Neanche il riformismo è un pranzo di gala

I rivoluzionari del XX secolo venivano spronati dalla propaganda dei partiti afferenti alla III internazionale ad essere due volte migliori dei capitalisti che si proponevano di abbattere. La tesi era che l’avanguardia rivoluzionaria avrebbe, col proprio esempio, fatto prendere coscienza al proletariato fino al suo riscatto.

Qui in Italia i gruppi che diedero vita a Livorno al PCdI si affermarono intorno a due riviste, il Soviet di Bordiga e l’Ordine Nuovo dei “torinesi” Gramsci, Togliatti, Tasca, Terracini e altri. Due riviste di cultura, in cui, soprattutto sull’Ordine Nuovo, i temi dell’organizzazione del nuovo stato sovietico e socialista erano trattati e approfonditi ben oltre lo slogan “faremo come in Russia”. Anzi è proprio in quegli anni che nasce la necessità di uno specifico italiano nella costruzione del socialismo, che poi Gramsci approfondirà nei Quaderni e Togliatti svilupperà, certo anche tatticamente, nella via italiana al socialismo del secondo dopoguerra.

Studiare, confrontarsi, migliorarsi era la regola. D’altra parte Angelo Tasca, per convincere un giovane e timido Antonio Gramsci ad unirsi alle loro riunioni gli fece dono di un volume di Guerra e Pace con la seguente dedica “Al compagno di studi, oggi, al mio compagno di battaglia, spero, domani”; mentre il motto che campeggiava in prima pagina de L’Ordine Nuovo era “istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”.

Un imprinting che ha segnato fortemente non solo il PCI ma più in generale tutto il movimento operaio e progressista italiano. Basti pensare ai sindaci del dopoguerra, quella generazione fatta anche di operai come Fabiani a Firenze, quella in cui “la maestà del popolo governava” come scrisse Neruda nei versi dedicati proprio al primo cittadino di Firenze, che si misurarono con uno Stato in cui le persistenze e le continuità con il regime liberale ma soprattutto fascista erano fortissime e invasive oltre ogni immaginazione. Eppure passo dopo passo modificarono le cose e governarono, come dopo di loro la generazione di amministratori della seconda metà degli anni settanta, che ancor di più scardinarono a livello amministrativo un Paese già profondamente cambiato culturalmente e socialmente. Lo cambiarono in presenza e in reazione ad un attacco allo Stato che proveniva sia dai teorici della rivoluzione che da quelli della reazione, facendo prevalere un senso delle istituzioni di cui gioverà il paese nei momenti bui e confusi dei primi novanta culminati però con la deviazione, purtroppo ampia e tragica, della degenerazione giustizialista e l’avvio della stagione del populismo in politica.

Vi è dunque un portato storico, una prassi, comune alla sinistra ma anche ben presente nella tradizione democratica cristiana (la maggior parte dei dirigenti storici della DC proveniva da cattedre universitarie) di coincidenza di cultura e impegno politico, di consapevolezza che il cambiamento per esser tale avrebbe dovuto sempre confrontarsi con resistenze anche tecnico amministrative.

Oggi, la banalizzazione della narrazione pare aver sottovalutato se non dimenticato questo, cruciale, aspetto. Non è un problema di sola comunicazione. O meglio, la comunicazione è l’epifenomeno di un modo di pensare e agire. Dietro alla banalizzazione degli oppositori (non tanto quelli politici ma quelli che siedono nei gangli del potere) in gufi, rosiconi e professoroni, non risiede soltanto un impeto da “rivoluzione culturale” maoista, ma una profonda sottovalutazione del loro potere o, molto più probabilmente, una terribile sopravvalutazione del proprio potere come classe politica.

Della stagione del primo renzismo, in attesa di capire se ve ne sarà un secondo, sul piano delle realizzazioni materiali del proprio riformismo, così tanto sbandierato, molto rimarrà come un incompiuto. Non tanto perché l’esito referendario ha interrotto l’esperienza del governo Renzi, ma perché molte delle riforme hanno cozzato con la verifica tecnico amministrativa di altri organi dello Stato.

La riforma della pubblica amministrazione, bocciata in parti consistenti dalla Consulta, la legge elettorale che ha subito medesima sorte, buon ultimo il TAR che ha censurato la Riforma dei Beni Culturali del ministro Franceschini. A questo possiamo aggiungere gli errori, marchiani e palesi, del nuovo Codice degli Appalti, che hanno generato numerosi rilievi del Consiglio di Stato.

