi sono parole che pesano, sia internamente che nei rapporti internazionali. All’interno suonano ipocrite, mistificatorie, e sicuramente ingenerose per quei professionisti che stanno rischiando la vita sopra i cieli di Tripoli mentre i loro connazionali si convincono che siano lì per voli di piacere. Una posizione che, peraltro, convince pochi, forse solo quel parlamentare PD che nei mesi della finanziaria chiedeva sul proprio profilo facebook di togliere soldi all’acquisto di aerei militari per destinarli alla scuola e poi nei giorni scorsi reclamava a gran voce, sulla solita pagina, l’avvio della no-fly zone. Sono parole che hanno a che fare con la costituzione materiale e formale del Paese. Dal punto di vista formale sono meccanismi che allontanano le decisioni del Parlamento e danno quasi carta bianca all’esecutivo non solo nella condotta delle azioni militari, che è sacrosanto, ma anche della loro legittimazione, dei confini e dei compiti di quell’azione stessa. Dicendo che non siamo in guerra o coinvolti in azioni militari dirette l’esecutivo scansa il dibattito parlamentare e si riserva aree in cui muoversi. Un meccanismo che esiste in altri ordinamenti, quello americano per esempio, dove il Presidente ha il potere di agire ma all’interno di meccanismi di controllo certi e per un periodo di tempo breve e limitato: poi deve comunque rendere conto al parlamento. Da noi, no. E il modo che il Parlamento ha per mettere bocca nelle “missioni di Pace” è quasi esclusivamente quello del finanziamento delle missioni stesse. Basti pensare che al momento i nostri aerei sorvolano un Paese formalmente a noi alleato in virtù di un vergognoso trattato di amicizia, non ancora sospeso o cancellato, di cui si preferisce non parlare visto che fu votato da tutti con l’eccezione di Radicali, UdC e due deputati PD. L’altro punto ha a che fare con la retorica di pace e col profondo sentimento “pacifista” che pervade l’opinione pubblica italiana, ed è qui che la cosa, a parere di chi scrive, si fa ancora più ipocrita. Io rispetto i pacifisti convinti e integrali, apprezzo meno chi impegna i propri soldati in missioni internazionali e poi le definisce missioni di pace, si fa bello in tv del fatto che i propri aerei sorvolano il campo nemico privi di armi come in Afghanistan (con peraltro un evidente controsenso economico visto quanto costa mantenere mezzi come quelli). L’Italia partecipa attualmente a missioni importanti e pericolose. I suoi soldati muoiono, il suo strumento militare è, con difficoltà, messo in grado di operare alla pari con quello degli altri paesi occidentali, i nostri militari partecipano e sono apprezzati dagli alleati, comandano altri contingenti eppure qua da noi continuano a essere dipinti come crocerossine col fucile. Una retorica che influisce anche nel ruolo internazionale del Paese e ne rende deboli, come accade in queste ore, le richieste di contare di più nella definizione di compiti e strategie degli interventi. Si ha un bel dire di voler dire la propria solo mettendo a disposizione la retrovia mentre sono gli altri a rischiare la pelle. Quello che accade in Libia in queste ore non è una scampagnata. Se si pensa, ed io lo penso, che fosse giusto e necessario intervenire militarmente si abbia il coraggio di dirlo e di rivendicarlo, si dia innanzitutto al Parlamento la possibilità di discuterne pubblicamente e con trasparenza e si dia ai cittadini la possibilità di conoscere e decidere.

Ciclamini non mimose

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 10 marzo 2011.

Di dignità delle donne nel nostro Paese si è parlato a lungo in queste settimane. Lo si è fatto a partire dalle note vicende delle feste di Arcore e dei comportamenti, non certo specchiati, del nostro Presidente del Consiglio, intanto a poche centinaia di chilometri la speranza di dare, finalmente, dignità alle donne d’Egitto veniva vanificata e diventava la prima (temiamo non l’unica) vittima delle Rivoluzioni dei ciclamini. Intanto la commissione che dovrà definire la nuova Costituzione egiziana non ha al suo interno nemmeno una donna. E pare già un fatto grave, almeno a chi scrive. Poi ieri, non a caso l’8 marzo, la manifestazione delle donne egiziane è stata un insuccesso. Per due motivi uguali e contrari. Intanto in quella piazza, diventata famosa nelle scorse settimane, si sono riversate poche migliaia di donne mentre la maggior parte anche di quelle che erano scese in piazza contro il tiranno Mubarak è rimasta a casa, dove gli uomini, novelli rivoluzionari, le hanno “consigliate” o obbligate a restare. Eccolo dunque il secondo fallimento, molti degli uomini che erano scesi (a fianco di tante donne) per chiedere libertà, hanno replicato all’istanza di libertà femminile che “non è questo il momento”, rispondendo alla domanda delle donne italiane “se non ora quando?”: non ora, non qui. Ecco forse una “cacelorada” per le donne egiziane sarebbe da inserire nell’agenda delle mobilitazioni permanenti e servirebbe a manifestare oltre solidarietà a quelle donne, un opinione pubblica sensibile che preme verso le cancellerie europee. Non tanto per smuovere l’impassibile Frattini, troppo occupato a chiedersi perché la riforma tribale di Gheddafi non abbia convinto i libici, ma magari quella Clinton e quella Merkel a cui servirebbe ricordare le proprie storie e le proprie battaglie di genere al fine di far prevalere, almeno un poco, le idealità rispetto alla ragion di Stato.

