Un museo fuori fuoco

Incuranimage005te della recensione non proprio lusinghiera apparsa su queste colonne della mostra “Gli Archivi Alinari e la sintassi del Mondo –Omaggio a Calvino” sabato scorso sono andato a vedermela al Museo Nazionale Alinari della Fotografia, portando con me mio figlio Giorgio di 4 anni e mezzo.

All’arrivo prima sorpresa, il costo del biglietto – ridotto – supera di un Euro quello degli Uffizi ….

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E’ terminata la spinta propulsiva delle facce nuove?

Alla fine gira e rigira il vecchio principe di Salina la spunta sempre. Che tu sia un paludato funzionario di partito o un innovatore/rottamatore devi sempre fare i conti con quello che l’intorno a te ti offre e da quello muovere le tue scelte. Tigri, gattopardi o sciacalletti: le scelte le fai con quello che la savana ti offre e con la certezza che tutti si sentiranno sempre il sale della terra.

Dopo tre anni di facce nuove al potere anche Matteo Renzi, di fronte al primo vero rimpasto politico della sua giunta, deve guardarsi indietro e ignorare bellamente i dettami del politicamente corretto che avevano sinora dettato la scelta dei “suoi” uomini al governo cittadino.

Le prima vittime del gioco che si è fatto improvvisamente duro, sono genere ed età anagrafica. Due uomini (anche se la parità complessiva di genere è mantenuta) e non proprio due ragazzini (sia detto con il dovuto rispetto). Il secondo è quello del rinnovamento, pardon rottamazione, con il vecchio regime dominiciano. Le facce nuove per l’appunto.

Certo Givone e Petretto non hanno mai ricoperto incarichi di governo nell’amministrazione Domenici né in quella regionale Martini prima e Rossi poi. Tuttavia il loro ruolo di “consiglieri”, tecnici, in quelle amministrazioni non è mai stato un mistero. Anzi sia nella loro funzione istituzionale (Prorettore l’uno, Direttore dell’IRPET l’altro) che in quella di commentatori sulla stampa e convegni hanno avuto molto spesso modo di dire la loro (certo anche criticando) sul governo fiorentino.

Due uomini di indubbia qualità analitica e di grande competenza nei loro campi che hanno certamente tutte le carte in regola per ben figurare nel nuovo mestiere di amministratori, ma che non avresti sinora annoverato tra i rottamatori delle precedenti amministrazioni.

Ricordo personalmente il contributo di Petretto al gruppo per il programma del PD alle scorse amministrative e se certo quanto scritto in quel programma non può certo dirsi responsabilità diretta sua, io che coordinavo quel gruppo posso testimoniare quanto le sue riflessioni (non solo in ambito economico) siano state poi recepite nel lavoro finale. Un lavoro che, sinora, Renzi ha dimostrato di non aver apprezzato fino in fondo.

Forse, scherzando, possiamo dire che la spinta propulsiva delle facce nuove a Palazzo Vecchio sia terminata e si apra un fase di rilettura del passato cittadino diversa, in cui non ci sia bisogno di rinnegare (almeno in termini di comunicazione perché sull’amministrare altro alla fine è stato fatto) quello che la precedente amministrazione (peraltro di stesso segno politico) di buono aveva fatto. Lo si fa ripescando due ottime persone e due ottimi tecnici; per ora non lo si fa ricostruendo un rapporto di squadra coi partiti e più in generale coi soggetti di intermediazione sociale. Tuttavia c’è un cambio, anche simbolico, di atteggiamento che non va ignorato, anche nel rispondere alla domanda (che se fossimo Renzi ci avrebbe decisamente rotto) se alla fine Renzi andrà via o resterà qui.

Il Nuovo Corriere mancherà a Firenze (anche al suo sindaco).

Per più di un anno ho scritto sul Nuovo Corriere di Firenze. L’ho fatto usurpando la prima pagina quasi tutte le settimane, grazie al suo direttore Alessandro Rossi e alla incredibile libertà di cui ho goduto. Una libertà che è difficile da descrivere.

