Se radio Londra non trasmette più

Dal Nuovo Corriere del 8 settembre 2011.

Oggi, come nel 1943, l’Italia è il ventre molle dell’Europa. Allora lo era come favorevole secondo fronte, fortemente sostenuto dai britannici, da offrire all’assediato Stalin, oggi lo è in un attacco all’Euro e alla politica economica europea. Allora inglesi e americani si trovarono a Casablanca e decisero l’invasione della Sicilia che ebbe anche come corollario non proprio felice, l’attivazione della rete della mafia italo-americana di New York per costituire teste di ponte favorevoli agli alleati nell’isola.

Oggi nessun vertice ha programmato l’invasione ma nessuno dubita che il nostro paese sia sotto attacco finanziario ed oggi come allora nessuno nutre grosse speranze che le nostre truppe possano resistere. Non certo dopo 4 manovre (ma il conto è probabilmente errato per difetto) in meno di un mese e una classe di governo incapace di articolare una frase di senso compiuto figurarsi delle misure economiche e finanziarie. Tanto che temo che il testo finale della manovra assomiglierà a quelle composizioni futuriste fatte di Zang,bam, bum, zang. Questa volta poi non c’è neanche l’”alleato” germanico che pare invece usare (con scarso successo) la retorica anti-italiana per propri fini elettorali interni.

E soprattutto manca la perfida Albione. Chi scrive si è convinto che tanti dei problemi che attraversa l’Europa oggi derivino anche dalla ancora più accentuata politica euroscettica britannica. Una politica tradizionale, attenuatasi nei primi anni del blairismo e poi ripresa dagli stessi laburisti alla fine del loro ciclo e teorizzata e ampiamente praticata dal governo conservatore-liberale di David Cameron. Non abbiamo controprova ma l’assenza britannica a controbilanciare l’asso franco-tedesco si è sentita e si sente molto. Parigi e Berlino hanno svolto una funzione propositiva e di salvaguardia quando erano governati da forze politiche, uscite dalla seconda guerra mondiale, che portavano nel proprio ricordo personale cosa avessero prodotto gli interessi nazionali. Non che questo avesse impedito una CEE prima e una UE dopo dove i governi la facessero da padroni, ma nel quadro di elementi valoriali forti e condivisi. In quel contesto la Gran Bretagna, seppur sempre fortemente euroscettica, ebbe comunque un ruolo, prima di dama da corteggiare per entrare nella comunità, poi di ponte e “garanzia” coi cugini atlantici, che seppur fossero “due popoli divisi dalla stessa lingua” come diceva Oscar Wilde, erano soliti prestare attenzione e fede a quanto Londra diceva o faceva.

Per questo spero con forza che almeno il Next LAbour di Ed Milliband riaccenda, fosse anche timidamente, un ragionamento sull’Europa nel suo appuntamento di Liverpool, ne avremmo da guadagnare, come già nel 1943, per primi noi italiani.

L’occidente decadente e reazionario

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 1 settembre 2011.

Se ho ben interpretato le parole del governatore della BCE Trichet, sentito negli scorsi giorni dal Parlamento Europeo, in Europa non mancano i soldi, che anzi ci sarebbero eccome, ma l’economia è bloccata per la paura ed il timore, sia rispetto ai debiti pubblici che all’andamento dell’economia europea ed americana. Insomma una versione tecnica e colta dell’affermazione berlusconiana della crisi soltanto psicologica. Personalmente credo che la paura c’entri fino ad un certo punto; credo però che su una cosa Trichet abbia pienamente ragione, cioè sul fatto che i soldi ci siano eccome.

Anche le settimane di speculazioni estreme su Italia, Francia e (in parte) Germania hanno sì bruciato miliardi che però non sono scomparsi nel nulla ma, nella stragrande maggioranza dei casi, sono passati dai piccoli ai grandi investitori. La crisi ha quindi accentuato la forbice fra ricchi e poveri, travolgendo spesso il ceto medio (quello vero e non quello di cui parlano Casini e la CEI per eliminare il contributo di solidarietà per i redditi personali superiori a 90.000 Euro) e bloccato la redistribuzione di redditi e ricchezze. In questo senso l’accumulazione di ricchezza in poche mani spesso ha come corollario la riduzione delle forme (e della sostanza) della democrazia e delle forme di partecipazione sociale e politica che senza arrivare alle oligarchie dell’est europeo rappresentano un modello molto distante dalla democrazia rappresentativa pur mantenendone le istituzioni.