Rilievi che hanno a loro volta dato avvio alla figuraccia della riforma (a parere di chi scrive sacrosanta) dei poteri abnormi dell’ANAC approvata dal Consiglio dei Ministri all’insaputa del consiglio stesso.

Errori che sono stati quasi sempre imputati alla irruenza e alla fretta riformatrice della passata stagione del governo o, dagli stessi protagonisti, a nemici esterni, spesso identificati come parrucconi dell’ancient regime.

Probabilmente c’è del vero nella seconda affermazione e a leggere, uno dietro all’altro, i tre cognomi della giudice che ha formulato la sentenza del TAR sulla riforma Franceschini, questa tesi si può pure rafforzare, se ci è concessa un po’ di ironia.

Tuttavia proprio se questa tesi fosse vera, ancora di più emergerebbe il limite politico di quella stagione di governo. Sottovalutare il proprio avversario è infatti molto spesso il primo passo verso una sconfitta certa. Anche la risposta “la prossima volta cambieremo prima il TAR del resto” ha più un valore propagandistico che reale.

Perché il punto anche se si decide di cambiare il TAR (anzi soprattutto se si decide di cambiare il TAR) è cambiarlo bene, in modo formalmente e sostanzialmente perfetto, a meno che non si intenda cambiarlo attraverso un sovvertimento violento dell’ordine costituito.

Ecco dunque che all’approssimarsi dell’ennesima campagna elettorale in cui il segretario del PD, continuerà con la litania delle prossime riforme che metterà in campo qualora dovesse tornare a Palazzo Chigi, la differenza potrà farla soltanto se si soffermerà sul fatto che, al netto degli argomenti scelti, le prossime riforme si impegnerà a farle bene.

Certo questo impone di scegliere i capaci al posto di fedeli, cosa che finora è parsa più difficile dello scrivere le riforme correttamente.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 220 del 3 giugno 2017

Perché il PD di Barca potrebbe non dispiacere a Renzi

barca e il sol dell'avvenire

Articolo apparso su Corriere Nazionale – Qui Firenze il 10 maggio 2013.

Con il pubblico che lunedì sera affollava il teatro Puccini per ascoltare Fabrizio Barca si sarebbe tranquillamente potuta convocare la direzione degli ultimi Ds fiorentini se non dell’ultimo PCI; sicuramente del PDS. Un pubblico ancora confuso dalla non vittoria elettorale, dal crollo di Bersani e dal governo Letta. Si trattasse di aderenti al PD o a SEL emergeva un bisogno, sintetizzato dal padrone di casa Sergio Staino, di un partito compiutamente di sinistra. Come questo si concili con quanto scritto e affermato dallo stesso Barca anche lunedì sera, non è molto chiaro. Barca infatti, molto onestamente, non ha mai dichiarato né di voler cambiare la natura del PD né proposto la nascita di un soggetto a sinistra confluendo magari nell’ennesimo cantiere proposto da Vendola. Quello che si propone Barca è di fornire un contributo al PD per definirne meglio la propria identità o almeno l’identità della sua componente di sinistra. In questo senso la collaborazione con Renzi, da parte di Barca, non appare episodica o tattica ma si basa sulla convivenza di tre grandi famiglie politiche nel rinnovato PD (i socialcomunisti, i liberaldemocratici, la sinistra democristiana). Il grande rischio di tale ipotesi, almeno a parere di chi scrive, è la cristallizzazione delle famiglie politiche, impedendone di fatto il superamento e la nascita di un soggetto politico veramente nuovo, e una divisione dei compiti in cui le famiglie democristiana e liberal democratica governano il Paese e le Istituzioni mentre la tradizione socialcomunista il partito. Un film già visto in questi anni che non ha portato benissimo alla componente di sinistra del PD.

Tutt’altro che brevi cenni sull’universo (i 60 giorni che inchiodarono la Repubblica).

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Siccome sono un po’ di giorni che i miei dieci lettori mi fanno troppi complimenti per quello che dico nella sintesi dei 140 caratteri di twitter, sento l’urgenza di fare arrabbiare un po’ tutti mettendo giù qualche nota sparsa sulla situazione politica e sugli ultimi estenuanti 60 giorni delle istituzioni politiche italiane. Nessuna pretesa di esaustività, anzi, né di una logica tra, e in, quello che scrivo. Giusto un po’ di pensieri sparsi da offrire e facilissimi ad essere smentiti persino nei prossimi minuti. Un’unica avvertenza di metodo, soprattutto a me stesso, nessun interesse al contingente, sia esso il governo, il destino di questo o quello o gli appuntamenti interni alla vita dei partiti, ma solo temi generali come si compete ad uno spettatore interessato.