L’ho fatto pensando di non essere un giornalista nè un professionista dell’informazione ma semplicemente un piccolo osservatore con qualcosa da dire. Ho goduto di quello spazio cercando di non approfittarmente, provando a rispettare il lavoro dei professionisti che quel giornale (e tutti gli altri) ogni giorno compongono con un lavoro che è tutt’altro (e con tutt’altre difficoltà e pesantezze) da quello di mettersi davanti a pc e esprimere un’opinione sul mondo.

Io, dunque, smetto di scrivere, loro di lavorare e sono loro i protagonisti (loro malgrado) di questa chiusura e sono loro quelli a cui dobbiamo dedicare attenzione e sforzi perchè tornino presto a fare il loro mestiere. Tuttavia in questo anno e mezzo mi son sentito parte se non di una famiglia, almeno di una squadra. Ospite non solo tollerato ma anche parte di un’esperienza che, soprattutto con Cultura Commestibile, è stata grande e profonda.

Per questo mi sento di scrivere queste parole. Di dire che, alla fine, quella che ci rimette davvero è Firenze. Perchè il Nuovo Corriere, nel bene e nel male è stato un unicum del giornalismo fiorentino. Un momento di confornto, dibattito ma anche di ilarità. Mancherà al mio amico Lorenzo che mi segnalava le locandine le più fantasiose. Mancherà ai clienti del bar di Alessandro che ogni giorno glielo proponeva. Mancherà ai politici e ai cittadini fiorentini che trovavano nel corriere notizie e spazio per dire la loro. Sempre e comunque, di qualunque colore fossero. Mancherà anche a quelli che il corriere più criticava. Mancherà anche al Sindaco di Firenze e dispiace che proprio lui pare non averlo capito non spendendo una parola per un giornale che chiude nella sua città.

Non avrebbe cambiato le cose ma il non farlo è un segno non bello. L’assenza di gravitas che David Allegranti ha descritto nel suo libro dedicato al primo cittadino, penso che stia anche in queste cose a dimostrazione che si possono prendere i voti (parafrasando un titolo storico del Nuovo Corriere) e il potere ma non è necessariamente detto che si acquisti anche il necessario distacco che serve per esercitarlo nel modo più giusto.

Capiamoci, quando facevo politica, certi titoli ed articoli della redazione fiorentina di un grande quotidiano mi facevano girare fortemente i coglioni e con certi capo redattori non è che proprio abbia ancora voglia di andarci a cena (cosa del resto reciproca). Ma ho semplicemente smesso di comprare quel giornale in edicola; però se mai dovesse chiudere penso che sarebbe un problema per questa città. Non è retorica è intelligenza ed è buon gusto.

Spero che abbia ragione Alessandro Rossi nell’editoriale apparso oggi sul Nuovo e che potete leggere qui sotto. Che quello di oggi possa essere un arrivederci. Perchè da oggi siamo tutti un po’ più poveri. Per davvero.

Il giornale con le calze rosse

di Alessandro Rossi, dal Nuovo Corriere di Firenze del 14 maggio 2012

Non so ancora, in tutta onestà, se questo è un addio o un arrivederci. Comunque sia non è un gran momento. E’ uno di quei momenti in cui ti passa davanti agli occhi il film della tua vita. Ho avuto la fortuna, nella mia professione di giornalista, di avere solo maestri grandi o grandissimi.

