Giocare la tripla sull’esito della crisi

Dal Nuovo Corriere del 10 novembre 2011

Risolto il problema Mihajlovic e arrivato Delio Rossi l’argomento di conversazione preferito, almeno  nel bar sotto casa mia, è “ma icche fa i’Renzi?” domanda speculare e complementare a quella su cosa succederà a Roma e al governo.

Premesso che dare una risposta in queste ore equivale a giocare la buona e vecchia tripla al totocalcio, tutti gli scenari sembrano plausibili dopo il voto e la salita al colle di ieri di Berlusconi, anche perché le volontà in gioco sono molteplici, contrastanti tra loro e soprattutto mutevoli. Certo a leggere la bella intervista del direttore de La Stampa a Berlusconi ieri si sarebbe tentati a pensare che le elezioni a febbraio siano possibili se non probabili e per di più con Angelino Alfano candidato premier del centro destra. Tuttavia le pressioni di molti, partiti, interessi, istituzioni internazionali, sembrano spingere con forza per una soluzione tecnica in grado di intervenire drasticamente sulla situazione economica e sui conti pubblici. Di certo posticipando la sua uscita di scena dopo l’approvazione della legge di stabilità Berlusconi ha di nuovo preso in mano il boccino dei tempi e dei modi della crisi, riprendendo l’iniziativa che i “traditori” gli avevano soffiato e lo ha fatto prospettando a Napolitano, in caso di dimissioni immediate, una crisi al buio, lunga e dagli esiti incerti che sarebbe stata fatale per il Paese nella turbolenza dei mercati.

In casa PD non pare davvero chiaro quale sia l’interesse prevalente, persino nello stesso segretario Bersani che parla (e pensiamo convintamente) di governo di larghe intese ma che probabilmente, se dovesse guardare al suo tornaconto, preferirebbe elezioni immediate che potrebbero consentirgli o di saltare eventuali primarie o di non consentire ai possibili comptetitor, interni ed esterni, di recuperare quel margine di vantaggio che ogni sondaggio gli accredita. Diversamente l’appoggio ad un governo “lacrime e sangue” lo esporrebbe alla critica di chi, da fuori, potrebbe predicare ogni giorno da posizioni non esposte. Se un minimo conosciamo Bersani sappiamo che l’interesse personale non prevarrà mai di fronte all’interesse generale (o almeno in quello che egli ritiene tale) e che dunque le scelte che farà il PD saranno dettata solo da questo pensiero. Tuttavia un buon dirigente deve tenere presente gli scenari futuri e pare che, in casa PD, molti pensino che, in caso di governo tecnico, sarà necessario far succedere a Bersani un altro candidato per la corsa alle primarie future.

Dunque per tornare alla domanda del bar sotto casa, è probabile che Renzi starà a guardare, pronto a tutti gli scenari anche ad una candidatura contro Bersani in improbabili primarie natalizia, ma con una (non tanto) segreta predilezione per uno scenario di transizione e di logoramento

L’assalto al cielo che parte dalla Leopolda

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 novembre 2011.

Nel caso di Matteo Renzi, per Pierluigi Bersani, la paura fa ’80. Come gli anni 80 evocati dal segretario del PD in risposta all’adunata renziana di Firenze. Sgombriamo subito il campo, Bersani non ce l’aveva certo contro Duran Duran o Spandau Ballett, ma piuttosto verso il decennio dell’affermazione neoliberista nel mondo e di Craxi nella sinistra italiana. Un tabù che si pensava superato dopo l’apertura che fece l’allora segretario DS Fassino e che invece rimane come anatema assoluto da scagliare verso il nemico di turno. Un anatema che, nella migliore tradizione inquisitoria, della “bestia” cela persino il nome.

Ma almeno Bersani ha, come scusante, di aver pronunciato quell’anatema quando ancora il big-bang non aveva prodotto i cento punti, che, una volta letti, possono tranquillizzare chi vive come un’ossessione quella stagione di riformismo e d’innovazione del paese e ne vede tracce dappertutto  anche laddove, come in questo caso, non ve ne sono.