Negli anni ’90 andava per la maggiore un economista, Amartya Sen, che ha a lungo spiegato come il modello di sviluppo indiano fosse migliore di quello cinese, grazie alla democrazia e all’istruzione. Osannato dalla sinistra in cerca della terza via è stato riposto in tutta fretta, trafitto dalla crescita cinese e dal turbocapitalismo che ci spiegava come la Cina avrebbe rappresentato un mercato per noi occidentali in grado di “bastare” alla nostra crescita. Forse andrebbe ripreso in mano oggi Sen, cercando di legare sviluppo alla redistribuzione dei redditi, impedendo l’accumularsi di fortune nelle mani di pochi, ben coscienti che una società di consumi non avrà mai abbastanza ricchi per crescere coi soli beni di lusso.

Nei giorni in cui la nostra attenzione è (giustamente) tutta concentrata sul solo debito pubblico, non bisogna dimenticare di ascoltare quei pochi, siano liberali convinti che la crescita si avrà con meno Stato e tasse, siano socialdemocratici convinti che siano necessarie politiche e servizi per la redistribuzione della ricchezza, che dicono che il rigore dei conti e il pareggio di bilancio rischiano di essere solo un modo sereno di giungere alla decadenza del nostro occidente.

Tripoli e la verità su Bologna e Ustica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 25 agosto 2011

In un estate di crisi, manovre e guerra in Libia è passata senza molto clamore la notizia che la Procura di Bologna ha aperto un’indagine contro due terroristi tedeschi in passato affiliati al gruppo terroristico di Ilich Ramirez Sanchez più noto come Carlos o lo sciacallo.

L’indagine segue la cosiddetta pista palestinese per l’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. La strage più efferata che il nostro Paese abbia mai subito. Ora per tale strage la giustizia italiana ha già giudicato colpevoli tre terroristi neofascisti uno, Ciavardini, come esecutore materiale e i restanti due Mambro e Fioravanti come secondo livello della strage a cui, dicono i giudici, era sovraordinato un terzo e forse persino un quarto livello strategico dei cosiddetti mandanti. Mandanti i quali risultano tuttora sconosciuti.

La tesi passata in giudicato è quella della strage fascista, volta a proseguire la strategia della tensione e una svolta autoritaria del Paese, con connivenze in settori deviati dello Stato e dei cosiddetti poteri forti.

Una tesi che però, anche nello stesso percorso processuale, ha presentato molte ombre e che non ha mai chiarito né chi fossero  i mandanti (su questo l’indagine è ancora in corso), né come i tre operarono quel maledetto 2 agosto (Mambro e Fioravanti non erano a Bologna e Ciavardini all’epoca era poco più che un ragazzino minorenne). I tre poi si sono sempre detti innocenti mentre hanno confessato ogni altro delitto (e purtroppo sono molti) commesso; il che naturalmente non prova niente ma insieme agli altri elementi monta il dubbio.

Tesi da complottisti si è risposto. Sinora, perché l’apertura dell’inchiesta Bolognese ridà corpo alla pista straniera, che vede Bologna (e poco dopo Ustica) come tragico crocevia tra OLP, libici, israeliani e americani.  Una tesi evocata da più parti, compreso Francesco Cossiga e lo stesso Carlos che in un’intervista del 2008 parlò anche della strage di Bologna in questi termini.

La presenza poi di uno dei due tedeschi a Bologna era emersa dai lavori della Commissione parlamentare Mitrokhin attiva dal 2002 al 2006. Come mai si sia aspettato sino al 2011 per le indagini della procura appare di difficile spiegazione.

Oggi tuttavia proprio gli avvenimenti libici potrebbero segnare un punto di svolta, con l’apertura degli archivi del regime o l’eventuale processo ai leader dello stesso regime.

Provincie, feste e preti

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 18 agosto 2011.