Facendo il paragone con una carriera scolastica si potrebbe dire che ho fatto le materne con Maurizio Boldrini (uno dei fondatori della facoltà di scienze della comunicazione a Siena), le elementari con Gabriele Capelli (semplicemente maestoso per professionalità e umanità) all’Unità di Firenze, le medie con Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani a la Repubblica, le Superiori con Paolo Panerai a Milano Finanza/MF e l’Università con Mike Bloomberg. Ma ho conosciuto tanti altri personaggi e colleghi due dei quali, più di tutti, insieme ai miei maestri, hanno lasciato il segno nella mia formazione e nella mia coscienza: Romano Bilenchi e Guido Vergani. Del primo tutti sanno tutto a cominciare dalle vicende del suo Nuovo Corriere a cui, almeno nella testata, questo giornale ha avuto la presunzione di ispirarsi. Bilenchi era geniale da rasentare la follia, si batteva per la sua indipendenza come contro le sue malattie, spesso immaginarie, da cui non riusciva a staccarsi. Intellettuale sofisticato, amava le storie semplici. Di paese. Non piegò mai la testa. Comunista critico, libertario, sostenitore del dialogo con i cattolici. L’ho incontrato qualche volta a casa sua, a Firenze e mi chiamava “Pallino”. Lui chiamava tutti Pallino. Mi diceva. “Pallino, Il Nuovo Corriere è morto. Non ne voglio parlare. E’ morto e non ci sarà mai più un giornale come quello”. Aveva ragione Bilenchi. Un giornale non è mai uguale a un altro anche se oggi si fa a gara a somigliarsi. Ma almeno al suo tempo ogni giornale era una piccola opera d’arte. Sono sempre stato affascinato da quello scimmione di Colle Val d’Elsa, sbracato sul divano che si toccava continuamente la testa. E ho sempre sognato di poter lavorare al “suo” Nuovo Corriere. Di Guido Vergani, figlio del famoso Orio, si sa molto meno. L’ho conosciuto a Repubblica a Milano. Era uno e bino, trino, o chissà quante altre ancora: borghese ma progressista, non era bello ma piaceva alle donne, frequentatore e animatore dei salotti che poi raccontava senza pietà. Grande affabulatore, sempre ironico, elegante anche con i vestiti ciancicati. Qualcuno di lui scrisse che “nel suo lungo percorso non è mai caduto nell’errore di annacquare la sua libertà di giudizio con il senso dell’opportunità”. Guido indossava sempre delle calze rosse, quasi cardinalizie. Un modo di dichiararsi diverso anche nei particolari. A Vergani e Bilenchi ho cercato di rubare tutto quello che gli potevo rubare: l’onestà intellettuale, l’indipendenza di giudizio, l’attenzione alla scrittura, la voglia di stare dalla parte della gente comune. E poi l’ironia. Pur sapendo che la mia preziosa refurtiva, disgiunta dai proprietari originari, era meno commerciabile, ho provato a venderla lo stesso. Anzi, a regalarla. Ho cercato di condividere, spesso senza dirlo, l’eredità Bilenchi-Vergani con la redazione e con tutti quelli che in questi anni hanno lavorato con me a Il Nuovo Corriere, “il giornale più libero di Firenze”, ci dicevamo sempre. Insieme abbiamo fatto battaglie indimenticabili, scoop, inchieste, interviste, titoli divertenti, pungenti, cattivi. Provando a fare quel lavoro che dovrebbero fare tutti i giornalisti: non consentire niente al potere, rispettarlo ma affrontarlo senza paura. E poi dare voce a chi non ha voce: le nostre pagine sono state sempre piene di nomi, di interventi, di richieste, di lamentele, di indicazioni, di proteste di chi non viene mai ascoltato. Anche Cultura Commestibile, felice intuizione di Aldo Frangioni, è nata per dare spazio a uno squadrone di intellettuali, anche di altissimo valore, che non si riconosce nei modi tradizionali e omologati di fare cultura, quelli che fanno audience ma non fanno riflettere, non stimolano. E Asilo Politico? Quando Il Manifesto ha chiuso le sue pagine fiorentine abbiamo aperto le nostre alle loro idee. Ne condividiamo pochissime, ma cosa importa? L’importante è che non restassero senza voce. Avremmo fatto lo stesso anche con altre testate di qualunque parte politica nella stessa situazione. Ora che è arrivato il nostro momento non abbiamo voglia di scrivere la parola fine. Per un motivo semplice: lo spirito de Il Nuovo Corriere non morirà mai. Vivrà sempre in quei giornalisti che sapranno fare il loro dovere e il loro mestiere “senza cadere nell’errore di annacquare la libertà di giudizio con il senso dell’opportunità”.

 

 

Possiamo dare una mano al Nuovo Corriere?

Chi segue questo blog sa che quasi tutto il materiale che viene pubblicato qui ha una sua vita cartacea sulla prima pagina de il Nuovo Corriere di Firenze.

Oltre a quanto leggete qui, da un anno, il sabato insieme ad altri amici facciamo uscire, sempre sul Nuovo Corriere, un inserto culturale, Cultura Commestibile, che a noi e a diversi lettori piace molto.