Perché intanto i cento punti di Renzi non sono affatto un programma di governo. E c’entra poco la vocazione wiki (un programma che si crea in rete grazie all’apporto di tutti) ma piuttosto lo scopo che i cento punti e la Leopolda II hanno. E lo scopo di Renzi non è, al momento, quello di proporsi al governo del Paese piuttosto quello di ottenere primarie libere e conseguentemente vincerle.

Non occorre quindi accanirsi contro la disomogeneità delle proposte, la vaghezza di molte e in alcuni casi il fatto che quelle cose o sono state fatte o sono in contrasto con altre proposte. A Renzi non interessa un‘idea di Paese da governare, interessa un’offerta in cui tutti, o almeno molti, possano riconoscersi e prendere un pezzettino all’interno del supermarket della contemporaneità che rappresenta (splendida definizione di Stefano Menichini direttore di Europa).

Questo è lo scopo celato sotto il “tocca a te” vergato da Edoardo Nesi: tocca a te scegliermi perché le mie 100 offerte sono lì  belle e colorate. Come lo erano quelle per i Fiorentini, cambia la scala non il marketing. Così come il frigorifero SMEG in bella posta sul palco, oggetto comune ma in versione trendy, riconoscibile a tutti ma desiderabile nel suo essere come quello che abbiamo in casa ma meglio.

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Cosa va in onda nel Pd.

 

Da Il Nuovo Corriere di Firenze del 27 ottobre 2011

 Se per capire cosa accade nel PdL forse sarebbe necessario affidarsi ad una negromante, per capire cosa accade nel Pd è forse più utile un esperto di televisione. Sarà per questo che tra i nuovi spin doctor di Matteo Renzi nella preparazione del big bang appare anche Giorgio Gori artefice della stagione più innovativa delle reti Mediaset che coincise, casualmente, anche all’apice del berlusconismo politico.

Ma torniamo al PD e al suo “palinsesto”. Da parte del leader Bersani è andato in onda nelle settimane scorse “il festival dell PD”, format classico, rassicurate che come il festival di San Remo è lì da sempre a tranquillizzare nonne e nipoti del passare del tempo. Magari non avvincente come una volta ma con un suo fascino. L’edizione del festival che si è vista al palazzo dei Congressi di Firenze non si è smentita, tra nuove proposte e big che calcano le scene da anni, riproponendo un  repertorio gradevole di facile ascolto e lettura. Poi, proprio come al festival dei fiori, quelli che han parlato vengono tutti, come i conduttori delle ultime edizioni del festival, dalla medesima scuderia, nel caso fiorentino quella dei DS. Immaginiamo che qualche problema a catturare l’audience, pardon l’elettorato, ex margherita questo lo ponga, ma non paiono curarsene troppo dalle parti del PD fiorentino.

Sabato e domenica scorsa invece è andato in onda lo spin-off della Leopolda dello scorso anno. Uno dei due protagonisti, Civati, un nuovo cast “giovane” e qualche guest star dai passati fasti a tentare di rivitalizzare un serial che partiva, nelle premesse, un po’ moscio. Ma si sa che gli spin-off (le serie che partono da una serie di successo sviluppandone temi o personaggi) sono difficilmente apprezzati dal pubblico salvo casi rari come quelli di CSI. In questo caso i due protagonisti Civati Serracchiani han tentato di “italianizzare” il format americano alla Renzi e han giocato la carta Rosy Bindi in una specie di Cameo alla Joan Collins, la cattiva di Dinasty, per attrarre pubblici anche un po’ attempati.

Che dire poi invece del sequel che andrà in onda questo fine settimana a Firenze? Stessa location intanto, la Leopolda, e format che ancora più della prima edizione punterà sul one man show, nonostante lui, la star, si spertichi nel dire che si tratta di un lavoro di squadra. Un atteggiamento che ricorda quello, rimanendo nel paragone televisivo, di Paolo Bonolis che non dimentica mai di parlare di squadra e poi occupa il video concedendo spazio solo al povero Laurenti, maschera utile a risaltarne le qualità e persino la magnanimità. In contemporanea, proprio come nelle controprogrammazioni televisive, la ditta Bersani mette in scena un appuntamento napoletano che forse vuole rincorrere i successi di “un posto al sole”.