1)      La generazione playstation. Ho sempre pensato che la fila fosse sinonimo di civiltà; si trattasse di prendere un autobus, fare un prelievo al bancomat, progredire all’interno di una organizzazione sociale. Oggi invece, anche a causa di un paio di generazioni messe a tappo dell’intera società italiana (i meccanismi di cooptazione non hanno saputo adeguarsi all’allungamento della vita), è diventato di moda saltare la coda e fare vanto della propria inesperienza, almeno in politica. Così non ci sogneremo mai di farci difendere in un processo penale in cui rischiamo la galera dall’ultimo dei praticanti di uno studio legale, abbiamo invece affidato buona parte della vita dei partiti e delle istituzioni a degnissime persone, spesso brave e preparate, che però hanno iniziato la loro esperienza politica un minuto prima (talvolta persino un minuto dopo) essere elette. Il fatto che tutto questo lo si sia ammantato di merito, intendendo per merito le capacità extrapolitiche che indubbiamente molti di questi nuovi protagonisti hanno, ai miei occhi risulta come aggravante. Così abbiamo oggi in molte istituzioni e partiti politici una generazione che non ha mai giocato davvero a calcio pensando che fosse sufficiente essere dei campioni alla playstation. Da qui una sottovalutazione delle prassi, delle liturgie istituzionali (la cui conoscenza è indispensabile se le si vuole sovvertire) che porta a innocue goliardate come votare Mascetti alla Presidenza della Repubblica (atto apparentemente innocuo ma significativo del clima da gita scolastica) o al pensare che male non farà dare un po’ di schede contro Prodi giusto per vedere l’effetto che fa. Solo che poi, mancando mestiere e regia, finisce che le schede sono troppe e tutto crolla.

2)      Questione Morale o questione politica. Passi trent’anni a dirti la parte sana e migliore del Paese e finisce che non solo ci credi ma condisci ogni dissenso dal tuo bene comune come tradimento o crimine. Ci riflettevo ieri sera quando un giovane, evidentemente non anagraficamente figlio delle tradizioni politiche novecentesche, ha detto “noi siamo il PD buono”. Allora mi è tornato in mente Natta (che mi pare Guido Vitiello giorni fa ha ritrovato su facebook) che criticava l’intervista di Berlinguer sulla questione morale. Diceva Natta che Berlinguer aveva commesso un tragico errore nell’avere posto non una questione politica ma una questione morale. Oggi possiamo dire che aveva ragione e che il clima di odio (sì odio) che si avverte nella società prima che nei gruppi dirigenti è la dimostrazione che la spaccatura nel Paese non è tra linee politiche ma tra linee morali, il bene e il male (sia chiaro analogo discorso vale a parti invertite dove anche larga parte del popolo di destra odia la sinistra). Occorrerebbe che la politica abbandonasse il campo immediatamente e non impostasse campagne elettorali involontariamente orwelliane (l’Italia migliore) e lasciasse alla cultura e persino alle religioni il compito di pacificare il Paese. Dovremmo impegnarci a farci almeno un amico (virtuale o reale) della parte avversa e conoscendolo vedere che ci somiglia molto più di quanto ci divida la scelta politica. Occorrerebbe anche rivalutare Natta, se non politicamente almeno culturalmente. Un operazione che la trasformazione in santino di Enrico Berlinguer ha sinora impedito. Penso e spero che a partire da quell’articolo che citavo presto qui o su qualche rivista possa proporvi una rilettura di Natta e della sua “diversità”.

3)      Un partito in Barca. Ho letto il documento di Barca. Occorrerà tornarci e discuterne approfonditamente. Conto di farlo da queste parti appena avrò un po’ di tempo per scrivere seriamente. La prima impressione è quella intanto di un metodo nuovo, seppur antico. Non ci si è limitati a una brochure colorata o una infografica ma si è scritto un saggio di 55 pagine con note e bibliografia. C’è fatica e c’è rispetto in siffatta maniera. Sul piano dei contenuti però la prima cosa che salta all’occhio è il tentativo, non proprio modernissimo, di coniugare Gramsci con Amartya Sen. Mi verrebbe da dire si accomodi. Sono circa venti anni che ci hanno (abbiamo se mi passate l’immodestia) provato. Ogni volta però il limite è stato di prendere in Gramsci le parti relative all’organizzazione e al partito e in Sen le parti economiche. Forse occorrerebbe prendere la lettura della società di Gramsci e il concetto di politica che deriva dalla declinazione di Libertà di Sen perché l’esperimento abbia buoni frutti.