Domani il Nuovo Corriere non sarà in edicola. I suoi giornalisti e i suoi poligrafici, cioè tutti quelli che il giornale lo fanno e consentono ai rompipalle come me di poter scrivere, sono in sciopero dopo che la proprietà ha proposto un piano di ristrutturazione a dir poco drastico.

Qui trovate il comunicato con cui indicono lo sciopero e questa mattina hanno promosso un’assemblea e una conferenza stampa per spiegare le loro ragioni.

Sono momenti difficili per tutta la stampa: oggi pare che chiuda anche il Riformista. Non so cosa si possa fare, a parte stare vicini a quelli che rischiano seriamente il proprio posto di lavoro. Ma se avete qualche idea, qualche soldo da investire, forse potrebbe essere il momento giusto.

 

Il pane della domenica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 1 marzo 2012.

Da buon liberale quando ho sentito Monti affermare che, col suo governo, i fornai avrebbero potuto fare il pane di domenica sono sobbalzato. Ma perché, mi son chiesto, lo Stato si impiccia se il mio fornaio ha voglia di svegliarsi alle 4 anche di sabato per farmi avere la pagnotta calda anche per il desco domenicale (facendomela pagare tra l’altro non poco)?  Poi però, un altro pensiero mi è sovvenuto: ma io sono anni che compro il pane fresco la domenica!

Così mi sono messo a capire se il mio fornaio di fiducia stesse attuando una forma di disobbedienza civile liberale o se agisse nel rispetto della normativa e ho scoperto che era buona la seconda. Infatti la Regione Toscana nel maggio dello scorso anno, con apposita legge (la 18 del 2011) ha disciplinato il settore della pianificazione e ha concesso, all’art. 4, ai comuni la potestà di far aprire o meno i fornai di domenica.

Certo la formula dell’articolo è un po’ complessa e consente ai comuni l’apertura “per rilevanti esigenze di servizi alla collettività” che, evidentemente, i comuni non interpretano come carestie o sommosse, ma con la semplice volontà dell’esercente di offrire un servizio anche alla domenica, interpretazione che finora non ha fatto sobbalzare sulla sedia la Regione.

La data del provvedimento non è banale. Erano vive, nel maggio scorso, le polemiche tra Rossi e Renzi sulle aperture festive e domenicali e le prese di posizioni di sindacati e cooperazione sul tema. Polemiche riprese e rinfocolate dal presidente della Regione e dagli stessi sindacati, compreso ricorso alla Corte Costituzionale, proprio sul tema delle aperture degli esercizi commerciali varate dal governo Monti. Aperture che contrastano coi diritti dei lavoratori se vendono alimentari o vestiti, mentre servono la causa del popolo se producono il pane per le masse?

La domanda allora sorge spontanea ci sono orwellianamente esercizi commerciali un po’ più esercizi di altri?

Come la neve fa cantare Renzi fuori dal coro della comunicazione

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 febbraio 2012.