Infine gli ultimi arrivati: i giovani curdi. Ci sia concesso ma al momento ci sembrano uno di quei programmi di nicchia che vanno in onda a tarda notte su Rai 3. Interessantissimi magari se il sonno o la noia non via hanno già portato su altri canali.

L’impietoso rito dell’analisi del voto

 

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 20 ottobre 2011.

Quando una vita fa facevo il giovane dirigente (e vabbé) politico una delle cose a cui ci insegnavano di dare più attenzione era l’analisi del voto. Rito pseudoscentifico che si compiva dopo ogni elezione, dunque molto spesso, in cui qualcuno ci spiegava, sulla base dei duri numeri, cosa era andato storto e cosa era andato bene, e dunque come modificare l’agire politico per essere più efficaci. Naturalmente ad ogni analisi gli errori erano sempre più o meno gli stessi segno che, evidentemente, tra un’elezione e l’altra non seguivamo molti di quei consigli. Deve essere per questo che oggi neanche più si aspetta la conta dei numeri per rilasciare dichiarazioni e dire le proprie verità sui risultati elettorali così come viene.

Non sfugge a questa “regola” neanche l’elezione in Molise. E dire che la prima analisi dei numeri dell’istituto Cattaneo (da cui riprendo le cifre di questo articolo) erano disponibili in contemporanea alle prime dichiarazioni dei nostri esponenti politici.

Proviamo ad andare con ordine. Tra i primi a dichiarare il Presidente della Regione Enrico Rossi che ha affermato che la colpa della sconfitta era da attribuirsi non solo ai grillini ma anche al fatto di aver scelto un candidato presidente troppo moderato. Ecco a giudicare dai dati questa analisi pare piuttosto deboluccia, almeno come gradimento degli elettori: il povero Frattura, di cui francamente ignoro la moderazione o il radicalismo, il suo l’avrebbe fatto guadagnando rispetto al suo schieramento un più 5,7% a differenza del vincitore Iorio che ha svolto la funzione di handicap rispetto al suo schieramento con un meno 9,4%.

Ma anche la vulgata, maggioritaria ed autoassolutoria, dei grillini responsabili della sconfitta lascia un po’ perplessi di fronte ai duri numeri. Il PD in Molise rispetto alle politiche del 2008 perde il 49,8% dei voti e l’Idv il 70,9%. Ben oltre i 10.000 voti presi dai grillini.

La sommatoria dei due dati, voto disgiunto e voti ai partiti, dimostra che il problema principale è stata proprio l’offerta politica del centrosinistra a non convincere gli elettori molisani che puniscono molto di più il centrosinistra che il centrodestra. Infatti nel momento più basso del berlusconismo il PdL perde, rispetto al 2006 23.787 voti con il PD che però ne perde ben 28.842.

Una causa tra le tante? Beh ecco, a modesto parere di chi scrive, dare un occhiata alle liste del PD aiuta. Non conosco nessuno dei candidati ma un dato balza all’occhio: nelle due circoscrizioni elettorali il PD ha candidato una sola donna. Una. In barba al proprio statuto, alla logica e al buon senso. Pensare di attirare in questo modo l’elettorato femminile e quello più politicamente “maturo” è, ad esser buoni, un suicidio neanche troppo assistito.

Se dunque il rito trito e ritrito dell’analisi del voto non va più di moda, cosa che ci può pure stare,  pare che le geniali strategie delle alleanze siano egualmente efficaci nel perpetrare i medesimi errori.

Tra Papi Silvio e Mamma DC

 

 

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 13 ottobre 2011

Tempi duri quelli del segretario PdL Angelino Alfano, l’uomo che più di altri dovrebbe mettere in crisi i sociologi dell’antiberlusconismo: bruttino (sia detto con rispetto), pochi capelli, accetto marcato e tempi del parlare non certo televisivi. Insomma tutto il contrario di quello che ti aspetteresti come delfino del berlusconismo; il che dimostra, ancora una volta, che Berlusconi è molto di più di quello che ci aspettiamo da lui o della caricatura che i suoi nemici di professione ne hanno fatto in questi anni, quasi a sorta di polizza della di lui vita politica.