4)      Divergenze tra me e il compagno Pannella. Criticare Marco Pannella non è mai operazione semplice, non tanto per la sua grande storia ma per la sua capacità spesso divinatoria di leggere la politica e la società italiana (una volta magari riusciti a dipanare qualcuno dei mille rivoli della sua oratoria). Però sulle sue critiche al presidente Napolitano mi spiace ma (per quel che conta) non sono d’accordo. Pannella parte dal condivisibile punto che Bonino sarebbe stata meglio di Napolitano e ne addita responsabilità anche allo stesso Napolitano. Certo il Presidente ha fatto un (grandissimo) discorso di (auto)investitura molto assolutorio verso se stesso e come lui ha inteso e agito la sua carica istituzionale nel primo settennato. Quello che però contesto a Pannella è una tendenza egualmente assolutoria nei confronti del suo partito (o della sua galassia). Ok il regime, ok la partitocrazia imperante ma forse causa dell’annientamento elettorale dei radicali è anche un gruppo dirigente tra i più immobili che il partito ha avuto nella sua lunga e gloriosa storia. Perché la partitocrazia e il regime sono ovunque ma in Puglia le firme le raccolgono nel nord no. Sia chiaro stiamo parlando di persone serie, preparate e con una passione e un impegno smisurati, tuttavia non capaci, a mio avviso, di essere nuovi, innovatori, come sempre sono stati i radicali. E non c’entra nulla la storiella di Pannella che mangia i suoi figli, Pannella quando dissente semplicemente si ferma e come ogni stella intorno alla quale ruotano sistemi solari, quando si bloccano i corpi celesti collassano su sé stessi. Credo che per il bene dei radicali (e dunque dell’intero Paese) una nuova fase politica di quel soggetto sia necessaria, aldilà delle figure e delle persone che la incarneranno.

5)      Avanti il gran Partito. Collegandomi con quanto scritto sopra l’ultimo punto lo dedico al PSI di Nencini. Nel marasma generale quel partito mi è apparso, almeno nel centrosinistra, la forza politica che meglio esce da questi 60 giorni di delirio. Una posizione coerente sul Presidente della Repubblica, nessun tradimento dell’alleanza e dei suoi leader e una posizione chiara sul governo. Certo, direte, è facile farlo quando non si è determinanti ma anche avere coscienza dei propri limiti è grande pregio per una politica in cui abbiamo visto partiti del 3% pretendere propri esponenti alla guida delle istituzioni, dettare linee di governo e pontificare sempre e comunque. Certo non dimentico che Nencini è quello dell’accordo in cassaforte con Manciulli o quello che mentre faceva le manifestazioni contro la riforma della legge elettorale per le europee perché estrometteva i piccoli partiti, contemporaneamente votava la riforma del “cinghialum” toscano che provocava lo stesso effetto. Tuttavia in questa fase, per me, si è ben mosso e la sua proposta di rimettere in piedi un ragionamento sulla sinistra laica e socialista mi pare una  vecchia novità necessaria non per dar vita all’ennesimo partitino ma perché quelle tradizioni non siano assenti da questo (speriamo non infinito) dibattito.

 

Renzi, le primarie e l’Apocalisse.

Se Julian Castro, giovane sindaco di San Antonio, leader emergente dei democratici americani avesse annunciato che in una certa data avrebbe descritto le sue idee per il giorno del Giudizio, dubito che i media americani avrebbero dato alla notizia un’evidenza entusiastica e massiccia alla cosa o che avrebbero passato i mesi dall’annuncio alla manifestazione intervistando Castro e chiosandone ogni battuta. Al massimo Jay Leno avrebbe mostrato un fotomontaggio di Castro in barba bianca e cartello con scritto la fine è vicina o Letterman avrebbe inventato la classifica dei 10 modi di passare l’ultimo giorno dell’umanità con Julian Castro.

Eppure l’Apocalisse biblica è un evento a cui milioni di persone credono,  annunciato da un personaggio autorevole e titolato a farlo, l’evangelista Giovanni, e di cui abbiamo un’idea seppur sommaria dello svolgimento e molti anni di discussioni su tutto, compreso su come selezionare i partecipanti.

Oggi, mentre scrivo, la quasi totalità dei media italiani è a Verona ad ascoltare Matteo Renzi, giovane sindaco di Firenze, leader emergente dei democratici italiani, descrivere le sue idee per le primarie del PD, dopo che negli scorsi mesi gli stessi media hanno dato alla notizia un’evidenza entusiastica e massiccia e intervistato Renzi su ogni cosa e chiosato ogni sua battuta.