Alla fine la neve è arrivata. Poca o tanta dipende da quale prospettiva la si guardi: seguendo la nevicata sui social media pareva che fosse in corso una “tormenta” (come twittava un autorevole amministratore cittadino), con stoici inviati di testate importanti costretti ad una notte in bianco per seguire i lavori di pulitura strade. A guardarla dalla finestra di casa ci pareva una nevicata come ne capita ogni tanto d’inverno. Detto questo va premesso che la macchina del Comune e della protezione civile ha consentito di minimizzare i disagi e liberato le strade garantendo la viabilità verso scuole e luoghi di lavoro, in città ma anche nell’hinterland. Quello che però interessa qui è la gestione della comunicazione dell’evento, con la creazione e l’amplificazione di un effetto “ansia” già presente dopo la nevicata di due anni fa e il disastro organizzativo di quell’evento. Certo a muovere gli amministratori pubblici c’era quel principio di precauzione che declinato alla fiorentina recita più o meno “meglio aver paura che buscarne”, più che comprensibile certo ma che riflette, almeno nel caso del primo cittadino fiorentino, anche un modello comunicativo fatto di enfasi, sovrapposizione tra comunicazione personale e comunicazione istituzionale e sovraesposizione di messaggi e informazioni, effimere o per la natura del media da cui si lanciano o per la durata del messaggio prima che ne arrivi un altro. Non sta a noi dire se questo tipo di comunicazione sia o meno efficace (dipende molto dallo scopo naturalmente)  ma ci pare utile sottolinearne la differenza rispetto a un modello comunicativo nazionale che, negli ultimi mesi, è profondamente cambiato. Insomma non sono più i mesi (e gli anni) di Berlusconi con la sua roboante presenza e ingombranza, tempi in cui Renzi pareva l’unico del centrosinistra a cantare intonato al mainstream comunicativo plasmato dal Cavaliere. Nell’era della sobrietà di Monti, l’effetto è quello di una voce dissonante (non per questo sia chiaro meno affascinante). Monti non sovrappone la propria comunicazione personale (anzi  non ne ha proprio) con quella del governo. Non ha account twitter o facebook, parla attraverso i canali istituzionali o in conferenze stampa fiume che hanno l’aspetto (e il rigore) di lezioni universitarie, humor compreso ma che manifestano un rapporto adulto col cittadino, messo nella condizione non solo di essere informato ma di poter capire quanto comunicato. Certo non è esente da scivoloni, come la pagina alla nordcoreana con gli estratti delle lettere al premier con la bambina che lo chiama nonno Mario.  Tuttavia siamo di fronte ad uno stile diverso che sembra essere molto meno presente sui media (poi in realtà questo governo parla un sacco), improntato a un meneghino spirito del fare, del far sapere senza però farci romanzi sopra. Dunque nel riposizionamento in corso da parte di Matteo Renzi paiono cambiate molte cose (la tempistica, l’attenzione dal nazionale al locale, una propensione a parlare di ciò che fa qui piuttosto di quello che farà per il Paese) ma non l’irruenza comunicativa, una scommessa precisa nei confronti della sobrietà dei professori.

I due polli di Renzi e De Magistris

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 19 gennaio 2012.

Tempi duri per i polli dei sondaggi, quei due pennuti che, secondo la famosa definizione di statistica, se io ho in sorte di mangiarne due e il mio vicino nessuno, le statistiche rilevano che ne abbiamo comunque mangiati uno a testa.

Indici, spread, serie annuali ormai segnano la nostra vita quotidiana e sono ormai argomento di conversazione comune come una volta lo erano il pressing, il fuorigioco o la moglie dell’arbitro. Dati che entrano e che escono (a proposito i CDS, le assicurazioni sul rischio di fallimento degli Stati che fine han fatto non li cita più nessuno?) che ci mettono di buono o cattivo umore e che ci fanno comunque sentire tutti un po’ esperti di economia, finanza.

Non bastasse l’interpretazione dei dati passati, ci si mettono anche i vaticinatori di futuro, le agenzie di rating, che svolgono l’ancestrale funzione assolta nei tempi antichi da oracoli e sacerdoti senza sgozzare capretti o interpretare il volo degli uccelli.

Infine mai vanno in pensione i sondaggi, che rilevano intenzioni di voto, percezioni e umori e che, tecnici o non tecnici al governo, affollano le agende e i pensieri dei nostri politici, tanto che molto spesso si è avuta l’impressione (e non solo quella) che fossero queste rilevazioni statistiche a campione a dettare l’agenda e a muovere le decisioni degli attori politici nazionali o locali. Ecco perché fa rumore la classifica del gradimento degli amministratori locali che ogni anno pubblica il sole 24 ore. Un’indagine che non rileva la qualità di un sindaco o presidente di regione o provincia ma solo il suo gradimento, categoria ben difficilmente quantificabile in numeri.

Spiegato quindi perché capita, come è capitato quest’anno, che il primo cittadino di Firenze, crolli dal primo al 51° posto di tale classifica. In termini calcistici un tonfo paragonabile soltanto a una retrocessione dalla finale di Champions alla terza divisione. Eppure se guardiamo l’azione amministrativa svolta nel 2011 da Renzi, non si scorgono, pur in presenza di una conflittualità sociale più elevata e di alcune decisioni meno condivise, azioni che per numero e portata dovrebbero evidenziare un tale tonfo. Se poi si gira per la città la popolarità del sindaco non appare crollata, per non parlare della stampa locale dove gode, seppur in maniera minore, di un’ottima popolarità.