Ma Alfano se è figlio (politicamente s’intende) di Berlusconi ha però come mamma la buona e vecchia DC dalla cui storia e affiliazione egli proviene. E per giunta dalla DC siciliana di cui era segretario giovanile ad Agrigento. Dunque ci immaginiamo la difficoltà del delfino a barcamenarsi tra la fedeltà a Silvio, che oltre ogni pronostico lo ha nominato erede, e quel movimento di ex che tra Pdl, Pd e terzo polo punta a rimischiare il campo e definire un nuovo soggetto per il dopo Berlusconi.

Un nuovo soggetto a forte vocazione centrista a cui paiono lavorare tanti ex della prima repubblica: dai democristiani Scajola e Formigoni, ai socialisti Sacconi e Brunetta per il Pdl, il sempreverde Casini per il terzo polo e il democristiano di sinistra Fioroni sul lato PD. Spettatori interessati della partita Tremonti e Veltroni (il quale ha capito probabilmente che l’attuale assetto e la sopravvivenza del PD non prevedrebbe un suo ruolo da protagonista all’interno dello stesso) e grande vecchio dell’operazione Beppe Pisanu.

Fantapolitica probabilmente ma forse un’ipotesi di lavoro sulla quale si giocano le molte ambizioni dei tanti che si sentono pronti a raccogliere la sfida del dopo-Berlusconi.

L’uccellino Italia e la volpe BCE

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 6 ottobre 2011.

La pubblicazione della lettera che la BCE ha inviato all’Italia mi ha ricordato la storiella dell’uccellino che cade nel nido e viene messo al calduccio nel fresco sterco di una vacca per poi esserne tolto dalla volpe per mangiarselo; con la morale che non sempre chi ti toglie dal letame lo fa per il tuo bene.

La ricetta infatti di Draghi e Trichet è infatti la ricetta che piace alla BCE, cioè a quell’organismo che ha per statuto la difesa dell’Euro e del sistema finanziario legato a questo. Non ha per compito quello di definire politiche economiche, linee di sviluppo e men che meno la sostenibilità sociale dei Paesi dell’Europa.

Se letta attentamente infatti quella lettera suggerisce misure tipicamente liberiste  che risentono fortemente dell’ideologia mercatista che in questi ultimi venti anni è stata egemonica e che, però, è in buona parte, anche causa della crisi che viviamo. Un‘ideologia che non è automaticamente di destra ma che può essere (ed è stata) declinata anche a sinistra talvolta con buon profitto.

Naturalmente il nostro governo ha pensato bene di non far niente o quasi di quanto scritto nella lettera, nonostante a parole si professi debitore di quell’ideologia e liberale oltre ogni dove. La verità è che lo stato dell’attuale maggioranza è tale che chi ha capito cosa quella lettera diceva non ha modo e potere di attuarla mentre il restante pezzo (maggioritario) o non l’ha capita o ha altri interessi ben più spiccioli a cui pensare.

Nemmeno stupisce la reazione contraria delle forze delle forze a sinistra del PD: da quelle parti si porta avanti, talvolta con convinzione molto spesso per moda, un ragionamento sulla felicità della decrescita e del non-sviluppo che, quando fatto dignitosamente, pone un modello alternativo a quello pensato dai vari Draghi e Trichet.

Quello che invece colpisce è la reazione delle forze che si dicono riformiste. Basta pensare che il povero Fassina, responsabile economico del PD, per aver mosso qualche critica alla lettera è stato subissato di critiche da buona parte del suo partito che, evidentemente, rimane succube del modello neoliberale. Niente di male si potrebbe dire se non fosse che, di quel modello, o se ne prendono pezzetti alla bisogna (l’amore per il primo blairismo, la nuova razza padrona del D’Alema a palazzo Chigi, ecc…) per poi scaricarli con eguale facilità, applicandolo solo alla convenienza immediata mantenendo però in vita comportamenti, azioni e proposte di segno completamente opposto.