Eppure le Primarie del PD sono un evento a cui milioni di persone credono, annunciate da un personaggio autorevole e titolato a farlo, il segretario Bersani, e di cui abbiamo un’idea sommaria dello svolgimento e molti anni di discussioni su tutto, compreso su come selezionare i partecipanti.

Tutto questo per ricordarsi come la scelta di guardare il dito o la luna  dipenda ormai troppo spesso da cosa inquadrano le telecamere.

 

E’ terminata la spinta propulsiva delle facce nuove?

Alla fine gira e rigira il vecchio principe di Salina la spunta sempre. Che tu sia un paludato funzionario di partito o un innovatore/rottamatore devi sempre fare i conti con quello che l’intorno a te ti offre e da quello muovere le tue scelte. Tigri, gattopardi o sciacalletti: le scelte le fai con quello che la savana ti offre e con la certezza che tutti si sentiranno sempre il sale della terra.

Dopo tre anni di facce nuove al potere anche Matteo Renzi, di fronte al primo vero rimpasto politico della sua giunta, deve guardarsi indietro e ignorare bellamente i dettami del politicamente corretto che avevano sinora dettato la scelta dei “suoi” uomini al governo cittadino.

Le prima vittime del gioco che si è fatto improvvisamente duro, sono genere ed età anagrafica. Due uomini (anche se la parità complessiva di genere è mantenuta) e non proprio due ragazzini (sia detto con il dovuto rispetto). Il secondo è quello del rinnovamento, pardon rottamazione, con il vecchio regime dominiciano. Le facce nuove per l’appunto.

Certo Givone e Petretto non hanno mai ricoperto incarichi di governo nell’amministrazione Domenici né in quella regionale Martini prima e Rossi poi. Tuttavia il loro ruolo di “consiglieri”, tecnici, in quelle amministrazioni non è mai stato un mistero. Anzi sia nella loro funzione istituzionale (Prorettore l’uno, Direttore dell’IRPET l’altro) che in quella di commentatori sulla stampa e convegni hanno avuto molto spesso modo di dire la loro (certo anche criticando) sul governo fiorentino.

Due uomini di indubbia qualità analitica e di grande competenza nei loro campi che hanno certamente tutte le carte in regola per ben figurare nel nuovo mestiere di amministratori, ma che non avresti sinora annoverato tra i rottamatori delle precedenti amministrazioni.

Ricordo personalmente il contributo di Petretto al gruppo per il programma del PD alle scorse amministrative e se certo quanto scritto in quel programma non può certo dirsi responsabilità diretta sua, io che coordinavo quel gruppo posso testimoniare quanto le sue riflessioni (non solo in ambito economico) siano state poi recepite nel lavoro finale. Un lavoro che, sinora, Renzi ha dimostrato di non aver apprezzato fino in fondo.

Forse, scherzando, possiamo dire che la spinta propulsiva delle facce nuove a Palazzo Vecchio sia terminata e si apra un fase di rilettura del passato cittadino diversa, in cui non ci sia bisogno di rinnegare (almeno in termini di comunicazione perché sull’amministrare altro alla fine è stato fatto) quello che la precedente amministrazione (peraltro di stesso segno politico) di buono aveva fatto. Lo si fa ripescando due ottime persone e due ottimi tecnici; per ora non lo si fa ricostruendo un rapporto di squadra coi partiti e più in generale coi soggetti di intermediazione sociale. Tuttavia c’è un cambio, anche simbolico, di atteggiamento che non va ignorato, anche nel rispondere alla domanda (che se fossimo Renzi ci avrebbe decisamente rotto) se alla fine Renzi andrà via o resterà qui.

Come la neve fa cantare Renzi fuori dal coro della comunicazione

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 febbraio 2012.