Verrebbe quindi da pensare che o fossero troppo ben disposti con lui nell’anno passato i fiorentini intervistati o troppo astiosi quelli sondati quest’anno e che, in questo caso, non abbia digiunato Renzi nel 2011 lasciando a De Magistris i due polli, ma che comunque almeno una coscia l’abbia mangiata pure lui e che non avesse nel 2010 rischiato l’indigestione nemmeno lui.

Liberalizzare non vuol dire obbligare

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 gennaio 2012

Il presidente della Regione, Enrico Rossi, ha annunciato ricorso contro il provvedimento del governo Monti sulla liberalizzazione degli orari e delle aperture dei negozi. Il principio su cui si basa il ricorso è, probabilmente, fondato dato che il titolo V della Costituzione prevede la potestà regionale in materia; tuttavia le motivazioni politiche su cui giustifica quel ricorso, a parere di chi scrive, molto meno.
Infatti ci dice Rossi che la liberalizzazione obbligherà i commercianti a stare aperti sempre e andrà a danno dei piccoli esercenti contro i grandi gruppi. Il punto di fondo, sta in quel verbo: obbligare. Se una cosa dovrebbero fare le liberalizzazione è togliergli gli obblighi e lasciare facoltà al cittadino di scegliere. Dunque con la liberalizzazione i negozi dovrebbero poter decidere se essere aperti e, nel caso di attività a conduzione singola o familiare, questo sarebbe un problema che al massimo attiene all’organizzazione di quella famiglia. Caso diverso laddove esistono dipendenti e, in quel caso, non solo è ammessa ma necessaria la regolamentazione del pubblico non limitando le aperture ma consentendo condizioni economiche e lavorative eque e degne ai lavoratori, come rispetto dei turni e pagamento di straordinari. Su questo, dovrebbe concentrarsi l’azione di politica e sindacati, non nell’impedire l’apertura perché non si è in grado di controllare e garantire le condizioni dei lavoratori. C’è infine un soggetto che nella nostra discussione sul mercato del lavoro stenta sempre a inserirsi: il cittadino consumatore o utente. Come se nella nostra vita fossimo soltanto lavoratori o inoccupati o al massimo elettori, mai invece tutelati nella nostra funzione di consumatori/utenti. Dei nostri diritti di consumatori o della nostra convenienza o della nostra organizzazione di vita o familiare (con le ricadute per esempio sul traffico) si stenta sempre a prendere coscienza di fronte ai (sacrosanti) diritti dei lavoratori. Come se fossimo persone diverse.
Caso diverso, invece, la tutela dei giorni di festa. In quel caso l’azione limitante delle Istituzioni è, a mio avviso, necessaria. La costruzione infatti di uno Stato, di un sentimento di identità comunitaria, passa infatti anche da riti e simbolismi come sono appunto le feste. E’ così da millenni e mantenere insieme uno spirito comunitario è compito delle istituzioni. In quel caso la singola libertà è valore minore della libertà collettiva che si celebra (sia quella del lavoro, della Liberazione o di un sentimento religioso condiviso).
Infine, sia detto per inciso, ci si poteva risparmiare il richiamo alle autorità cattoliche. Come se in questo Paese il monopolio delle festività e del riposo sia appannaggio di un’unica tradizione religiosa, seppur maggioritaria. Come se i cittadini (da sempre) abituati a pregare di giorno lavorativo avessero ancor meno tutela di quelli che alla domenica vanno a messa.

Il razzista al nostro fianco

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 dicembre 2011.