Estate piuttosto movimentata quella del 2011. Tra borse che crollano, titoli di Stato che volano e manovre lacrime e sangue la politica ci mette del suo per dare un contributo al pessimismo del Paese. Basti pensare agli amministratori provinciali che potrebbero essere colpiti dall’accorpamento delle proprie amministrazioni al termine di questo mandato amministrativo. Magari gli stessi che ci giuravano che la soppressione delle Provincie era cosa buona e giusta ora che la soppressione del loro ente potrebbe (seppur con molta calma) diventare realtà si affannano a dichiarare che “la soppressione è giusta ma non fatta così, bisogna rivedere i criteri, la popolazione non è il discrimine giusto, servono i chilometri quadrati, no meglio la popolazione ovina…” Immaginiamo anche che qualcuno pensi (da qui al censimento dell’ottobre prossimo) a una politica di ripresa della natalità per evitare la soppressione dell’ente. E poi c’è l’Europa che tutto ci chiede e a cui tutto dobbiamo dare, siano i saldi della manovra piuttosto che l’alibi con cui sopprimere tutte le festività repubblicane. Si dice che in Europa fanno già così ma basta dare un occhiata alle prime pagine delle agende che una volta la banca ci regalava a Natale (e su cui le nonne appuntavano i risultati del ramino) per fare il confronto con gli altri Paese europei e capire che in Francia e Gran Bretagna han più festività di noi. Con la scusa dell’Europa ci fanno cancellare i già pochi giorni di identità nazionale, una scelta politica ben precisa e molto inquietante almeno per chi scrive. Certo  Tremonti si è giustificato che le feste religiose sono oggetto del concordato e quindi inamovibili, ma i concordati, Craxi insegna, sono modificabili e si poteva comunque aprire una trattativa con la Chiesa Cattolica mettendo da una parte il mantenimento delle festività religiose e dall’altra il mantenimento dei gettiti dell’8 per mille (magari la parte risultante dalla ripartizione dei contributi non assegnati) o delle agevolazioni fiscali per le strutture ecclesiastiche. D’altra parte se siamo tutti chiamati a fare sacrifici e anche il premier giustifica il contributo di solidarietà come una misura di giustizia sociale, chiamare anche la Chiesa Cattolica a contribuire al risanamento del Paese sarebbe stato un modo giusto per riavvicinarla alle masse.

Il vicolo cieco e la rivoluzione

Dal Nuovo Corriere di Firenze 11 agosto 2011.

C’è almeno un paradosso pericoloso nella crisi che stiamo vivendo. Da ogni parte ci dicono che il neoliberismo è fallito ma contemporaneamente le misure che ci vengono via via imposte null’altro sono che continuazione di politiche fortemente influenzate dal pensiero neoliberista.  Basti pensare alla discussione sull’inserimento in Costituzione del vincolo di pareggio di bilancio. Una misura che limita il potere dei governi, e dunque della politica, di fronte ai meccanismi dell’economia e della contabilità. Si badi bene, questo non vuol dire che sia bello indebitarsi “a bocca di barile” ma subordinare le politiche sociali e i servizi da dare ai cittadini (scuole, ospedali, trasporti…) ai meccanismi contabili è la prosecuzione (o meglio l’aggravamento) delle politiche di vincolo degli anni novanta (ricordate Maastricht?) che non hanno risolto i problemi strutturali del Paese.

Non c’è speranza (gli ultimi 18 anni sono lì a dimostrarlo) di  uscire dalla crisi senza uno scatto di cessione di sovranità vera verso strutture sovranazionali finalmente politiche e non solo monetarie. Quello che serve oggi ( e soprattutto domani) è più Europa, più Europa dei popoli e non di Stati. Una guida finalmente politica e democratica, cioè eletta direttamente dai cittadini europei, almeno dell’economia e della fiscalità europea. Già oggi vediamo il fallimento di un Europa di Stati spinti dai loro interessi nazionali. Da un lato la Gran Bretagna di Cameroon di fatto si è isolata e disinteressata della crisi europea sperando di far passare la nottata in solitudine. Le immagini delle rivolte londinesi iniziano a dirci che forse nemmeno il leone inglese potrà cavarsela da solo, di fronte ad un intera generazione che non ha nulla da perdere, nemmeno le sue catene. Sul continente le paure tedesche condizionano e spesso bloccano interventi tempestivi ed efficaci (come nel caso greco) e l’esposizione di bilancio francese rende debole l’azione francese. Col rischio davvero reale che la costruzione europea vada in fumo non solo con l’abbandono dell’euro ma con la regressione alle piccole patrie e al nazionalismo spesso carico di odio.