Alla fine la neve è arrivata. Poca o tanta dipende da quale prospettiva la si guardi: seguendo la nevicata sui social media pareva che fosse in corso una “tormenta” (come twittava un autorevole amministratore cittadino), con stoici inviati di testate importanti costretti ad una notte in bianco per seguire i lavori di pulitura strade. A guardarla dalla finestra di casa ci pareva una nevicata come ne capita ogni tanto d’inverno. Detto questo va premesso che la macchina del Comune e della protezione civile ha consentito di minimizzare i disagi e liberato le strade garantendo la viabilità verso scuole e luoghi di lavoro, in città ma anche nell’hinterland. Quello che però interessa qui è la gestione della comunicazione dell’evento, con la creazione e l’amplificazione di un effetto “ansia” già presente dopo la nevicata di due anni fa e il disastro organizzativo di quell’evento. Certo a muovere gli amministratori pubblici c’era quel principio di precauzione che declinato alla fiorentina recita più o meno “meglio aver paura che buscarne”, più che comprensibile certo ma che riflette, almeno nel caso del primo cittadino fiorentino, anche un modello comunicativo fatto di enfasi, sovrapposizione tra comunicazione personale e comunicazione istituzionale e sovraesposizione di messaggi e informazioni, effimere o per la natura del media da cui si lanciano o per la durata del messaggio prima che ne arrivi un altro. Non sta a noi dire se questo tipo di comunicazione sia o meno efficace (dipende molto dallo scopo naturalmente)  ma ci pare utile sottolinearne la differenza rispetto a un modello comunicativo nazionale che, negli ultimi mesi, è profondamente cambiato. Insomma non sono più i mesi (e gli anni) di Berlusconi con la sua roboante presenza e ingombranza, tempi in cui Renzi pareva l’unico del centrosinistra a cantare intonato al mainstream comunicativo plasmato dal Cavaliere. Nell’era della sobrietà di Monti, l’effetto è quello di una voce dissonante (non per questo sia chiaro meno affascinante). Monti non sovrappone la propria comunicazione personale (anzi  non ne ha proprio) con quella del governo. Non ha account twitter o facebook, parla attraverso i canali istituzionali o in conferenze stampa fiume che hanno l’aspetto (e il rigore) di lezioni universitarie, humor compreso ma che manifestano un rapporto adulto col cittadino, messo nella condizione non solo di essere informato ma di poter capire quanto comunicato. Certo non è esente da scivoloni, come la pagina alla nordcoreana con gli estratti delle lettere al premier con la bambina che lo chiama nonno Mario.  Tuttavia siamo di fronte ad uno stile diverso che sembra essere molto meno presente sui media (poi in realtà questo governo parla un sacco), improntato a un meneghino spirito del fare, del far sapere senza però farci romanzi sopra. Dunque nel riposizionamento in corso da parte di Matteo Renzi paiono cambiate molte cose (la tempistica, l’attenzione dal nazionale al locale, una propensione a parlare di ciò che fa qui piuttosto di quello che farà per il Paese) ma non l’irruenza comunicativa, una scommessa precisa nei confronti della sobrietà dei professori.

I due polli di Renzi e De Magistris

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 19 gennaio 2012.

Tempi duri per i polli dei sondaggi, quei due pennuti che, secondo la famosa definizione di statistica, se io ho in sorte di mangiarne due e il mio vicino nessuno, le statistiche rilevano che ne abbiamo comunque mangiati uno a testa.

Indici, spread, serie annuali ormai segnano la nostra vita quotidiana e sono ormai argomento di conversazione comune come una volta lo erano il pressing, il fuorigioco o la moglie dell’arbitro. Dati che entrano e che escono (a proposito i CDS, le assicurazioni sul rischio di fallimento degli Stati che fine han fatto non li cita più nessuno?) che ci mettono di buono o cattivo umore e che ci fanno comunque sentire tutti un po’ esperti di economia, finanza.

Non bastasse l’interpretazione dei dati passati, ci si mettono anche i vaticinatori di futuro, le agenzie di rating, che svolgono l’ancestrale funzione assolta nei tempi antichi da oracoli e sacerdoti senza sgozzare capretti o interpretare il volo degli uccelli.

Infine mai vanno in pensione i sondaggi, che rilevano intenzioni di voto, percezioni e umori e che, tecnici o non tecnici al governo, affollano le agende e i pensieri dei nostri politici, tanto che molto spesso si è avuta l’impressione (e non solo quella) che fossero queste rilevazioni statistiche a campione a dettare l’agenda e a muovere le decisioni degli attori politici nazionali o locali. Ecco perché fa rumore la classifica del gradimento degli amministratori locali che ogni anno pubblica il sole 24 ore. Un’indagine che non rileva la qualità di un sindaco o presidente di regione o provincia ma solo il suo gradimento, categoria ben difficilmente quantificabile in numeri.

Spiegato quindi perché capita, come è capitato quest’anno, che il primo cittadino di Firenze, crolli dal primo al 51° posto di tale classifica. In termini calcistici un tonfo paragonabile soltanto a una retrocessione dalla finale di Champions alla terza divisione. Eppure se guardiamo l’azione amministrativa svolta nel 2011 da Renzi, non si scorgono, pur in presenza di una conflittualità sociale più elevata e di alcune decisioni meno condivise, azioni che per numero e portata dovrebbero evidenziare un tale tonfo. Se poi si gira per la città la popolarità del sindaco non appare crollata, per non parlare della stampa locale dove gode, seppur in maniera minore, di un’ottima popolarità.