E stupisce ancora di più che di fronte a esponenti dichiaratamente debitori di tale ideologia, Matteo Renzi per tutti, che ne portano avanti coerentemente e (dal loro punto di vista) giustamente le idee facendone discendere proposte politiche,  chi li avversa e dice, a parole, di proporre un modello alternativo oppure una loro declinazione più legata alla coesione sociale e all’eguaglianza, non apra su questo un vero confronto e una riflessione. Unico modo, peraltro, per risolvere il problema dell’identità e del futuro del partito.

Chi quindi nutre ancora una qualche speranza di potersi ritrovare in un pensiero riformista, socialdemocratico deve ancora attaccarsi all’apporto di grandi vecchi che continuano a riflettere, come faceva ieri su La Repubblica, Giorgio Ruffolo e spera davvero che il rinnovamento generazionale sia magnanimo almeno con loro.

Se Matteo lanciasse Emma

dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 settembre 2011

Scriveva l’Ariosto: “forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore”. E così pare accadere in queste settimane a Matteo Renzi quando, intervistato per ogni dove, dichiara che prima di candidarsi alle primarie del centrosinistra preferirebbe trovare qualcuno di più adatto, preferibilmente una donna. Se dunque volessimo dar ragione al poeta e inseguire il vero celato dall’inverosimile, dovremmo iniziare a pensare che il Sindaco di Firenze abbia già in mente una donna pronta a guidare il Paese nei prossimi anni, non legata all’establishment democratico (e politico in generale), dinamica e capace di un agenda di riforme in sintonia con la rottamazione renziana.

Seguendo tali tracce non potremmo che imbatterci in Emma Marcegaglia. Non politica, dinamica, in allontanamento palesemente sonoro dal centrodestra e da Berlusconi; capace di calamitare su di sé le aree liberal dei democratici e i montezemoliani ben felici di superare così il ben poco appeal che il loro candidato perenne  suscita fuori e dentro il palazzo e probabilmente rispondente agli standard di moralità indicati dai Vescovi.

Appare dunque più chiaro forse, il senso dell’iniziativa dei giorni scorsi che proprio a Firenze ha visto l’intervento più politico della presidente di Confindustria, giocato di sponda con quel Mussari, presidente ABI e MPS da sempre perno della finanza rossa DS prima e democrat oggi e che ha avuto come padroni di casa i fratelli Bassilichi da sempre legati a Renzi e tramite di questo col mondo senese.

Infine come dimenticare il legame tra il presidente dei giovani industriali, il fiorentino Morelli, e il giovane Sindaco; legame che si data dai tempi della presidenza della provincia da parte di Renzi. Ed è proprio il presidente dei giovani industriali uno dei suggeritori più ascoltati della Marcegaglia come dimostra l’insistenza sul sistema pensionistico a favore dei giovani che la presidente di Confindustria cita quasi ad ogni intervento.

Una comunanza di programmi che si sposa benissimo con quelle che il tink tank montezemoliano elabora da diversi mesi, grazie a esponenti provenienti in larga parte dalle aree più dinamiche del partito democratico veltroniano e che fa spesso rima con le proposte immaginifiche di Renzi.

Certo rimane un punto non di poco conto. Marcegaglia sarebbe perfetta per guidare un partito o forse anche un’alleanza di centro, ma sarà pronta la sinistra italiana a farsi guidare dalla presidente di Confindustria?

Un governo sull’orlo di una crisi di nervi.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 22 settembre 2011.