Eppure qui da noi si pare più interessati al destino di un singolo esecutivo (quello in carica o quello apotropaico dei tecnici) piuttosto che al respiro lungo che servirebbe per uscire dalla più profonda crisi degli ultimi trent’anni. Solo poche voci isolate o di anziani saggi (Bonino, Ciampi, Amato, Napolitano) innalzano il coro dell’Europa soluzione possibile, mentre il governo affanna e le opposizioni si chiedono se potranno reggere i tagli che i podestà stranieri o italiani imporranno ed un’intera generazione di giovani latita dal dibattito pubblico mentre il suo futuro si decide di ora in ora. Diceva Brecht che solo nei vicoli ciechi si possono fare le rivoluzioni, basterebbe non essere così tanto miopi da non vedere il muro in fondo al vicolo italiano.

Dietro a quella facciata c’è molto di più.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 4 agosto 2011.

La vicenda del rifacimento della facciata della basilica di S. Lorenzo sollevata dal sindaco Renzi ha un altro aspetto, oltre a quelli artistici culturali, da non sottovalutare. Sui primi le sorelle Marx di sabato scorso sulla prima pagina dell’inserto di questo giornale, Cultura Commestibile, han già perfettamente detto, sul secondo forse è il caso di spendere ancora qualche parola.

Il tema è quello del referendum per decidere se procedere o meno al rifacimento della facciata o più in generale se Firenze sia patrimonio disponibile dei soli fiorentini o sia dato a questi in custodia per tutti gli altri. Lungi da me invischiarmi in un dibattitto procedurale sulla liceità dello strumento, sulla titolarità di sindaco e comune e tutte le beghe da costituzionalisti che son solite accompagnare questi dibattiti in Italia. Quello che a me interessa è il metodo politico che tale impostazione presenta.

Ancora una volta Renzi dimostra di non aver bisogno dei corpi intermedi, dei soggetti di rappresentanza degli interessi: la sua legittimazione popolare gli è sufficiente per rapportarsi al popolo per il popolo. Tuttalpiù questi soggetti possono tornare utili, se alleati, nella mobilitazione e nelle eventuali campagne; se inutili possono essere sostituiti da strutture più snelle e più riconducibili all’obiettivo. In fondo così ha legittimato (e vinto) la propria azione politica prima nelle primarie, poi con le liste civiche a suo sostegno e successivamente nella sua azione amministrativa.  Un’azione di rottura e di scardinamento dei vecchi schemi che la città, ingessata da troppi anni, ha dimostrato di apprezzare e che ha contribuito certamente a smuoverla e a rinnovarla.

Tuttavia in questo caso si parla di un’operazione che non consente retromarcia e soprattutto che tocca un aspetto che, ripeto, riguarda solo in parte i Fiorentini. La logica del bene è mio e lo gestisco io, in particolare nei beni artistici, ha limiti che qualche secolo di politica liberale ha conferito (almeno nell’Europa occidentale) a poteri non elettivi, tecnici, per sottrarli, all’inevitabile bisogno di ottenere consenso da parte dei poteri politici. Certo questo ha in molti casi ingessato alcune cose ma ha anche consentito di preservare centri storici e monumenti inestimabili. Dire oggi che le sovrintendenze sono orpelli inutili che non devono occuparsi di questo (tanto varrebbe allora dire che non debbano proprio esistere) non è, almeno in questo caso, una battaglia di rinnovamento del Paese ma mostra piuttosto una volontà di non aver freni e contrappunti al proprio operare.

 

Nemmeno una risata a seppellirli

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 28 luglio 2011.