Le due sponde della rivolta (reprise)

Dato che il sito di Labouratorio è ancora sotto attacco informatico pare da parte dei cinesi pubblico qui l’articolo che mi era stato pubblicato.

Poco più di 600 chilometri, separano Roma da Tunisi. Due capitali in rivolta se si da per buona l’interpretazione di chi legge i movimenti degli studenti dei mesi scorsi come altro e di più della lotta a una modesta riforma universitaria.

Quanti giornali, analisti, commentatori, politici ci hanno raccontato di una generazione che scendeva in piazza perché le stavano rubando il futuro? Gli stessi che, probabilmente troppo occupati a immaginare il regime italiano, non si accorgevano di un regime (quello sì non democratico) che crollava davvero e alle porte di casa nostra.

Da un lato una generazione, come raccontava Labouratorio nel numero 52, con la pancia piena, spesso privilegiata, che finiva per difendere lo status quo, piuttosto che lottare per una riforma reale e piena del loro sistema di formazione.

Ma questo poco conta per i nostalgici del conflitto, coloro i quali le immagini dello scontro servivano da madeleine proustiane, per scatenare il tempo perduto della gioventù sessantottina o, più di nicchia ma più ascoltati nelle (i)stanze della protesta, del fallimento del G8 di Genova.

Lo stesso immaginario di chi lamenta la vittoria del sì a Mirafiori come opera del tradimento del “proletariato dal collare bianco”, come se oggi nel 2011 la dimensione del conflitto di classe avesse ancora quelle forme e quel lessico, come se postfordismo, toyotismo e divisione internazionale del lavoro, fossero scivolati indenni sul nostro tempo.

Dall’altra parte del mediterraneo invece la stessa generazione è scesa in piazza e ha sovvertito il potere a partire dalla più antica delle proteste: quella per l’aumento del prezzo del pane (mica del prezzo dell’iphone), lo ha fatto apparentemente senza un piano, senza una giuda definita. E oggi si trovano probabilmente spiazzati di fronte ad avvenimenti non previsti né prevedibili.

Dal nostro occidente, da troppo tempo inadeguato a capire cosa accade nel continente africano, prima abbiamo ignorato, poi ci siamo raccontati la storia della rivoluzione su twitter. L’assolutoria e rassicurante versione di una società civile, colta ed europea, pronta a portare la Tunisia nel nostro condominio occidentale.

Nulla però, a livello di governi, pare muoversi per spingere in tale direzione; anzi le uniche parole che sa pronunciare il nostro ministro degli esteri sono un elogio alla riforma locale del dittatore Gheddafi. Di fronte al tiranno che fugge si finisce per parteggiare per i suoi simili proponendo la versione aggiornata al XXI secolo delle brioches di Maria Antonietta.

Nel frattempo tutta l’Africa del nord pare in procinto di esplodere, perché nulla spinge di più di un esempio positivo. La Tunisia, Paese profondamente laico, rimane in bilico tra democrazia e fondamentalismo islamico; se la rivolta dovesse estendersi in Egitto, Algeria, Mauritania possiamo prevedere un peso assai maggiore delle forze estremiste.

Non è da oggi che Al Quaeda del Magreb Islamico ha profondamente messo radici in questi Paesi, ed è pronta a sfruttare lo spazio che la caduta dei regimi potrebbe fornirgli soprattutto verso le plebi del Cairo o di Algeri.

La comunità internazionale, l’occidente, appaiono alla finestra, incapaci di capire i rischi (ma anche le opportunità) di un Africa finalmente democratica, sospesi da un neo attivismo spesso pasticcione degli USA (vedi referendum del Sud del Sudan) e un interesse cinese che guarda ai mercati e alle materie prime senza troppo andare per il sottile su democrazia e diritti.

Infine il medio oriente, con Israele che finirebbe ancor più in trincea di fronte a un radicalizzarsi dei regimi a lui vicini, e un Libano pronto a sprofondare di nuovo in lotte, come dimostra l’uscita di Hezbollah dal governo di fronte al timido tentativo dell’ONU di celebrare i processi per l’assinio dell’ex premier.

Sarebbe allora un futuro piuttosto spiacevole quello in cui si troverebbero a vivere anche i giovani manifestanti italiani e per di più a due passi dalle loro playstation.