Verrebbe quindi da pensare che o fossero troppo ben disposti con lui nell’anno passato i fiorentini intervistati o troppo astiosi quelli sondati quest’anno e che, in questo caso, non abbia digiunato Renzi nel 2011 lasciando a De Magistris i due polli, ma che comunque almeno una coscia l’abbia mangiata pure lui e che non avesse nel 2010 rischiato l’indigestione nemmeno lui.

Giocare la tripla sull’esito della crisi

Dal Nuovo Corriere del 10 novembre 2011

Risolto il problema Mihajlovic e arrivato Delio Rossi l’argomento di conversazione preferito, almeno  nel bar sotto casa mia, è “ma icche fa i’Renzi?” domanda speculare e complementare a quella su cosa succederà a Roma e al governo.

Premesso che dare una risposta in queste ore equivale a giocare la buona e vecchia tripla al totocalcio, tutti gli scenari sembrano plausibili dopo il voto e la salita al colle di ieri di Berlusconi, anche perché le volontà in gioco sono molteplici, contrastanti tra loro e soprattutto mutevoli. Certo a leggere la bella intervista del direttore de La Stampa a Berlusconi ieri si sarebbe tentati a pensare che le elezioni a febbraio siano possibili se non probabili e per di più con Angelino Alfano candidato premier del centro destra. Tuttavia le pressioni di molti, partiti, interessi, istituzioni internazionali, sembrano spingere con forza per una soluzione tecnica in grado di intervenire drasticamente sulla situazione economica e sui conti pubblici. Di certo posticipando la sua uscita di scena dopo l’approvazione della legge di stabilità Berlusconi ha di nuovo preso in mano il boccino dei tempi e dei modi della crisi, riprendendo l’iniziativa che i “traditori” gli avevano soffiato e lo ha fatto prospettando a Napolitano, in caso di dimissioni immediate, una crisi al buio, lunga e dagli esiti incerti che sarebbe stata fatale per il Paese nella turbolenza dei mercati.

In casa PD non pare davvero chiaro quale sia l’interesse prevalente, persino nello stesso segretario Bersani che parla (e pensiamo convintamente) di governo di larghe intese ma che probabilmente, se dovesse guardare al suo tornaconto, preferirebbe elezioni immediate che potrebbero consentirgli o di saltare eventuali primarie o di non consentire ai possibili comptetitor, interni ed esterni, di recuperare quel margine di vantaggio che ogni sondaggio gli accredita. Diversamente l’appoggio ad un governo “lacrime e sangue” lo esporrebbe alla critica di chi, da fuori, potrebbe predicare ogni giorno da posizioni non esposte. Se un minimo conosciamo Bersani sappiamo che l’interesse personale non prevarrà mai di fronte all’interesse generale (o almeno in quello che egli ritiene tale) e che dunque le scelte che farà il PD saranno dettata solo da questo pensiero. Tuttavia un buon dirigente deve tenere presente gli scenari futuri e pare che, in casa PD, molti pensino che, in caso di governo tecnico, sarà necessario far succedere a Bersani un altro candidato per la corsa alle primarie future.

Dunque per tornare alla domanda del bar sotto casa, è probabile che Renzi starà a guardare, pronto a tutti gli scenari anche ad una candidatura contro Bersani in improbabili primarie natalizia, ma con una (non tanto) segreta predilezione per uno scenario di transizione e di logoramento

L’assalto al cielo che parte dalla Leopolda

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 novembre 2011.

Nel caso di Matteo Renzi, per Pierluigi Bersani, la paura fa ’80. Come gli anni 80 evocati dal segretario del PD in risposta all’adunata renziana di Firenze. Sgombriamo subito il campo, Bersani non ce l’aveva certo contro Duran Duran o Spandau Ballett, ma piuttosto verso il decennio dell’affermazione neoliberista nel mondo e di Craxi nella sinistra italiana. Un tabù che si pensava superato dopo l’apertura che fece l’allora segretario DS Fassino e che invece rimane come anatema assoluto da scagliare verso il nemico di turno. Un anatema che, nella migliore tradizione inquisitoria, della “bestia” cela persino il nome.

Ma almeno Bersani ha, come scusante, di aver pronunciato quell’anatema quando ancora il big-bang non aveva prodotto i cento punti, che, una volta letti, possono tranquillizzare chi vive come un’ossessione quella stagione di riformismo e d’innovazione del paese e ne vede tracce dappertutto  anche laddove, come in questo caso, non ve ne sono.