Non sono mancati, in queste settimane, paralleli più o meno spinti fra l’attuale crisi del Paese e quella che lo travolse tra il 1992 e 1993 ai tempi della cosiddetta tangentopoli. In fondo, dicono i sostenitori della tesi, siamo di fronte al discredito di un’intera classe politica, ad una crisi economica e ad un debito pubblico enorme come allora. Purtroppo rispunta anche un suicidio ad aumentare le analogie con quel periodo storico. Ma una differenza, seppur apparentemente di poco conto, ci separa da mani pulite. La capacità di riderne. Come spesso accade infatti quella stagione fu preceduta, nel sentire comune degli italiani, prima delle inchieste, dalle barzellette e dai monologhi dei comici. Come dimenticare Beppe Grillo e il suo show sul viaggio in Cina di Craxi e la moltitudine di parenti che fu più efficace di 10.000 post apocalittici del suo blog attuale? Oppure le mille barzellette sui socialisti che rubavano, le quali raccontavano (o forse creavano?) una storia che poi le indagini talvolta accertarono e talvolta proseguirono senza costrutto. Infine Cuore, settimanale di resistenza umana, che più di mille saggi ci raccontò in tempo reale la degenerazione di una classe politica e di un Paese tutto. Titoli epocali come “Torna l’ora legale, panico tra i socialisti”, i racconti della casta sotto il titolo “hanno la faccia come il culo” o la fotonotizia del primo avviso di garanzia a Craxi con un fotomontaggio di Bettino in procinto di lanciarsi dalla sommità dell’hotel Raphael e la didascalia “l’ha presa bene!”. Certo satira cattiva, perfida, spesso unidirezionale e un tanto al chilo, ma capace di incanalare, soprattutto nelle giovani generazioni la rabbia e il risentimento e trasformarlo, se non in impegno, almeno in riflessione.  Un ultimo colpo di coda dello spontaneismo e degli anni settanta, di quella risata che doveva seppellire il potere e che invece, incapace di darsi eredi, ha finito per disperdersi e non trovare più casa comune, incattivendosi nel diventare seria. Quello che ha provato a sostituirsi in questi anni, non ha mai avuto la stessa leggera capacità di prendersi ampiamente in giro e appare, come per esempio il Misfatto attuale, un tentativo più simile alla satira propagandistica che a un foglio “libero” nella tradizione de il Male o, per contrappunto, il Candido. Il ’92 lo affrontammo anche ridendo di noi stessi: dei nomi bizzarri delle botteghe oscure che disseminano il Paese, delle tette e dei culi che affollavano (ed affollano) le copertine dei settimanali politici e non soltanto dei potenti. La satira, quella satira, ci chiamò còrrei  e, come cantava Guccini, ci spiegò che “soltanto i pochi che si incazzarono dissero che era l’usato passo fatto dai soliti che ci marciavano per poi rimetterlo sempre là, in basso”.

Grand. Uff., Lupett. Mann.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 21 luglio 2011

Maria Antonietta pare ebbe a rispondere a chi la informava che il popolo non aveva il pane: “che mangino  le brioches”; qui da noi al popolo che viene chiamato in ogni modo a sacrifici e costi, tra manovre, tassi dei mutui e investimenti che valgono ogni giorno meno, non si offre nemmeno un cornetto. Di tagli alla politica ognuno parla e poi, quasi tutti, rimandano o pontificano di quello che dovrebbe fare il vicino ma poi in casa propria nulla o poco si muove.

 Anche a Firenze il dinamico Renzi propone, come dice lui da anni, il dimezzamento dei parlamentari e consiglieri regionali ma nulla dice sul dimezzamento degli incarichi dei suoi consiglieri comunali. Vicenda sulla quale il giovane segretario del PD Mecacci vuol veder chiaro. Nobile intento e prassi assai apprezzabile ma che speriamo porti velocemente anche a qualche esito. Peraltro Mecacci avrebbe sulla questione tutto da guadagnare in termini di visibilità e autonomia politica e sicuramente metterebbe in sintonia il PD col suo elettorato e buona parte della sua base.

Ma viviamo tempi complicati dove non solo Cesare ma persino l’autista di Cesare, deve essere specchiato e dunque l’auto con cui viaggia il segretario regionale del PD, auto piuttosto performante non c’è dubbio ma pagata dal partito e non dalle istituzioni, diventa tema di confronto politico decisamente inelegante all’interno degli stessi democratici. Certo ha vita facile la polemica in un partito che tiene in garage l’Audi e licenzia al primo piano i dipendenti.

Nel frattempo il solito Renzi da’ di Fantozzi ai propri dipendenti perché fanno la fila al badge confrontandoli con quelli di Google che il badge non l’hanno proprio e hanno persino la parete per l’arrampicata. Magari potrebbe provare a montare simile attrezzo anche nel cortile della dogana per vedere se aumenta la produttività degli stessi e rimuovere anche lui il badge. Naturalmente i dipendenti non l’hanno presa bene ma in molti hanno risposto con l’ironia modificando la propria foto del profilo Facebook con quella dei ragionieri Fantozzi e Filini e, per le donne, con l’immortale signorina Silvani. Inutile dire che ruolo sia toccato a Renzi: “Duca Conte, Lupett. Man., …”

Napolitano col K

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 14 luglio 2011

Ancora una volta le istituzioni italiane si dimostrano malleabili, molto più che altrove, rispetto a chi pro tempore le incarna; con l’effetto che, da noi, le uniche riforme istituzionali possibili sono quelle legate al carattere e all’attitudine di chi ci governa piuttosto che alle regole e ai vincoli costituzionali. In particolare la Presidenza della Repubblica ha, nel corso degli anni, visto modificare il suo potere e il suo spazio di intervento (senza che alcuna modifica costituzionale la scalfisse), a seconda di quale inquilino abitasse il Quirinale.