Proviamo a ricapitolare. Un agenzia di rating delle tre che a livello mondiale fanno, come si dice, il mercato ha declassato il debito pubblico italiano. Lo ha fatto basandosi su dati noti, riconosciuti da tutti gli attori in campo. Anzi molti dei dati su cui Standard & Poor’s ha basato il suo giudizio sono dati forniti proprio dal governo italiano. In sintesi S&P ha detto che le previsioni di crescita dell’Italia già basse risentiranno delle misure introdotte dal governo nell’ultima manovra e del clima generale che attraversa l’Europa. Come dice, tra gli altri, il Ministero dell’Economia e la Banca d’Italia. La stessa agenzia ha poi notato che la situazione dell’esecutivo non rende presumibili riforme strutturali, come dicono le dichiarazioni di Bossi, Tremonti e Berlusconi da luglio ad oggi. Tutte cose note e stranote come il fatto che le agenzie di rating avrebbero declassato il debito italiano. Talmente note che i mercati non hanno fatto una piega, anzi i mercati hanno ritenuto le stime di S&P addirittura ottimistiche: infatti lo spread tra debito tedesco e quello italiano o i CDS (le polizze assicurative contro il rischio fallimento di un Paese) sono analoghi a quelli di Paesi con un rating molto più basso della A che ci ritroviamo.

Se questa ricostruzione è corretta appare quindi ancora più fuori luogo e segno di un evidente stato confusionale la reazione dell’esecutivo italiano di fronte al declassamento. Infatti Palazzo Chigi alle ore 8.46 del mattino ha emesso un comunicato in cui, sostanzialmente, dava la colpa del declassamento ai retroscena dei giornali e ad una manovra politica. Che poi ce li vediamo proprio questi analisti di Standard & Poor’s scendere all’edicola di wall street e comprare il Fatto quotidiano e Repubblica e dare un colpo di telefono a Vendola e Bersani per farsi correggere le bozze del report.

Se la situazione non fosse tragica ci sarebbe poi da applaudire al governo quando dice che la maggioranza è solida e il governo non ha problemi in parlamento nel giorno in cui l’esecutivo va sotto in aula non una ma cinque volte.  Eppure sarebbe bastata una semplice e sobria reazione. Dire che il declassamento, in una fase come questa era possibile, che non è la fine del mondo e che ce la metteremo tutta per recuperare. Quello che ha detto a tarda sera il Presidente Napolitano.

Il tatticismo di D’Alema e la debolezza del referendum.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 settembre 2011.

A differenza di molti amministratori e dirigenti locali del PD, Bersani e il suo gruppo dirigente sono apparsi e appaiono tiepidi rispetto alla raccolta firme per il referendum contro il porcellum.  Considerazioni di ordine pratico e di convenienza politica innanzitutto ma anche una certa difficoltà nel governare l’ennesimo esito imprevedibile. La cosa si potrebbe risolvere come spiega il solito D’Alema con la l’ennesima visione tattica del “grimaldello” per smuovere la maggioranza ad approvare una nuova legge elettorale, dimenticandosi che ogni volta che si è mosso così (cioè praticamente sempre) l’esito è stato molto diverso dalle aspettative e quasi mai favorevole alla sua parte: bicamerale e caduta del primo governo Prodi per tutte.

Se invece, come pare fare il più prudente Bersani, ci si ferma un attimo a ragionare sulla lettera del referendum si capisce che, come già era avvenuto per il quesito sull’acqua, si parla di pere e si scrive di mele. Il refendum infatti prevedrebbe l’abrogazione dell’intera legge elettorale e, secondo gli auspici dei promotori, questo riporterebbe in vita la precedente legge elettorale il cosiddetto Mattatellum. Un’interpretazione che, mi sia concesso, appare piuttosto sperticata e che rischia di far sì che la consulta non accetti nemmeno il quesito referendario, rendendo vani gli sforzi dei promotori e paradossalmente rafforzando il porcellum.

L’argomento portato dai promotori che la consulta terrà conto della percezione negativa che i cittadini hanno dell’attuale legge elettorale, ci pare ottima al bancone del bar ma un pochino più debole in un dibattimento di fronte alla Corte Costituzionale.

Certo nella cautela del PD gioca anche un non digerito amore per il proporzionale e una storia seppur recente che ha visto quel partito deliberare all’unanimità per il doppio turno alla francese, tentare l’accordo con Casini sul modello tedesco, far dichiarare al segretario la preferenza per quello ungherese e avere propri dirigenti nei comitati referendari sia per il ritorno al mattatellum che in quello per il ritorno al proporzionale. Tuttavia, per una volta, la prudenza del pd potrebbe tornargli utile non costringendolo in un angolo quando (e se) la corte dovesse non accogliere il quesito.