Perché intanto i cento punti di Renzi non sono affatto un programma di governo. E c’entra poco la vocazione wiki (un programma che si crea in rete grazie all’apporto di tutti) ma piuttosto lo scopo che i cento punti e la Leopolda II hanno. E lo scopo di Renzi non è, al momento, quello di proporsi al governo del Paese piuttosto quello di ottenere primarie libere e conseguentemente vincerle.

Non occorre quindi accanirsi contro la disomogeneità delle proposte, la vaghezza di molte e in alcuni casi il fatto che quelle cose o sono state fatte o sono in contrasto con altre proposte. A Renzi non interessa un‘idea di Paese da governare, interessa un’offerta in cui tutti, o almeno molti, possano riconoscersi e prendere un pezzettino all’interno del supermarket della contemporaneità che rappresenta (splendida definizione di Stefano Menichini direttore di Europa).

Questo è lo scopo celato sotto il “tocca a te” vergato da Edoardo Nesi: tocca a te scegliermi perché le mie 100 offerte sono lì  belle e colorate. Come lo erano quelle per i Fiorentini, cambia la scala non il marketing. Così come il frigorifero SMEG in bella posta sul palco, oggetto comune ma in versione trendy, riconoscibile a tutti ma desiderabile nel suo essere come quello che abbiamo in casa ma meglio.

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Cosa va in onda nel Pd.

 

Da Il Nuovo Corriere di Firenze del 27 ottobre 2011

 Se per capire cosa accade nel PdL forse sarebbe necessario affidarsi ad una negromante, per capire cosa accade nel Pd è forse più utile un esperto di televisione. Sarà per questo che tra i nuovi spin doctor di Matteo Renzi nella preparazione del big bang appare anche Giorgio Gori artefice della stagione più innovativa delle reti Mediaset che coincise, casualmente, anche all’apice del berlusconismo politico.

Ma torniamo al PD e al suo “palinsesto”. Da parte del leader Bersani è andato in onda nelle settimane scorse “il festival dell PD”, format classico, rassicurate che come il festival di San Remo è lì da sempre a tranquillizzare nonne e nipoti del passare del tempo. Magari non avvincente come una volta ma con un suo fascino. L’edizione del festival che si è vista al palazzo dei Congressi di Firenze non si è smentita, tra nuove proposte e big che calcano le scene da anni, riproponendo un  repertorio gradevole di facile ascolto e lettura. Poi, proprio come al festival dei fiori, quelli che han parlato vengono tutti, come i conduttori delle ultime edizioni del festival, dalla medesima scuderia, nel caso fiorentino quella dei DS. Immaginiamo che qualche problema a catturare l’audience, pardon l’elettorato, ex margherita questo lo ponga, ma non paiono curarsene troppo dalle parti del PD fiorentino.

Sabato e domenica scorsa invece è andato in onda lo spin-off della Leopolda dello scorso anno. Uno dei due protagonisti, Civati, un nuovo cast “giovane” e qualche guest star dai passati fasti a tentare di rivitalizzare un serial che partiva, nelle premesse, un po’ moscio. Ma si sa che gli spin-off (le serie che partono da una serie di successo sviluppandone temi o personaggi) sono difficilmente apprezzati dal pubblico salvo casi rari come quelli di CSI. In questo caso i due protagonisti Civati Serracchiani han tentato di “italianizzare” il format americano alla Renzi e han giocato la carta Rosy Bindi in una specie di Cameo alla Joan Collins, la cattiva di Dinasty, per attrarre pubblici anche un po’ attempati.

Che dire poi invece del sequel che andrà in onda questo fine settimana a Firenze? Stessa location intanto, la Leopolda, e format che ancora più della prima edizione punterà sul one man show, nonostante lui, la star, si spertichi nel dire che si tratta di un lavoro di squadra. Un atteggiamento che ricorda quello, rimanendo nel paragone televisivo, di Paolo Bonolis che non dimentica mai di parlare di squadra e poi occupa il video concedendo spazio solo al povero Laurenti, maschera utile a risaltarne le qualità e persino la magnanimità. In contemporanea, proprio come nelle controprogrammazioni televisive, la ditta Bersani mette in scena un appuntamento napoletano che forse vuole rincorrere i successi di “un posto al sole”.

Infine gli ultimi arrivati: i giovani curdi. Ci sia concesso ma al momento ci sembrano uno di quei programmi di nicchia che vanno in onda a tarda notte su Rai 3. Interessantissimi magari se il sonno o la noia non via hanno già portato su altri canali.