Buon ultimo il presidente Napolitano ha in questi anni inaugurato una coabitazione all’italiana che a molti è sembrata spesso una supplenza al governo stesso, apparso o distratto o incapace di attuare alcuna delle politiche che aveva promesso. Lo stesso Berlusconi ha dichiarato che è stato costretto ad intervenire in Libia per colpa di Napolitano, oppure si possono ricordare le pressioni più o meno esplicite che il colle ha fatto sui provvedimenti più controversi della legislatura. Ben oltre la moral suasion di Ciampi e con maggior efficacia e rispetto per la forma di Scalfaro, Napolitano è apparso sempre più come un attore piuttosto che un arbitro nella politica italiana, dimostrando ancora una volta la regola aurea della politica: non esiste il vuoto perché qualcuno lo riempie immediatamente. Napolitano ha dunque riempito il vuoto dell’inanizione del governo di centrodestra, garantendo al paese credibilità e fiducia in un momento così critico, forte di una simpatia oltreoceano che il presidente Obama ha più volte manifestato; ma svolgendo contemporaneamente  anche un ruolo di supplenza dell’opposizione a cui è parso spesso consigliare l’atteggiamento da tenere nei rapporti col governo.

Un comportamento che pochi avrebbero potuto immaginare al momento della sua elezione, la prima di un ex comunista, seppur atipico. Il primo PCI accolto negli USA, quello che si oppose con molte ragioni al Berlinguer della questione morale e che proponeva un esito socialista a partire dal nome alla svolta occhettiana. Uno bravo e preparato che, dicevano i suoi detrattori, aveva spesso ragione prima degli altri ma che non riusciva a convertire quella ragione in vittorie politiche per mancanza di coraggio. E’ forse oggi, nel momento più alto della sua carriera ed in uno dei più drammatici del Paese, che Napolitano potrebbe prendersi la sua rivincita avendo ragione prima degli altri. Per il bene del Paese speriamo proprio che sia così.

Nel Pd facebook contro ficattole

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 7 luglio 2011.

Sono passati quasi tre anni dalle primarie fiorentine ma il PD locale non pare aver ancora metabolizzato quel passaggio. Quella che semplicisticamente sui giornali viene spesso descritta come una lotta tra renziani e antirenziani nasconde in realtà una diversa visione della politica e del rapporto di questa con la società.

Da una parte, volendo semplificare parecchio, c’è una parte del PD fiorentino, quella più legata alla tradizione dei vecchi DS, che considera quelle primarie e Matteo Renzi un accadimento temporaneo, un anomalia che prima o poi terminerà e tutto tornerà, se non proprio uguale, molto simile a prima. Dall’altra parte, quella meno legata ai vecchi partiti, assistiamo a una specie di fervore iconoclasta tutto volto all’innovazione, al nuovo e al superamento (spesso acritico) di quelle che una volta avremmo chiamato strutture e sovrastrutture.

Ficattole contro Facebook se vogliamo trovare un immagine anche delle polemiche di questi giorni tra partito “tradizionale” e Officine democratiche. Eppure se una cosa poteva insegnare l’esperienza di Matteo Renzi era che i due aspetti potevano e dovevano trovare una sintesi. Per il momento la sintesi il solo ad averla trovata è stato proprio l’attuale sindaco che però (ed è difficile dargli torto) ha esercitato questa capacità sempre in ambito amministrativo e mai in quello partitico, neppure quando ne guidava uno.

Dunque ai democratici fiorentini sarebbe necessario, almeno a parere di chi scrive, pensare di trovare una sintesi non tanto in un uomo solo ma in un modo di intendere il partito, anche perché il modello di riferimento, sociale e politico, antecedente alle primarie non potrà mai tornare, mentre il solo efficientismo che si volge alla società civile, rischia di non essere sufficiente a una forza politica che intende governare per davvero e non solo fare accademia.

E’ proprio in tempi in cui la politica subisce il maggior discredito presso la pubblica opinione che i partiti avrebbero necessità di ripensare sé stessi per svolgere, di nuovo, un ruolo di portatori e mediatori di interessi collettivi in sintonia però con la società che si ambisce governare.