Non so se ha senso disquisire della follia di Casseri, come quella di Breivik, o dei tanti, troppi, omicidi che popolano questo mondo. Di sicuro però ha senso ragionare, conoscere, estirpare, l’odio che li muove che ne nutre la follia omicida. Sia quell’odio organizzato, militante, di cui Casseri era espressione, sia quello latente che serpeggia in tanti cittadini comuni, che di Casa Pound conoscono l’esistenza solo per i manifesti che inzozzano i nostri muri. Ai primi, peraltro più facilmente rintracciabili, si risponde applicando le leggi che il nostro Stato si è dato a partire da quell’apologia di fascismo o alla legge Mancino oggetto di una rivisitazione culturale e politica nefasta negli ultimi anni. E’ di qualche anno fa la bella inchiesta di Paolo Berizzi Bande Nere (Bompiani 2009) in cui vengono descritte le decine di movimenti della nuova destra sempre meno legata ai vecchi miti del ventennio e molto più in grado di calarsi nelle realtà sociali delle nostre città, nell’odio che serpeggia, nel bisogno, umano e ancestrale, di trovare un nemico (di solito l’altro) a cui dare la colpa. Ed è indubbio che si è avvertito un lassismo nei confronti di questi movimenti, sia per sottovalutazione politica sia per una società civile non più adusa a pensarsi come una comunità, un tutto interdipendente. E’ in questo terreno che sorge il razzismo latente, quello di solito che ha in premessa espressioni come “io non sono razzista però…” oppure “io ho molti amici ebrei, gay, neri…” E anche le cronache dei giornali di ieri sono tristemente piene di queste espressioni. Dai commercianti di piazza Dalmazia (tra i quali segnala un amico barista qualcuno non ha avuto nemmeno il cuore di rispettare i 10 minuti di lutto cittadino) al consigliere regionale Donzelli (chi altro altrimenti?) che ha emesso un delirante comunicato in cui alla fine dava la colpa dei fatti di sangue di martedì ai senegalesi e alla sinistra che governa la città. Un comunicato in cui è assente una qualsiasi forma di pietas nei confronti di persone uccise in mezzo a una strada, una cassa di risonanza non certo ai facinorosi neonazisti (almeno lo speriamo nelle intenzioni) ma a quell’odio sordo del razzista che abita accanto a noi. Che, fortunatamente, non armerà la mano come Casseri ma sempre più tollererà e dimenticherà anche la violenza e l’odio. Ieri tutte le istituzioni, comprensibilmente, hanno dichiarato che Firenze non è razzista. Purtroppo non è così anche se ancora si tratta di minoranza ma non certo isolate, occorre allora agire e anche in fretta, con le armi della conoscenza e della giustizia.

L’assalto al cielo che parte dalla Leopolda

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 novembre 2011.

Nel caso di Matteo Renzi, per Pierluigi Bersani, la paura fa ’80. Come gli anni 80 evocati dal segretario del PD in risposta all’adunata renziana di Firenze. Sgombriamo subito il campo, Bersani non ce l’aveva certo contro Duran Duran o Spandau Ballett, ma piuttosto verso il decennio dell’affermazione neoliberista nel mondo e di Craxi nella sinistra italiana. Un tabù che si pensava superato dopo l’apertura che fece l’allora segretario DS Fassino e che invece rimane come anatema assoluto da scagliare verso il nemico di turno. Un anatema che, nella migliore tradizione inquisitoria, della “bestia” cela persino il nome.

Ma almeno Bersani ha, come scusante, di aver pronunciato quell’anatema quando ancora il big-bang non aveva prodotto i cento punti, che, una volta letti, possono tranquillizzare chi vive come un’ossessione quella stagione di riformismo e d’innovazione del paese e ne vede tracce dappertutto  anche laddove, come in questo caso, non ve ne sono.

Perché intanto i cento punti di Renzi non sono affatto un programma di governo. E c’entra poco la vocazione wiki (un programma che si crea in rete grazie all’apporto di tutti) ma piuttosto lo scopo che i cento punti e la Leopolda II hanno. E lo scopo di Renzi non è, al momento, quello di proporsi al governo del Paese piuttosto quello di ottenere primarie libere e conseguentemente vincerle.

Non occorre quindi accanirsi contro la disomogeneità delle proposte, la vaghezza di molte e in alcuni casi il fatto che quelle cose o sono state fatte o sono in contrasto con altre proposte. A Renzi non interessa un‘idea di Paese da governare, interessa un’offerta in cui tutti, o almeno molti, possano riconoscersi e prendere un pezzettino all’interno del supermarket della contemporaneità che rappresenta (splendida definizione di Stefano Menichini direttore di Europa).

Questo è lo scopo celato sotto il “tocca a te” vergato da Edoardo Nesi: tocca a te scegliermi perché le mie 100 offerte sono lì  belle e colorate. Come lo erano quelle per i Fiorentini, cambia la scala non il marketing. Così come il frigorifero SMEG in bella posta sul palco, oggetto comune ma in versione trendy, riconoscibile a tutti ma desiderabile nel suo essere come quello che abbiamo in casa ma meglio.

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